
L’idea per questo articolo mi è venuta da un post di Riccardo Scandellari in cui cita una frase di Wilson Mizner: “se rubate da un autore è plagio, se rubate da molti è ricerca“. In fondo anche Einstein sosteneva che l’obiettivo di un bravo ricercatore è nascondere le proprie fonti.
Insomma, dai, si sta sulle spalle dei giganti e chi può saperlo più di noi fotografi?
Quando sostengo che non c’è più niente da scoprire o sperimentare in campo fotografico vengo vivacemente redarguito da amici e colleghi ma in verità è esattamente così.
E dirò di più: è così sin dai tempi della pellicola. Il digitale consente di fare meglio e in minor tempo quello che già, comunque, si faceva prima. Di questo sono assolutamente certo. Perciò se ci limitiamo a utilizzare una tecnica, e dunque l’autore che semmai l’ha resa famosa, ahimé, siamo tutti destinati a diventare dei copioni, come ai tempi della scuola.
Quel che Mizner cerca di dirci, però, è che se andiamo a prendere “pezzi” di tecnica e di ispirazione da molti autori e li assembliamo in modo originale, questo diventa la vera innovazione. Come sceneggiatore e regista lui non avrà certo inventato le tecniche necessarie al suo lavoro e di sicuro si sarà ispirato ad autori che lo hanno preceduto, ma non ha semplicemente seguito i passi di quello che ammirava di più. Ha creato invece un “mix” assolutamente personale e dunque originale.
Infrarosso, mosso intenzionale, sfocato, colori alterati, foto al negativo, fotomontaggi… potrei citarti decine, anzi centinaia di tecniche fotografiche “innovative”. Io stesso ho creduto, in certe occasioni, di aver inventato delle tecniche nuove. Eppure, dopo un po’, ho sempre scoperto che qualcuno prima di me le aveva già utilizzate.
La tecnica è nulla, quel che conta davvero è la nostra capacità di comunicare ed emozionare. Così anche gli autori che apprezziamo maggiormente e che consideriamo “maestri” dobbiamo “ucciderli” (in senso Zen!), cioè ce ne dobbiamo – prima o poi – liberare.
Il mondo è pieno di foto di “street” allaCartier Bresson, di baci alla Doisneau, di foto minimaliste alla Michael Kenna, di colori alla Ghirri (anzi, qui è una valanga di luoghi “banali” ripresi alla sua maniera) e così via. A volte davvero dovremmo parlare di plagio. Ora, è anche vero che il plagio potrebbe essere una forma d’arte e di creatività, se fatto in modo consapevole e provocatorio. Il problema è che spesso si tratta solo di pigrizia.
Se un autore ha successo, la cosa più semplice è mettere i piedi nelle sue impronte e sperare che vada bene anche a noi. Spesso funziona.
Ma il tutto (dipendere dalla tecnica o seguire pedissequamente un autore) denota soprattutto una notevole mancanza di cultura fotografica. Infatti per essere davvero originali e innovativi, dovremmo conoscere molti autori diversi, anche distanti da quello che noi amiamo in fotografia, e riuscire a cogliere da ciascuno quegli elementi in grado di permetterci la creazione di uno “stile” personale, che non è affatto “del tutto nuovo”, al contrario. Ma è un “assemblaggio” originale e, in tal senso, davvero innovativo, a prescindere dalla tecnica impiegata.
Passata l’epoca pionieristica della fotografia, tutti i grandi Autori hanno fatto esattamente così, ispirandosi ad altri fotografi, copiando qua e là, provando e magari adottando tecniche senza mai fossilizzarsi. Ma anzi grazie a questa sperimentazione e alla “presa in prestito” di modalità di ripresa che altri avevano sviluppato, hanno poi creato i propri, personali e unici capolavori.
Ha ragione Orietta Berti quando sostiene che una volta le cantanti imitavano tutte Whitney Houston, oggi se accendi la radio cantano tutte come Adele. In effetti è vero: nascono così le mode no? Tutti fanno “trap”, scrivono canzoni in reggaeton, e così via.
Le mode esistono in ogni campo, ma in campo artistico sono particolarmente deleterie. Di certo hanno comunque un autore/autrice (o una molteplicità di autori/autrici), che magari oramai è dimenticato. Per questo basare la propria creatività sull’invenzione di una tecnica serve a poco: se anche funziona molti la copieranno, e alla fine diventerà qualcosa che non ha più così valore. Mi vengono in mente i cosiddetti “cinemagraph“, le foto “animate” ottenute digitalmente.
Appena uscite sembravano qualcosa di straordinario, ma poi la tecnica è diventata nota, molti le hanno imitate e oggi in fondo sembra solo un trucchetto carino. E se per la coppia di fotografi che per primi li hanno ideati, Kevin Burg e Jamie Beck, tutto sommato rappresentano un “vantaggio concorrenziale” in campo commerciale, è anche vero che di utilizzi davvero “creativi” in giro se ne vedono pochi sebbene la tecnica – che ha il solo limite di poter vivere esclusivamente su un monitor – lo consentirebbe.
Perciò credo davvero che rubare a tanti – che è quel che io davvero credo sia la “cultura” – è il sistema migliore per crescere come fotografo.
E’ come avere un puzzle con solo tre pezzi o uno con 1000 pezzi. Il primo sarà facile da assemblare, ma solo il secondo saprà regalare soddisfazioni importanti. Con questo non voglio dire che il “copiare” sia sempre male, anzi: è forse il sistema migliore per entrare in empatia con un autore, e un esercizio utilissimo. Quel che non bisogna fare, semmai, è diventare quell’autore, dichiarando poi di “ispirarsi” a lui quando in verità si cerca solo di sfruttare la sua creatività, invece della propria!