
C’era una volta, e forse non c’era,
un povero sguardo che non sapeva dove posarsi. Passava da un paesaggio all’altro, da un volto all’altro, da un oggetto all’altro senza trovare pace, né alcun interesse. Tutto era monotono, già visto, insomma noioso. Un albero è solo un albero, un campo è solo un campo come un prato – anche fiorito – è solo un prato, esattamente come una chiesa o un palazzo sono solo una chiesa e un palazzo.
Uffa! Sospirò lo sguardo, e per un attimo desiderò che le amiche palpebre calassero su di lui a toglierlo da questo imbarazzo, affidandolo alle cure di fratello sonno.
Poi, quasi per caso, lo sguardo si posò su di un libro. “La monotonia non è che il sentimento deluso di chi s’aspetta sempre nuovi illusionismi, come se occorresse essere sedotti anche per fare un solo passo”, c’era scritto in caratteri aggraziati, neri su fondo bianco.
Lo sguardo s’incuriosì. Il libro s’intitolava “Il profilo delle nuvole”, e raccontava “un paesaggio italiano”, quello del Po, attraverso le foto di Luigi Ghirri. Ma i testi erano di Gianni Celati, il quale aggiungeva: “da Ghirri ho imparato che, nelle situazioni in cui si resta bloccati perché tutto sembra monotono e previsto, occorre volgere gli occhi all’orizzonte”.
Ghirri definiva questo semplice movimento come il gesto di “dislocare lo sguardo”, guardare oltre, vedere gli orizzonti, aprire la mente, lasciar libero lo sguardo di vagare. “Ecco allora quegli orizzonti lontani e appena percepibili, sotto cieli foschi” acquisire la capacità di sottrarre lo sguardo all’idea del “qualcosa da vedere”.
Finalmente lo sguardo trovò pace.

Campo Fiorito – ICM
La favoletta potrebbe finire qui, ma a esser sincero è proprio da qui che dovrebbe iniziare. Perché il problema vero, per noi fotografi – e Ghirri ce lo dimostra indicando al contempo una via d’uscita – è che di fronte ad un soggetto, che sia un panorama, un volto, una situazione, una pianta o un animale, il più delle volte, presi dalla fretta, ci limitiamo a guardare, invece di vedere.
Pensare che, come ho ripetuto mille volte anche in questo blog, la base stessa dell’atto fotografico consista proprio nel saper guardare per arrivare a vedere. E solo dopo scattare una fotografia.
Aleksandr Rodcenko sosteneva che “il difficile è trovare, vedere l’inconsueto nel più consueto. Giri intorno ad un soggetto, una costruzione o anche una persona e pensi come lo puoi fotografare. Così? O così? Tutto già visto e rivisto… Ci hanno educati, abituati a vedere con le regole della composizione, con i canoni del tempo della nonna. Bisogna invece stimolare la gente a cambiare. Che impari a vedere da diversi punti e con diversa luce!”.
Dagli anni ‘20 e ‘30 di Rodcenko non è che le cose siano molto migliorate, anzi sono anche peggiorate, nonostante gli auspici del grande fotografo russo.
Peccato.

Tarquinia –
Fotografia digitale all’Infrarosso
Il fatto è che un tempo, anche se il soggetto non era esaltante, la bravura del fotografo nel riprenderlo lo faceva apparire “bello” grazie alle sottigliezze dei chiaroscuri o dell’esposizione perfetta. Oggi, invece, il soggetto assume una nuova, fondamentale importanza, perché tutti o quasi sono in grado di sistemare un file con Photoshop, ed ottenere una foto tecnicamente perfetta, ma ancora pochi – e forse sono ancora meno dei tempi di Rodcenko – sanno vedere davvero un soggetto degno di essere fotografato!
Insomma, puoi ottenere una “bella” foto anche con soggetti che nemmeno hai visto davvero, ma che ti limiti a incontrare lungo il tuo cammino, o che qualche sito “ti consiglia”: vedere per delega. Se ci pensi un attimo, è deprimente.
Anche perché – sebbene molti si rifiutino di ammetterlo – il soggetto è “creato” (o dovrebbe esserlo) dal fotografo stesso: noi guardiamo con la mente non con gli occhi. Lo sostiene lo stesso Celati nel citato libro di Ghirri: “un lutto attenua i colori di un paesaggio, e un innamoramento li ravviva”. Come a dire: non è che i colori siano uguali per tutti, o che un volto, un oggetto, un paesaggio appaiano a tutti nello stesso modo. Come sei, o come ti senti, così vedi.

Campo Fiorito II – ICM
E questo nonostante la maggior parte delle persone sia ancor oggi assolutamente convinta che la fotografia non sappia mentire, e riprenda la realtà “esattamente com’è”. A proposito di favole!
Che poi, nello scrivere questo, mi torna in mente l’invettiva di Giovanni Arpino contro la fotografia citata da Ferdinando Scianna nel suo libro “Lo specchio vuoto”: “Ritengo le fotografie bugiarde, maligne, velenose. Qua scavano, là gonfiano. Tradiscono sempre. Rifanno la faccia umana senza un briciolo di umana tolleranza. La peggiore macchina che l’uomo abbia in uso è quella destinata a partorire fotografie. Detesto vedermi allo specchio mentre mi rado, figuriamoci dentro un pezzo di carta… Le fotografie hanno sempre torto. La fotografia vera non esiste, finché uno non è morto e composto per sempre, e addio”.
Evidentemente Arpino deve aver conosciuto dei fotografi davvero scarsi! Però quel che sostiene è fondamentalmente vero: la fotografia è una bugiarda sperticata, mente senza ritegno, quasi godendone. Il problema è quali bugie diffonde: la bravura del fotografo consiste nell’orientare la menzogna, nel darle un significato e un valore, anche energia creativa, a volte.
Essere un fotografo è essere un “maestro delle menzogne”. Saper mentire, ma con stile.
Per portare avanti la propria missione, però, occorre che il fotografo conosca davvero bene il proprio soggetto, che lo “possieda” per intero, che ne veda ogni lato, anche quello nascosto. Se per dire la verità basta una conoscenza anche solo superficiale, per dire una bugia occorre essere preparati, altrimenti “ti sgamano”.
Se ti interessi alla realtà, allora sei uno scienziato o un sacerdote di qualche religione: gli artisti e i creativi si interessano solo di bugie.

Lago di Bolsena
Ricordando sempre la fondamentale distinzione tra grande bugia e piccola bugia.
• La piccola bugia può essere creduta vera: ci si casca, si abbocca all’amo. Una piccola bugia inganna assai più di una grande. Una grande bugia, ma proprio grande, non inganna quasi nessuno. E’ talmente irreale che si vede da lontano che il contenuto di realtà è minimo. Le foto che cercano di rappresentare la realtà “così com’è” sono come le piccole bugie: si tende a credergli perché sono verosimili. Per questo sono pericolose. I grandi autori, soprattutto di reportage, mentono sfruttando le piccole bugie, che divengono una rappresentazione, mediata dalla loro sensibilità, del mondo che ci circonda. Una metafora, ma utile.
• Le foto che sono grandi bugie sono le foto artistiche. Talmente false, deformate e personali, che nessuno può credere davvero che quella sia la realtà (anche se a volte lo è!). Sono innocue perché non cercano di nascondere il fatto che sono semplicemente bugiarde, ed alla grande. Rivelano direttamente, e in modo chiaro, il trucco. Ma attraverso questo specchio deformante, mostrano di avere la stessa essenza delle foto-piccole bugie: l’essere la rappresentazione del sentire, dell’emotività e reattività del fotografo, e dunque del suo sguardo. Una foto è sempre un’interpretazione della realtà, mai la realtà, lo abbiamo visto. Ma le foto che sono grandi bugie non giocano sull’inganno: si limitano a raccontare una storia sotto forma di favola. E le favole, si dice, sotto sotto dicono spesso la verità, ma mica sempre. E comunque chi se ne importa: conta solo godere della storia.
Detto questo, mi sembra di aver ben postulato l’importanza del soggetto – e questo a causa della natura indicale della fotografia, che dal soggetto dipende in modo quasi diretto – ma anche della sua corretta percezione: e sottolineo percezione, non comprensione. Il soggetto infatti deve fare riferimento a noi come fotografi, non essere scandagliato come fosse il bosone di Higgs.
Esistono mille esercizi, da quelli più banali a quelli più articolati, per esercitarsi a prendere coscienza del nostro soggetto, in modo da diventare fotografi migliori. Uno dei più piacevoli è quello di studiare i libri dei grandi fotografi e di Luigi Ghirri in particolare, un vero maestro nel trarre fuori fotografie fantastiche da soggetti banalissimi.
Per concludere il post di oggi, però, ti vorrei consigliare di metter via la fotocamera e prendere un foglio di carta, o un taccuino, una matita o una penna e – se vuoi – dei pastelli colorati. Poi poniti davanti ad un soggetto, uno qualunque che attiri la tua attenzione, e prova a vederlo, vederlo davvero.
Possibilmente descrivilo sul taccuino o, se ne sei capace, disegnalo (non importa se il disegno sarà solo uno scarabocchio). Davanti a un paesaggio di montagna, ad esempio, osserva per bene ciò che guardi: quante vette ci sono? Quanti alberi solitari? Dov’è posizionato il sole? Davanti a te, dietro di te, a destra o a sinistra? Cosa c’è in primo piano? Che piante vedi? Ci sono dei fiori? Cosa ti ricorda la sagoma di quella collina? E la linea di quella cresta lassù? E così via.
Fa un esercizio di concentrazione e di visualizzazione. Dovrai possedere il soggetto, quasi fossi poi costretto a descriverlo a qualcun altro, nei più piccoli particolari, una volta giunto a casa. Non limitarti alla superficie. Cerca di comprendere anche le sensazioni o le emozioni che ti suscita il soggetto o che provi mentre lo ammiri.
Fa freddo o caldo? C’è vento? Come ti senti: sei stanco, entusiasta, emotivamente coinvolto o meno? Che segnali ti manda il tuo corpo?
Ricorda di evitare i “voli pindarici”, non far correre la fantasia, non ora almeno: concentrati su quel che vedi, e cerca di vederlo davvero. Non so se conosci la barzelletta di Sherlock Holmes, ma comunque la riporto qui perché è significativa.
Dunque: ci sono Holmes e Watson che, durante una loro indagine, si trovano nella brughiera a dormire in una tenda. Nel mezzo della notte, Holmes si sveglia e nota subito qualcosa di strano. Allora sveglia il suo amico: “Watson, svegliati e dimmi cosa vedi!”. Stropicciandosi gli occhi, il povero dottore guarda il cielo stellato ed esclama: “accidenti quante stelle!”. “E a cosa ti fa pensare questo?” gli chiede Holmes: “beh, che ci sono miliardi e miliardi di stelle, che lo spazio è vastissimo, infinito, e che debbono dunque esserci anche milioni di pianeti, lassù, alcuni dei quali dovranno pur essere abitati. Holmes, non siamo soli nell’Universo!”. Al che Holmes, con sguardo torvo, quasi urlando, esclama: “Watson, imbecille: ci hanno rubato la tenda!”.
Ora pensa a quanti elementi ti perdi per strada quando arrivi in un luogo e in fretta e furia tiri fuori la tua fotocamera e immortali il tuo soggetto, senza prestare attenzione alla realtà che ti circonda. Guarda quest’ultima, e solo dopo vedrai il soggetto, la parte significativa della realtà che però serve a descriverla. Altrimenti la fotografia diventa la testimonianza del tuo essere lì, non il punto finale di un processo consapevole.
Quante volte hai scoperto alcuni elementi solo dopo, osservando la foto? E di quante occasioni perdute per fotografie interessanti ti rendi conto solo “dopo”?
Quante volti guardi il cielo stellato e non t’accorgi che t’hanno fregato la tenda?
Come diceva Nietzsche, “l’artista sceglie i suoi soggetti: è il suo modo di lodare” . E per lodare devi prima di tutto prestare attenzione.