La genesi di un progetto fotografico – Anamnesia

Nei corsi dei quali sono docente per Reflex-Mania c’è sempre, alla fine, l’invito a realizzare un progetto finale. Anzi, in “Smettere di Essere Principiante” questo aspetto è proprio il tema stesso del corso.

Viviamo in un’epoca in cui la fotografia è diventata un linguaggio diffuso, addirittura invadente, e chiunque realizza delle fotografie.

Davvero, come diceva Moholy-Nagy, “non colui che ignora l’alfabeto, bensì colui che ignora la fotografia sarà l’analfabeta del futuro”: solo che quel futuro è qui, è ora.

Il punto è che sebbene tutti abbiano scoperto la fotografia come mezzo di comunicazione rapida ed efficiente, e gli smartphone abbiano provveduto a renderla tecnicamente alla portata anche dei più sprovveduti (e questo, Moholy-Nagy non poteva immaginarselo), resta il problema di “cosa” comunichiamo.

Barthes diceva che è impossibile apparire intelligenti in una foto se non si pensa a qualcosa di intelligente. Parafrasando, se non si hanno delle buone idee, cosa diamine potremmo mai comunicare?

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Dunque, rispetto a un passato nemmeno tanto lontano, quel che un fotografo deve imparare non è tanto a realizzare foto corrette (a fuoco, non mosse, ben inquadrate, ben esposte) e magari spettacolari, quanto ad avere delle buone idee e a saperle comunicare correttamente, in modo efficace.

Tra l’altro questo rende assai più facile essere originali, a distinguersi dalla massa, per il semplice fatto che (quasi) chiunque può scattare una “bella” foto, ma le idee sono invece uniche e personali: pur lavorando sullo stesso tema, due fotografi creeranno per forza due progetti diversi, perché entrano in gioco lo sguardo, la cultura, le convinzioni di ognuno e – per fortuna – siamo ancora tutti diversi tra noi.

Perciò mi sforzo sempre di raccomandare a ogni fotografo con cui mi confronto di porre grande attenzione a ciò che si vuol comunicare e a come farlo, cercando anche di adeguare l’aspetto tecnico a quello contenutistico.

Insomma, ogni aspetto di un progetto fotografico va valutato con grande cura, se si vuole realizzare qualcosa che abbia un senso. Che poi piaccia a coloro che lo vedranno… beh, questo è un altro discorso e d’altra parte anche grandi autori sono poi stati “bocciati” dal pubblico. Ma si lavora principalmente per se stessi, e la coerenza ha spesso un prezzo.

Detto tutto questo, vorrei raccontarti la genesi di un piccolo e semplice progetto per mostrarti come funziona il processo. Ho scelto questo “progettino” proprio perché maneggevole, ma anche completo: dall’ideazione, alle scelte tecniche, alla realizzazione, al mezzo di diffusione, tutto ha richiesto poco più di un mese. Capita di rado, visto che in genere per i miei progetti impiego anni. Per questo mi sembra un esempio valido: una pillola di progetto.

L’idea mi girava nella testa da tempo: avendo visto tanti lavori di fotografi intenti a raccontare la propria vita (o alcuni aspetti di questa) in maniera creativa e interessante, mi sarebbe piaciuto realizzare anch’io qualcosa del genere: creare un insieme coerente di foto che non fosse un’autobiografia (non sono così megalomane!) ma che mi raccontasse in qualche modo.

Sin da subito sapevo di voler creare una piccola pubblicazione (una Zine, come si definiscono oggi) a tiratura limitata e da distribuire tra amici e conoscenti. Una decina di copie al massimo.

Però non era facile trovare un modo efficace per concretizzare il tutto. Ho iniziato raccogliendo un po’ di fotografie del mio “album” personale. Non amo scattare foto ricordo e dunque di immagini ne avevo davvero poche, il che ha reso il tutto assai più facile. Amici, persone importanti di molti anni fa, eventi significativi, avevo lì davanti a me uno spaccato degli ultimi trent’anni della mia vita. E anche una foto di quando avevo 16 anni, che è diventata la copertina, come dirò dopo.

Oggi i progetti realizzati con fotografie d’archivio o addirittura recuperate nei mercatini o online sono molto diffusi, ma non volevo realizzare una cosa del genere: intendevo filtrare il tutto attraverso lo sguardo e la “psiche” del “me” di oggi.

Dunque l’idea era di riprodurre questo insieme di foto, ma mi serviva un ulteriore spunto su come farlo riuscendo al contempo a rendere il concetto di passato e di memoria. Come sappiamo la memoria inganna sempre: i nostri ricordi sembrano nitidi e invece sono sfocati, imprecisi, spesso infedeli.

Ci sembra di poter raccontare un evento, un incontro, il volto di una persona alla perfezione, ma dobbiamo arrenderci di fronte al fatto che è invece tutto un’illusione. E non lo dico io, lo dice la scienza: il nostro cervello è organizzato per dimenticare, non per ricordare.

Perciò, se i ricordi sono poco nitidi, allora le foto dovevano esserlo anche loro. Sfocato? Mosso? Mi sembrava davvero troppo facile. L’idea definitiva mi è venuta scattando alcune foto di prova con un drone giocattolo che un amico mi ha regalato tempo fa.

Il concetto di fondo è che oggi viviamo nell’era del digitale che cerca in modo esasperato la nitidezza delle immagini da condividere online (e non solo). Qui l’idea è opposta: si cerca la minore nitidezza e risoluzione possibile, e si esalta – grazie alle stesse tecniche utilizzate per incrementare la nitidezza, portate all’estremo – proprio una resa scadente della foto, che però in questo modo diventa anche “altro”, una specie di “patchwork di pixel”.

Lo snodo centrale infatti sono proprio gli artefatti jpeg (che ho definito “artefatti fatti ad arte”) come insieme di 4 pixel (o multipli) che vanno a formare un quadrato: normalmente nelle foto non si vedono, anche quando li si va a cercare.

Ho provato e anche ingrandendo in modo esasperato un dettaglio di una foto scattata con una mirrorless ovviamente si perde dettaglio, ma non si evidenzia un mosaico di pixel. Invece, realizzando delle foto col drone giocattolo si ottengono foto pessime, di risoluzione minima, costituite da quadratini più o meno grandi e colorati. A questo punto applico due volte il comando nitidezza, al massimo, poi ingrandisco la foto (passo a circa 4000×2500 pixel) e applico ancora una volta la nitidezza.

Ora la foto è ridotta a un insieme di artefatti colorati, spesso con dei grandi bordi neri (a volte invece bianchi) a delimitare il soggetto. Basta ora sistemare le curve e aumentare la saturazione al massimo (altro comando che le persone utilizzano a piene mani nelle foto che condividono online) per avere un risultato che a me piace molto e che trovo significativo.

Poi mi è venuto in mente che avrei potuto sfruttare non la scomoda fotocamera del drone, che va connessa via WiFi a uno smartphone, ma una di quelle per bambini. Non una di quelle “Toy Camera” (a pellicola) che noi adulti utilizziamo in modo creativo (tipo la Diana o La Holga): no, proprio un giocattolo in grado di scattare foto da 0,5 megapixel, dunque piene di artefatti jpegab origine proprio come quelle dei vecchi “fotofonini” di vent’anni fa, o delle prime fotocamere digitali, altro richiamo al passato.

Poi per lavorare le foto nel modo che ho detto, ho scelto di non ricorrere a Photoshop o simili, ma a un software molto semplice e gratuito, FastStone. Questo per mantenere una certa coerenza con il mio “me” di tanti anni fa, ancora inesperto con i software.

Insomma, si tratta di un modo per sottolineare come i ricordi siano poco definiti, imprecisi e a malapena aderenti alla realtà. Tali ricordi sono semplificati, con dettagli che si aggrumano, esattamente come nelle foto jpeg, perciò si può dire che l’aggiungere la maschera di contrasto a questo tipo di foto è un’operazione simile a quella che si fa mentalmente per cercare di recuperare appunto i dettagli della memoria, spesso ottenendo comunque dei ricordi degradati e imprecisi. Infatti non si aggiungono davvero dettagli, semplicemente si esaltano quelli già comunque presenti. Insomma l’operazione fotografica mima quella mentale.

Guardando le foto da vicino sono solo quadratini colorati e occorre allontanarsi un po’ per capire cosa si stia guardando, e questa è la condizione di ognuno rispetto alle cose che ci sono capitate, alle giornate trascorse piacevolmente o nel dolore, agli incontri fatti. La nostra vita è sempre “pixellata”, non riconoscibile se non per sommi capi. Il gesto di allontanarsi per rendere più comprensibile l’immagine ricorda il gesto di “mettere le cose in prospettiva” e accettare che quel che ricordiamo è solo una minima parte di quanto realmente vissuto.

Il mio passato non è particolarmente “eroico” o diverso da quello di milioni di altre persone, ma è in questo che credo sia interessante: è come la vita di ciascuno, fatta di cose semplici, in cui gli eventi eccezionali – che pure sono quelli che “focalizziamo” meglio anche perché spesso ne abbiamo delle fotografie o dei video – in verità non sono davvero i più importanti o quelli più significativi dal punto di vista temporale. Di fronte ad anni interi di vita normale, una settimana in vacanza o un matrimonio, che cosa sono? Nulla, o poco più.

La modalità di ripresa e rappresentazione si accorda bene con l’idea del ricordo, della incapacità a volte di vivere intensamente e in modo proficuo le nostre giornate, della nostra disperata ricerca di un senso che arriva troppo tardi, quando magari solo un’ultimo respiro ci chiarisce il mistero. Il racconto parla di questo, in fondo: di come non sappiamo approfittare delle occasioni per crescere ed imparare, di come non vediamo quanto la vita faccia per indicarci una strada che possa portarci lontano mentre noi scrutiamo l’orizzonte, senza deciderci a seguirla.

Per questo le foto indagano il tema dal mio personale punto di vista (ovviamente). I soggetti sono quasi banali: strade e vicoli dove passo di solito, gli oggetti del quotidiano, la mia casa, il mio lavoro, le persone che mi sono vicino, le cose che faccio, ma soprattutto le persone che hanno caratterizzato il mio passato o rappresentano il mio presente, e spero il mio futuro.

A questo punto avevo le fotografie necessarie, realizzate con una tecnica adeguata al tema prescelto. Mi mancava ancora il titolo che, dopo un po’ di ragionamenti, ho scelto: “Anamnesia”.

Come l’Amnesia è il fenomeno per cui si perde la memoria, così l’Anamnesia è il processo con cui la si ricostruisce.

E’ un termine molto usato in campo medico ma nasce in ambito filosofico ed è soprattutto Platone a porne le basi. Per il filosofo greco si tratta di recuperare dei ricordi ancestrali, che sono dentro di noi “a priori” e che testimoniano la presenza di un’anima immortale. Più recentemente la scienza dell’Epigenetica che studia la trasmissione non genetica tra le generazioni di idee, paure (e fobie), conoscenze è andata in una direzione simile. In tal modo anche scientificamente si testimonia la possibilità di una memoria che passa tra le generazioni.

Perciò il progetto, pur partendo dall’esperienza personale, cerca anche di indagare quello che siamo, e come il passato – in senso ampio, transpersonale – influenzi le nostre vite anche se non possiamo ricordarlo in senso conscio, né il nostro individuale né quello collettivo, se non negli episodi che ci rivelano a sprazzi la sua esistenza.

Dunque si tratta del tentativo di rimuovere questa amnesia, un processo che comunque porta a “immagini” sfocate e poco nitide e tuttavia ci restituisce almeno delle tracce di quel che è stato e di quel che siamo stati, e dunque ci fa capire perché siamo quel che siamo.

E’ stato un progetto catartico, per quanto breve. In fase di editing ho cercato di mantenere una coerenza interna – diciamo temporale – però scegliendo anche di accostare le fotografie in modo apparentemente casuale, affinché risaltasse – ancora una volta – il modo in cui ricordiamo che è, appunto, “stocastico” (“dovuto al caso, casuale, aleatorio”).

In copertina ho collocato la foto più vecchia che avevo di me stesso, a 16 anni, con i capelli appena fatti: una foto realizzata nello studio di mio padre, che a sua volta era fotografo, e questo mi è sembrato significativo.

Ricordo che ero appena tornato dal barbiere con questo “casco” di capelli cotonati (come si usava nei primi anni ‘80) e mio padre mi chiese subito di mettermi seduto perché voleva fotografarmi. Anche in questo caso: il ricordo è vago e sfocato, ho sprazzi di memoria su come fosse organizzato lo studio, sulla Rollei biottica che utilizzava, sulle luci fisse riflesse sulle pareti. Ma chi può davvero ricordare gli odori e le sensazioni, i pensieri di quel momento, l’imbarazzo o le parole esatte che mi disse mio padre nel mettermi in posa? Non serve applicare la maschera di contrasto e aumentare i colori: il ricordo magari è più bello, ma non più presente. Insomma, mi sembrava la copertina ideale. Per scelta non ho messo il titolo, che compare solo all’interno.

L’impaginazione è stata semplice, le foto sono a filo, una dopo l’altra, spesso in doppia pagina. La stampa l’ho realizzata in una tipografia della mia zona, ovviamente in digitale. Sono molto contento del risultato. Ho scoperto solo successivamente che anche Thomas Ruff (esponente importante della cosiddetta “Scuola di Dusseldorf”) aveva realizzato qualcosa di simile al mio progetto, diventato anche un libro dal titolo significativo di “JPEG”.

Davvero non si riesce a inventare nulla di nuovo! Però l’ispirazione di Ruff è completamente diversa dalla mia, il suo è un progetto che riguarda guerre e catastrofi nel mondo (è stato ispirato dalla tragedia dell’11 settembre), il mio è un’indagine più personale e ristretta.

Il che credo indichi con chiarezza come, anche utilizzando tecniche simili, semmai apparentemente inventate ex novo, alla fine ogni fotografo, in quanto essere umano, è diverso dagli altri e dunque quel che racconta sarà sempre e comunque originale. Per questo non bisogna dare troppa rilevanza all’aspetto meramente tecnico: quel che conta, lo ripeto per la milionesima volta, è quel che si ha da dire.

Se non hai nulla da comunicare non basterà la più bella foto del mondo a fare di te un vero fotografo.

P.S. – Seguendo il link qui sotto potrai accedere alla pagina PayHip da cui scaricare gratuitamente la versione PDF (eZine) del mio progetto. Spero ti piaccia. Sono ovviamente ben accetti commenti e considerazioni: puoi scrivermi andando sul mio sito www.marcoscataglini.eu

LINK ALLA VERSIONE DIGITALE GRATUITA DELLA ZINE 

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