
In che consiste l’attività di un fotografo? Facile, dirai: fare fotografie. Creare progetti, produrre libri, progettare mostre, e comunque scattare, scattare e ancora scattare, creando un corpus di immagini che valga la pena vedere, almeno il più delle volte.
Insomma, a prescindere che il fotografo sia un amatore o un professionista, quel che alla fine si ottiene è un archivio, una massa di fotografie che debbono essere ordinate e magari rese disponibili: nel caso più semplice direttamente all’autore, nei casi più complessi a un pubblico, magari eterogeneo, di persone.
Fatto sta che l’altro giorno mi son messo a fare una stima delle fotografie che ho scattato durante la mia più che trentennale attività. Fermo restando che di una gran parte ho perso le tracce (sono disordinato, a volte), da quando mi son messo con impegno a raccogliere le fotografie in un insieme grossomodo organizzato – in cui navigo grazie a una vecchia versione di Picasa salvata prima che Google lo dismettesse, e naturalmente alle parole chiave allegate a ciascuna foto – ho raggiunto dei numeri che a me per primo stupiscono.
Solo il mio archivio sulla Tuscia (il territorio in cui vivo) è composto da alcune decine di migliaia di scatti, tutti selezionati e pronti all’uso!
Ed è questo il punto: l’uso. Da qualche centinaio di fotografie ho ricavato libri e mostre, altre le ho condivise online, ma migliaia e migliaia di scatti non hanno mai visto altri occhi che i miei. Un po’ triste non trovi?
Questo mi ha spinto negli ultimi anni a scattare meno e con più calma. A cercare di fermare questa bulimia fotografica in cui l’attenzione è concentrata tutta sulla produzione e assai poco sullo scopo dei nostri scatti, e sull’uso che ne faremo. Magari quando non calcheremo più il suolo di Madre Terra.
Prova a rifletterci su: hai tutte le tue belle immagini, che ti sono costate fatica e impegno, ben organizzate in una serie di Hard Disk esterni. Ne sei giustamente orgoglioso, e ogni tanto ti fai un giro per rivederle. Eppure tra cent’anni, che ne sarà di loro?
Questo problema se lo sono posti tanti fotografi, e a me capita di pensarci spesso – più spesso del dovuto, in effetti. Sarà che è su questo aspetto qui che il digitale non mi convince del tutto.
Per ovvi motivi, gran parte degli archivi in giro sono composti di foto analogiche: o, meglio, di file digitali tratti da negativi e diapositive. Così si utilizzano le immagini digitali mentre si mantengono al sicuro le sorgenti analogiche. Fotografie scattate nel XIX secolo sono giunte sino a noi e volendo le possiamo ammirare in dettaglio con un semplice giro su Internet.
Se la tecnologia cambierà, i negativi saranno riprodotti ex-novo e nulla andrà perso, ma chi ci dice che lo stesso avverrà con i nostri amati file digitali?
Vent’anni fa ho realizzato dei “corti”, mini-film a soggetto per un concorso, e ovviamente li ho salvati su cassette VHS. Sono anni che vorrei rivederli, ma dove lo trovo un lettore VHS? Certo, si può fare la conversione, o acquistare un vecchio lettore su ebay, ma non mi va di spendere soldi solo per un’operazione nostalgia.
Comunque credo tu abbia capito quel che intendo dire.
Ma non è solo un fatto tecnico. C’è molto di più. I fotografi del passato realizzavano i loro negativi come un pittore poteva riempire una tela. Erano oggetti.
Il negativo lo puoi toccare – meglio se con i guanti di cotone – e guardare contro la luce, e sapere che quella cosa lì l’ha prodotta – che so – Ansel Adams o Edward Weston. I file digitali si guardano, ma non si maneggiano. E una stampa inkjet è decisamente qualcosa di freddamente tecnologico, rispetto alla stampa vintage fatta dall’autore.
Leggevo che il grande Wynn Bullock ha lasciato un archivio di 40.000 negativi. Penso che Adams stia un po’ più su, ma insomma, i numeri sono questi. 60 anni di attività fotografica sono lì, organizzati in scatole “acid free”, pronti a sfidare i secoli.
Gianni Berengo Gardin di negativi in archivio ne ha un milione e mezzo (urca!), un numero spropositato, ma si sa che chi pratica il reportage tende a scattare di più.
Che fine fanno le foto una volta che viene meno il fotografo? Beh, in America gli archivi dei grandi fotografi sono fondazioni private che macinano bei soldoni. Li chiamano “estate”, e autorizzano la pubblicazione delle foto dietro la corresponsione di royalties. E ovviamente vigilano sul buon uso delle foto stesse. Per 70 anni il diritto d’autore garantisce lo sfruttamento delle opere; dopo, amen.
In Italia esistono numerosi archivi, alcuni privati, ma la maggioranza sono pubblici. Si tratta di strutture annesse a Musei, come il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo (www.mufoco.org). Organizzazioni benemerite gestiscono fondi importanti: la Fondazione FORMA per la fotografia (www.formafoto.it) ad esempio, gestirà il citato archivio di Berengo Gardin, dai negativi, alle stampe, ai libri.
Un censimento (www.censimento.fotografia.italia.it) delle realtà di questo tipo presenti nel nostro paese, ci dice che ci sono 197 enti coinvolti, che esistono 276 raccolte e ben 890 fondi: e questo solo in Italia dove, come sappiamo, la fotografia non gode della stessa considerazione di altri paesi. Insomma, niente male.
Quasi sempre, però, parliamo di fotografie del passato (dunque, analogiche) con una particolare propensione – diffusissima nel nostro paese – a considerare l’aspetto documentale della fotografia, piuttosto che quello autoriale.
Insomma, se documenti la vita della città in cui vivi, quelle foto potranno avere interesse per un archivio solo perché testimoniano la vita nella tua città quando tu eri vivo: ma ignoreranno chi sei, come autore. Ci sarà scritto: “Mario Rossi, fotografo amatoriale, ha raccontato la vita quotidiana di Frittole con passione”, o una cosa del genere. Se non fossimo già morti, sarebbe da suicidarsi!
Ma questo ci riguarda tutti anche quando siamo ancora vivissimi: l’essere riconosciuti come “autori” è difficile e spesso non ci si riesce proprio. La legge parla di diritto d’autore, è vero, e basta realizzare l’opera per goderne i benefici, ma questo termine fa riferimento al dato oggettivo che la foto è stata realizzata da una certa persona, non al fatto che la foto sarà ricordata come un caposaldo dell’arte fotografica mondiale.
L’Autore con la A maiuscola è un’altra cosa, e per diventarlo occorre essere riconosciuti, generalmente da critici accreditati. Che poi sarebbe bello sapere chi accredita i critici che accreditano i fotografi: ma questa è un’altra storia. Sta di fatto che spesso non è un fatto di qualità intrinseca delle foto, quanto di “fattore C” (che vai a pensare? Perché mai non potrebbe essere la C di “Cultura”? Vabbe’…)
Ma veniamo alla domanda iniziale e nettamente più personale: che ci faccio con tutte le mie foto? A chi le lascerò, un giorno? Parlo di foto creative o comunque non delle foto ricordo dell’album di famiglia. Il rischio che le nostre sudate immagini finiscano al macero è altissimo. E visto che quasi nessuno fa più negativi e stampe analogiche, è ben difficile che scatole contenenti le nostre opere finiscano in un mercatino per essere rinvenute da qualcuno che poi le diffonderà in tutto l’orbe teracqueo, come capitato a Vivian Maier.
Inoltre, non siamo fotografi famosi e importanti, di quelli considerati “maestri”, le cui foto sono molto ambite da musei e fondazioni varie. Potremmo anche fare un testamento e lasciare il nostro archivio (quei tre-quattro hard disk) a un museo o al MoMa, ma credo finirebbero a fungere da reggiporta in qualche ufficio.
Alcune piccole realtà locali (musei del territorio, biblioteche comunali e così via) potrebbero essere interessate – per i motivi documentali di cui ti ho detto – a ricevere un archivio di foto se strettamente legato al territorio o comunque in tema con gli scopi dell’istituzione (se fai foto di natura, un museo naturalistico potrebbe essere interessato).
L’ideale sarebbe fare queste donazioni quando sei ancora in vita, per goderti la loro gratitudine – se le foto sono buone – o i loro sberleffi se le foto sono pessime. Ma almeno lasceresti questa valle di lacrime sapendo di aver suscitato una qualche emozione, di aver lasciato qualcosa di te. Meglio sbeffeggiati che ignorati, ricordatelo.
Potresti ragionevolmente sostenere che fai fotografia per il tuo piacere personale e che te ne freghi del destino delle tue foto una volta che avrai varcato le porte dell’eternità. Anche perché non ci sarai. Presumo che Van Gogh sarebbe felice di vedere quanto successo abbiano le sue opere, e quanti soldi valgano. Peccato sia morto.
Concordo con te, e in effetti la stragrande maggioranza dei fotografi non pensa affatto a questo aspetto della propria attività. Ma questo è un segno dei tempi. Oggi l’archivio vero, quello dove trovare tutto e ricevere fama e onori – o essere del tutto ignorati – è Internet. Le foto messe nella Nuvola lì resteranno a lungo. I siti di fotografi morti da tempo sono ancora visibili in rete, anche perché i familiari continuano a pagare l’hosting del dominio se non altro per mantenere “in vita” questa parvenza del loro caro scomparso. Internet regala a tutti un po’ di eternità.
Tuttavia, mi vengono sempre in mente quei fotografi d’un tempo, con la loro cura maniacale del negativo, e con la ferrea volontà di eternalizzare il presente, di offrire una testimonianza, di suscitare un’emozione, un sorriso, una riflessione. Forse davvero qualcosa abbiamo perso, durante la strada.
Non ho risposte, ma tema che l’avvento del digitale stia creando masse di fotografie provvisorie, grumi di pixel che “andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia”…