
Leggere una foto significa tentare di entrare in empatia con l’autore della foto stessa, e in fin dei conti con noi stessi, visto che il modo in cui guardiamo a un’immagine ci rivela molto della nostra vita, del modo in cui guardiamo al mondo e alla nostra interiorità.
In qualsiasi foto, come sosteneva Ansel Adams, ci sono sempre almeno due persone coinvolte, il fotografo e lo spettatore. E quest’ultimo, per comprendere davvero l’opera che ha davanti, deve lasciarsi coinvolgere.
Oscar Wilde scrisse un libro che significativamente si intitolava “Il critico come artista“ in cui sottolineava come l’opera d’arte potesse prendere vita, esistere, solo grazie allo sguardo di chi la guardava, la interpretava, la comprendeva. In fondo, Robinson Crusoe non avrebbe avuto la possibilità di creare qualcosa di artistico, almeno fino all’incontro con il “buon selvaggio” Venerdì.
Un essere umano da solo non può essere un artista, occorre un pubblico. L’arte è comunicazione e se questa non avviene l’essere umano può rimanere creativo, realizzare artefatti interessanti e magari spettacolari, ma questa non è Arte, anche se gli somiglia molto.
Chi sostiene di fare Arte “solo per se stesso” sta barando, ne sono convinto.
E non basta l’esempio “alternativo” di pittori come Antonio Ligabue o di fotografe come Vivian Maier a smentire questo assunto: la comunicazione infatti può anche non avvenire, per i più diversi motivi, ma è implicita nel gesto compiuto.

Autoritratto. Vivian Maier
Altrimenti si dovrebbe dire che le foto della Maier nemmeno sviluppate non sono “artistiche” ma un eccellente esercizio di bravura, cosa che personalmente trovo realistico affermare.
E dovremmo esserne consapevoli di tutto questo a maggior ragione oggi, visto che le fotografie nascono esclusivamente per essere condivise, sebbene non del tutto comprese.
Comprendere un’immagine è infatti una faccenda quanto mai complessa, e più è complessa più la foto può dirsi riuscita, come sostiene Jean-Christophe Bailly nel suo piccolo saggio “Il tempo fermato“.
Siamo circondati da immagini che intendono farsi comprendere con facilità, che sono progettate per esserlo. Possiamo pensare alla pubblicità, ad esempio, che invade le nostre strade e che intende comunicarci con la maggiore immediatezza possibile la bontà di un prodotto. Ma dobbiamo pensare, prima di tutto, alla segnaletica stradale.
Le immagini subito comprensibili sono infatti segnali: uno “stop” sulla strada, i simboli che indicano direzioni, divieti, obblighi. Non ci debbono essere fraintendimenti: occorre che quei simboli, quei disegni, dunque quelle immagini siano immediatamente capiti, possibilmente da culture diverse, e in ambiti geografici diversi.
“Ma la pittura e le immagini che ci interessano funzionano all’inverso“, sostiene Bailly, “più le interpretazioni sono numerose e più abbiamo il tempo di pensare, di sognare, di addentrarci nell’immagine“. La complessità è un pregio, e in tal senso “un’immagine è il contrario di un cartello di senso vietato“.
Quante volte ti sei sentito dire che una tua immagine “non si capisce bene cosa rappresenti“?
E’ un’esperienza comune a molti fotografi. La maggior parte delle persone vuole che la fotografia mostri immediatamente e nel modo più chiaro il suo “messaggio”, il suo contenuto.
Specialmente con il dilagare di Internet, e con la drastica diminuzione del tempo di osservazione di un’immagine (a volte pochi istanti), il successo arride solo a “foto segnaletiche” (nel vero senso del termine: foto che sono segnali di qualcosa, facilmente comprensibili), piuttosto che a immagini complesse, che necessitano di essere interpretate, navigate, vissute.
“Non è così grave se non comprendiamo da subito l’immagine nella sua interezza” potremmo rispondere all’amico che definisce criptica la nostra foto, utilizzando le parole di Bailly: “se avviene, infatti, probabilmente non è così ricca“.
Per colpa di molti pseudointellettuali che hanno per troppo tempo mascherato una reale mancanza di idee dietro un velo di falsa complessità, ci troviamo a vivere l’epoca della fotografia povera, della fotografia che rinuncia alla complessità di significati per diventare fruibile, easy, immediata, perdendo però – nel contempo – anche di profondità e di efficacia.
Tutto questo non ha nulla a che fare con la quantità di oggetti e soggetti che la foto riproduce: la complessità è nello sguardo e nelle intenzioni del fotografo, la foto risultante potrebbe anche essere un puro spazio bianco.
La differenza sta spesso nel fatto che il fotografo offra o meno una possibile chiave di lettura della realtà rappresentata allo spettatore. Se non lo fa, è molto probabile stia barando: è un discorso che vale per tanta, troppa arte contemporanea, in cui è difficile definire con certezza i confini tra una furba accozzaglia di colori e un capolavoro di Jackson Pollock (ammesso che ci sia, ovviamente).

Jackson Pollock
Il problema è allora che ci si è disabituati a compiere uno sforzo: come ascoltare una canzone “easy listening” ci permette di rilassarci e pensare ad altro, mentre un brano impegnato e complesso ci obbliga a prestare ascolto, così una foto semplice, diretta e magari colorata può essere ammirata senza che questo ci obblighi a collocarla in una “corrente”, o a fare paragoni con foto di altri autori, o a cercare di comprendere il messaggio, interpretare la storia sottesa e così via.
La cosa che salta agli occhi è però la mancanza quasi totale di sedimentazione.
Possiamo guardare centinaia, a volte migliaia di fotografie ogni giorno senza che queste lascino alcuna traccia dentro di noi. Sono acqua fresca, non smuovono di un centimetro la nostra coscienza, la nostra consapevolezza. Poi magari andiamo a vedere una mostra di un bravo autore, e quelle venti foto aprono, dentro di noi, degli squarci, e alcune delle fotografie ci restano impigliate nei pensieri e nel ricordo.
La società contemporanea, ancor più di quelle dei decenni passati, ha puntato tutto sulla quantità, piuttosto che sulla qualità, e i risultati sono evidenti. Invece di crescere, la consapevolezza si affievolisce; oggi ancor più persone sono del tutto incapaci di guardare a una foto con la necessaria attenzione, analizzarla, comprenderla e alla fine anche “farla propria”.
Non che questa propensione anche in passato fosse molto diffusa, ma certo oggi ci si aspetterebbe che di fronte agli 800 milioni di foto veicolate online quotidianamente ci fosse una crescita in tal senso. Ma in realtà l’effetto è opposto.
In pratica la fotografia non è più qualcosa che ha una sua autonomia, non è più un oggetto, un’opera. E’ solo un segnale, o un alfabeto comodo e immediato per comunicare pensieri semplici e poco approfonditi. Gettiamo via almeno il 90% delle sue potenzialità. E davvero questo è un gran peccato…