
C’è una frase che più di ogni altra descrive al meglio la portata rivoluzionaria dell’opera di André Kertész, un aforisma del grande Hernri Cartier-Bresson che da solo racchiude un’intera carriera:
“Tutto quello che abbiamo fatto, Kertész l’ha fatto prima”.
È evidente che le parole di un maestro come Bresson definiscano un fotografo seminale. Una personalità complessa che ha definito l’idea di fotografia agli inizi del Novecento per fissarla nei decenni a venire.
E infatti – come capita in tutti i campi dell’arte per i geni assoluti – André Kertész non è facilmente etichettabile in un genere.
La sua opera non è classificabile all’interno dei generi della fotografia. Certo,la strada è la protagonista più ricorrente nei suoi scatti, eppure la definizione di street photography risulta essere limitativa per André Kertész. In linea di massima, tutto il suo lavoro fu teso a immortalare gli aspetti più ordinari della vita, ridando loro una nuova prospettiva.
In fondo… togliere dalla banalità un oggetto, una persona o un paesaggio, non è forse il fine ultimo della fotografia? Questa operazione, solo in apparenza facile e scontata, fu alla base di tutta l’opera di André Kertész.
Budapest, Parigi e New York furono le sue città. Nella capitale ungherese mosse i suoi primi passi, in quella francese entrò in contatto con le personalità più importanti dell’arte. A New York, che non lo comprese subito, ottenne una nuova cittadinanza e la consacrazione mondiale.
André Kertész: i primi anni in Ungheria
Nato a Budapest nel 1894, André Kertész trascorre la sua infanzia in una famiglia della media borghesia ebraica, insieme ad altri tre fratelli. A 15 anni perde il padre, tre anni prima di diplomarsi all’accademia commerciale della capitale ungherese.
Nello stesso periodo, acquista la sua prima fotocamera, una maneggevole ICA 4.5×6 con la quale realizza una fotografia divenuta celebre, il ragazzo dormiente, ritenuta la sua prima immagine di una certa importanza.
Con l’inizio del primo conflitto mondiale, Kertész si arruola nell’esercito austro-ungarico partendo volontario per il fronte russo-polacco. Per questa esperienza porta con sé una Goerz Tenax da 75mm grazie alla quale fotografa la vita in trincea che gli procura una grave ferita alla mano destra: una convalescenza che lo rende inabile per un anno. In questo periodo i suoi soggetti più ricorrenti sono la madre e il fratello Jenő.
Con la Rivoluzione ungherese del 1918, la maggior parte dei suoi scatti al fronte vanno perduti. L’anno successivo conosce Erzsébet Salamon (Elisabeth Sali) che diventerà sua moglie.
Gli anni parigini
L’esperienza in Francia, durata poco più di dieci anni, rappresenta la fase della piena coscienza di di André Kertész come artista. Trasferitosi a Parigi nel 1925, nella capitale francese entra in contatto con importanti personalità della fotografia come Robert Capa, Man Ray e Brassaï. Quest’ultimo prestò a Kertész la sua fotocamera, diventando di fatto il suo maestro nelle riprese notturne.
Tra le prime mostre di André Kertész va ricordato l’evento del 1927 che si tenne nella galleria Au sacre du printemps, con un catalogo introdotto dal dadaista Paul Dermée.
Nel 1928 acquistò una fotocamera Leica e iniziò a lavorare per la rivista francese Vu, insieme a Cartier-Bresson, e un anno dopo è tra i nomi della prima mostra indipendente di fotografia – Il Salon de l’Escalier – accanto nomi come Man Ray, Berenice Abbott e Germaine Krull.
Avendo perso i contatti con la fidanzata Elisabeth Sali, inizia una relazione con Rószi Klein che sposa nel 1928 per poi scoprire che Elisabeth non aveva mai smesso di scrivergli. Nel 1932 Kertész interrompe la sua relazione con la Klein e si riavvicina alla prima fidanzata che sposerà a Parigi l’anno successivo.
Del 1933 è la serie delle Distorsioni, in cui André Kertész dà prova del suo grande talento nell’utilizzo della luce per deformare i tratti del corpo umano. Non una prova surrealista, ma la dimostrazione di un approccio fotografico ancora inedito in quel periodo storico.
Nella Ville Lumière, Kertész entra a far parte della comunità artistica internazionale (Picasso, Mondrian, Chagall), consolidando i suoi inconfondibili scatti dall’alto, spesso dalla finestra di casa. Protagonisti delle sue fotografie sono i parchi innevati, le stradine silenziose, la folla tra i ponti della Senna. E poi c’è anche la manipolazione delle ombre, che in alcuni casi sostituiscono le persone e gli oggetti, in altri formano simmetrie e traiettorie.
André Kertész in America
Nell’ottobre del 1936, insieme alla moglie Elisabeth, André Kertész è a New York per l’agenzia Keystone. E quello che sembrava un viaggio per interessi di lavoro risulterà essere la svolta definitiva della sua vita, visto che qualche anno dopo otterrà la cittadinanza statunitense. Gli inizi non furono facili, perché il mercato americano non era abituato alle sue immagini così piene di significato, prediligendo invece uno stile più didascalico.
Per lavorare con riviste come Vogue e Harper’s Bazaar (tra le altre del periodo), André Kertész fu costretto ad allinearsi alle tendenze commerciali del tempo, proprio mentre la sua fama di fotografo stava crescendo in tutto il mondo. Le mostre personali furono sempre più numerose fino al punto che il Bard College gli conferì la laurea honoris causa.
Le sue foto, per gli editor statunitensi sono troppo. Troppo ribelli, troppo ambigue, troppo poco illustrative. Per questa ragione André Kertész è costretto a compiere una scelta: i lavori che gli permettono di mantenersi diventano più convenzionali, sono diversi da quelli che aveva sviluppato tra i boulevard parigini.
In America le tonalità della sua fotografia cambiano: tanto contrasto per mettere in evidenza il carattere industriale di una città come New York. E poi un senso di desolazione e di solitudine, complice la vastità del continente americano e le sue metropoli, che ricorda da vicino i paesaggi urbani di Hopper.
L’America non lo comprende subito, ma a partire dagli anni Sessanta inizia a celebrare il genio che, come altri grandi fotografi, arrivava dall’Ungheria. Nel 1964 il MoMA gli dedica una grande mostra che lo colloca in tutto e per tutto tra i grandi signori dell’obiettivo dello scorso secolo.
From my Window – pubblicato nel 1981 e dedicato alla moglie morte di cancro nel 1977 – raccoglie gli ultimi scatti dalla sua abitazione di Washington Square a New York. Sono immagini fatte con lo zoom durante gli ultimi anni della sua vita, in malattia. André Kertész muore nel 1985 a New York lasciando oltre 100 mila obiettivi.
Un poeta visionario
Kertész ha dimostrato con il suo stile poetico e visionario, lontano da ogni etichetta, che qualsiasi soggetto al mondo può diventare una bella fotografia, carica di significato. E il fatto che non sia facile collocare il suo nome all’interno delle avanguardie del suo periodo, o delle solite tipologie fotografiche, dimostra quanto André Kertész sia stato importante per i nomi che vennero durante e dopo la sua esperienza. In altre parole, André Kertész è un genere che porta il suo nome
Le numerose variazioni di stile, i temi e i linguaggi ogni volta diversi, non ci permettono di collocare il maestro ungherese in un campo estetico preciso, ma non è un problema perché dall’altro canto la sua opera dimostra una versatilità e un’urgenza comunicativa non comune. Si può tranquillamente dire che la strada, i personaggi che la popolano, sia stata preponderante in tutta l’opera di André Kertész, ma non in un’ottica documentaristica. Quindi non i grandi eventi, ma il silenzio della quotidianità. Il paragone con Man Ray, suo contemporaneo, non tiene. Perché in quest’ultimo c’era soprattutto sperimentalismo, mentre in André Kertész è più forte la componente poetica.
Una tipica fotografia di Kertész ritrae un attimo fuggente, un’emozione fugace. Le sue immagini vivono nel ricordo e generano a loro volta ricordi. Di fronte a uno scatto del maestro ungherese, lo spettatore è stimolato a farsi delle domande e a darsi delle risposte soggettive, personali.
Le distorsioni di Kertész
Il soggetto anatomico più classico, il corpo nudo femminile, è qualcosa di diverso per l’obiettivo di André Kertész. E la sua sfida non è quello di rappresentarlo nella sua normalità, ma svelarne i conflitti interiori con delle Distorsioni, che è anche il titolo della sua raccolta del 1933. Già anni prima Kertész aveva sperimentato il tema con due modelle messe di fronte allo specchio deformante di un circo.
I corpi diventano protagonisti di un gioco quasi sadico, assumendo forme allungate che nulla hanno più di umano. L’armonia classica è solo un vago ricordo, ma i due corpi disarmano perché comunicano una bellezza indiscutibile, pur facendo crollare i canoni della normalità e del pudore. Con l’intervento di Kertész, le modelle diventano delle bambole malleabili ed elastiche, trasmettendo un’idea di sessualità totalmente destabilizzante. Le distorsioni di Kertész sono uno dei vertici della sua poetica, perché riportano il punto di vista del fotografo lasciando allo spettatore la libertà di vivere un’esperienza personalissima e (in questo caso) sconvolgente.
Le distorsioni rappresentano il punto di massima sperimentazione stilistica di Kertész: il fine è quello di forzare poeticamente i confini della visione, avvicinandosi (senza mai farne parte formalmente) alla lezione del Surrealismo, dominante negli anni della sua maturità artistica.