
Sebbene oggi sia un po’ fuori moda, ho sempre pensato che sia uno spreco assurdo buttare via qualcosa solo perché una piccola parte dell’oggetto stesso non è più funzionante o non più all’altezza dei propri compiti.
Insomma, un tempo le cose si aggiustavano o si aggiornavano semplicemente sostituendo le parti difettose o poco efficienti, e tenendo il resto. In campo fotografico, poi, la modularità era quasi totale. In pratica acquistavi una fotocamera e sapevi che sarebbe durata per sempre, che sarebbero comparsi modelli migliori ma che quello che avevi – se adatto alle tue esigenze – comunque avrebbe continuato a funzionare e che, in caso di problemi, era riparabile (parola magica e oramai quasi scomparsa dal vocabolario).
Ma col tempo, le fotocamere sono diventate quasi degli “usa e getta” e ogni tot (in certi periodi una volta l’anno, specialmente per marchi come Canon) si proponeva un nuovo modello o un aggiornamento “rivoluzionario”: l’obiettivo era spingere il fotografo a spendere sempre nuovi soldi rottamando il vecchio modello per passare a quello nuovo.
Personalmente mi son sempre chiesto: possibile che la “fantastica e innovativa” fotocamera del 2014, che tutti i test fatti da riviste e siti specialistici certificavano realizzare foto di qualità altissima, nel 2015 era già vecchia e sostituibile con una fotocamera “molto più performante”? Che poi, se leggevi bene, solo alcune caratteristiche erano davvero state aggiornate: magari il “buffer” per permettere di scattare a raffica più velocemente, il numero di pixel, una migliore gestione del rumore. Cose del genere: utili per alcuni specifici settori, ma francamente non determinanti per la stragrande maggioranza dei fotografi.
Perché buttare il 100% di una fotocamera solo perché il 10% non è più “all’altezza”?
Alle cose io mi affeziono e buttarle via solo perché posso ottenere qualcosa di meglio in alcuni specifici aspetti mi è sempre sembrata solo una manifestazione di consumismo, non certo un modo per rispondere a mutate esigenze diciamo “espressive”, se non creative, come ti dicono le pubblicità..
Se ci pensiamo bene, comunque, già all’inizio dell’epoca d’oro del digitale, molti di noi avevano scoperto che con poco si potevano migliorare – e di molto – le prestazioni delle fotocamere. Ad esempio anche solo aggiornando il firmware, cioé il software interno che gestisce il processo di registrazione delle immagini. A volte venivano in tal modo aggiunte caratteristiche che non erano presenti in origine: magicamente facevano la loro comparsa nel menù e non avevi speso un centesimo. Penso ad esempio alla possibilità di scattare esposizioni multiple, che in alcuni modelli Sony si può ottenere solo grazie agli aggiornamenti.
Ma quelli attempati come me ricorderanno anche software come “Magic Lantern” destinato alle fotocamere compatte di Canon. Lo si scaricava e copiava nella card SD e ogni volta che si accendeva la fotocamera questa leggeva il codice e davvero “magicamente” metteva a disposizione del fotografo una pletora di caratteristiche non previste originariamente, come lo scatto in RAW. Così fotocamere economiche destinate a scattare solo in automatismo diventavano molto simili alle loro sorelle maggiori e più costose. I più commentavano, citando “Frankestein Junior“: “Si-può-fare!”.
Però – lo sappiamo – il problema è soprattutto commerciale. Dunque nulla di strano che ti spingano a comprare il modello “Mark II” (e poi III, IV ecc.) o l’ultima novità dalle prestazioni incredibili, sebbene saggezza vorrebbe che se hai fatto solo 10-20.000 scatti con la tua attuale fotocamera (e cito il numero di scatti che vedo dichiarati su eBay da chi vende tali fotocamere) forse dovresti pensarci su.
Ad ogni modo tentativi per realizzare la fotocamera digitale perfetta, quella del tutto modulare, in cui puoi sostituire solo la parte tecnologica (sensore e processore) tenendo il resto, ci sono stati e sebbene siano tutti falliti, io continuo a pensare che andrebbero invece riesumati e resi finalmente concorrenziali.
In effetti, solo uno di questi progetti ha raggiunto il mercato ed è durato per un po’: la Ricoh GXR, un “Sistema Intercambiabile di Unità Fotografica”.
In questa fotocamera sia l’ottica che il sensore venivano declinati in modo diverso per ognuna delle “camera unit” da inserire nel corpo principale realizzato in lega di magnesio, dove erano collocati l’alimentazione, il display di visualizzazione da 3″ orientabile oltre a un flash a scomparsa e al contatto caldo per flash ed accessori esterni come l’EVF. Tra i moduli da montare sul corpo, che rimaneva immutabile, c’era quello col 50 mm f/2.5 macro e sensore da 12 megapixel (CMOS e APS-C) con processore GR Engine III e quello con lo zoom 24-72 mm f/ 2.3-4.4 , sensore (CCD) da 10 megapixel nel formato (minuscolo) da 1/1,7″ e processore Smooth Imaging Engine IV (le lunghezze focali sono rapportate al sensore Full Frame). Oltretutto il sistema prevedeva aggiornamenti del firmware in grado di attivare sempre nuove funzioni. Insomma, l’uovo di Colombo, ma purtroppo il successo commerciale è mancato e la fotocamera si trova oggi solo su Ebay (prezzo medio intorno ai 200 euro col modulo zoom).
Altri tentativi non sono mancati e proseguono ancora oggi. Riprendendo ad esempio l’idea a suo tempo avanzata da Leica (altro tentativo fallito) è partita nel 2016 una campagna su Kickstarter per raccogliere fondi allo scopo di realizzare “I’m Back“, un dorso digitale in grado di trasformare qualsiasi fotocamera reflex analogica in una fotocamera digitale.
Ad oggi, il progetto appare in corso, ma non c’è nulla di davvero concreto, a parte una presentazione alla Photokina del 2018 a Colonia. D’altra parte il sensore utilizzato è molto piccolo, con un fattore di moltiplicazione che rende davvero difficile avere a disposizione un grandangolo, per non parlare del fatto che le immagini sono salvate solo in jpeg. La risoluzione non è insomma molto alta e in verità siamo nel campo delle “Toy Cameras”, ma l’idea resta affascinante.
Anche nel settore degli smartphone si sono avuti tentativi di modularità: se uno ci pensa bene, noi fotografi cambiamo questi “device” più che altro per accedere a nuove potenzialità fotografiche, mentre se fosse possibile sostituirne le varie parti ci sarebbe un notevole risparmio, anche di risorse. Uno dei tentivi più noti è stato quello di Google Ara, iniziato nel 2013, a seguito dell’acquisizione da parte di Alpahbet Inc. di Motorola, che aveva iniziato lo sviluppo dell’idea.
Il progetto prevedeva un unico telaio centrale di base a cui connettere i vari componenti modulari – batteria, display, fotocamera – in modo che per aggiornare il “telefono” bastava sostituire uno o più dei singoli componenti. Ma nel 2016 è arrivato lo stop allo sviluppo del “concept”, anche se nel 2018 è stato presentato un brevetto che ha riaperto le speranze (probabilmente vane).
Più recentemente sia Xiaomi che la controllata Oppo hanno registrato brevetti di potenziali smartphone modulari, specialmente per quanto riguarda l’aspetto fotografico. L’idea è di “staccare” dal corpo del device la fotocamera stessa, collegabile all’occorrenza in un attimo. Il vantaggio è anche quello di poter avere fotocamer di diversa qualità e con caratteristiche particolari (supergrandangolo, tele, fisheye, ecc.) da affiancare a una fotocamera base magari presente direttamente nel corpo dello smartphone.
Insomma, le idee e gli spunti non mancano, e chissà che prima o poi qualche verà novità in questo senso arrivi. Per ora la cosa migliore da fare è sempre chiedersi se si ha davvero (ma davvero davvero) bisogno di quella nuova fotocamera così “performante”.
Spesso la risposta è “no”: quella che abbiamo già è perfettamente in grado di fare quello che noi gli comandiamo di fare. E, come dico sempre, sei tu che fai le fotografie, non la fotocamera!
E ora che siamo sotto il periodo natalizio, è una riflessione seria che val la pena di fare…