
Alexander Cozens, pittore di paesaggi e autore di un breve trattato sulla pittura pubblicato nel 1785, distingueva tre ambiti estetici:
- Il Sublime (il cui concetto venne elaborato in primis da Burke), che è pari all’immaginazione pura, ed è il campo d’azione tipico dei pittori;
- Il Bello, che è una sintesi tra immaginazione e invenzione (sintesi che divenne l’aspirazione dei fotografi pittorialisti);
- Il Pittoresco, che è invenzione pura, prerogativa dei cosiddetti fotografi “creativi” ma anche di quelli “duri e puri” e dei pittori Impressionisti.
Con l’avvento del digitale, tutti si sono improvvisamente sentiti in grado di elaborare “nuovi” linguaggi fotografici: l’invenzione ha decisamente preso il sopravvento, mentre l’immaginazione (che si nutre delle esperienze passate e della capacità di rielaborarle), invece, sembra oramai relegata in ambiti molto ristretti.
Ciò che non è “nuovo”, che non genera gridolini di meraviglia, che non stupisce (e il livello di questo stupore deve sempre alzarsi perché subentra l’assuefazione) sembra non interessare più nessuno. Così la nostra società, definita “Società dell’Immagine”, in cui tutti sono “fotografi” e fotografano ogni giorno, compulsivamente, grazie anche agli smartphones, è secondo me una società priva di immaginazione, sia in senso reale che in senso figurato (ad esempio non sa immaginare un mondo diverso e più giusto o immaginare vie d’uscita dalla crisi economica, e così via…).
Resta il fatto che la natura indicale della fotografia – la sua dipendenza ovvia dal soggetto ripreso – relega l’immaginazione e l’invenzione non tanto sul creare “il soggetto” quanto nell’interpretarlo, nel “vederlo” in modo personale, possibilmente originale, e nel riprodurlo in modo tale da sottolineare questi aspetti, senza dimenticare le necessità comunicative. Insomma, bisogna nutrire la nostra “creatività” di esperienze e conoscenza (che stimolano l’immaginazione) e di competenza tecnica che ci permetta di ideare modi sempre diversi di fotografare. Ma di certo quest’ultimo aspetto non è il più importante, sebbene spesso necessario.
D’altra parte l’atto creativo si esprime nella consapevolezza con cui si vede e si sceglie il soggetto. L’opera che lo “fissa” e lo eternalizza è certamente fondamentale per comunicare e mostrare agli altri (e nel tempo anche a noi stessi) la nostra scoperta ma in qualche modo – appunto – non è strettamente indispensabile.
Esiste un’arte orientale, praticata in Giappone e in altri paesi, ma molto amata in Cina, il Suiseki o Gongshi, che consiste nel trovare delle pietre lavorate dall’acqua che abbiano delle belle forme, che magari ricordino animali, piante o paesaggi. L’artista, dunque, in questo caso si “limita” a trovare una scultura naturale e a rivelarla al mondo. Gli unici interventi ammessi sono la pulitura della pietra, la lucidatura e la realizzazione di un apposito sostegno. Ecco un classico esempio in cui è lo sguardo indagatore dell’artista a essere creativo e questa considerazione può valere per gran parte dell’arte contemporanea, che ha fatto dell’objet trouvée il cuore del proprio stesso esistere, a cominciare dal famosissimo orinatoio di Duchamp preceduto, a dire il vero, dalla Ruota di Bicicletta dello stesso autore.
O pensiamo alla Land Art, in cui un semplice gesto diventa l’opera d’arte. Sebbene molti artisti degli anni ’60, i pionieri come Michael Heizer, Walter De Maria o Robert Smithson, ricorressero a trattori, escavatori e bulldozer per creare trincee, buche o cumuli di terra di enormi dimensioni (magari in aree desertiche) per concretizzare le loro opere, cioè il loro gesto ma amplificato, le tendenze successive hanno visto crescere la compagine di coloro che avevano verso il paesaggio e l’ambiente un atteggiamento meno aggressivo, e diciamo più poetico.
Quasi tutti, però, giocoforza utilizzavano la fotografia per documentare le loro opere, sebbene con ricorrenti crisi di identità artistica. Rosalind Krauss ha sottolineato come, soprattutto negli anni settanta, anni dominati dall’“onnipresenza della fotografia come modalità di rappresentazione”, il medium fotografico sia stato utilizzato da numerosi artisti per tutti quei lavori che avevano necessità di un supplemento documentario. Il problema era però che il pubblico finiva per fruire l’opera soprattutto attraverso le fotografie. Per questo molti artisti della Land Art decisero di scattare personalmente le immagini dei propri lavori, alimentando la confusione tra fotografi artisti e artisti fotografi, oppure di ricorrere a fotografi non solo specializzati, ma anche dotati di una precisa sensibilità. Ad esempio il fotografo italiano Gianfranco Gorgoni è stato uno dei principali testimoni dell’arte degli anni sessanta e settanta. Entrato nel giro grazie a un incarico per il periodico “L’Espresso” ed accreditato nella scena artistica newyorkese alla fine degli anni sessanta con l’aiuto del noto gallerista Leo Castelli, ebbe la possibilità di collaborare con i maggiori esponenti della Pop Art e con i pionieri della Land Art.
C’è anche da dire che la fotografia è di per sé un eccellente mezzo per creare opere di questo tipo. Consente di mostrare “oggetti trovati”, che non vengono musealizzati ma che grazie alla fotografia sono isolati e decontestualizzati, archiviati possiamo dire, e permette altresì di registrare azioni o creazioni momentanee, che siano un gesto artistico, o un semplice assemblage di sassi, o foglie o rami. Si assiste qui a un rimpallo tra due esigenze artistiche, che ci consente di riflettere sulla duplice natura della fotografia, da un lato splendido mezzo di documentazione, dall’altro anche mezzo creativo completo.
E’ il dilemma in cui si dibattevano gli artisti della Land Art: fotografare la propria realizzazione finiva sempre per spostare l’atto creativo dalla “scultura” in sé alla fotografia che doveva solo documentarla. In pratica l’opera finiva per essere la fotografia stessa, e questo era per loro disperante. In tempi più recenti, a onor del vero, gli artisti hanno finito per sfumare questo confine, accettando in pieno il controsenso. Lo stesso Richard Long scattava molte fotografie e le esponeva o le pubblicava senza troppi sensi di colpa e d’altra parte era l’unico modo per mostrare il suo gesto artistico, effimero come pochi.
Se posso darti un consiglio, utile per alimentare anche la tua “riserva creativa” e dunque l’immaginazione, la prossima volta che farai una passeggiata, magari in natura (ma va bene anche la città), cerca di concentrarti su un aspetto troppo spesso trascurato quando siamo in piena azione fotografica: il nostro intervento nel contesto. Ci sono generi fotografici in cui il soggetto è creato o organizzato ex novo: pensiamo alla foto di ritratto o allo still-life. Ma quando pensiamo alla fotografia di paesaggio, e più in generale di location, tendiamo a pensare che il nostro scopo sia riprendere le cose “così come sono”. Le nostre scelte sono solo quelle relative alla luce, all’inquadratura, e cose del genere. Ma ne siamo proprio sicuri?
Proviamo per una volta a cambiare qualcosa. Spostiamo un oggetto che sia possibile muovere. Creiamo una mini-installazione, anche un semplice cumulo di sassi, o una riga sul terreno fatta con un ramoscello, o cose del genere. Anche cose molto piccole. E facciamo di questo nostro intervento il cuore stesso della nostra foto. Click!
Dopo, a casa, lasciato passare un po’ di tempo, ragioniamo con la dovuta calma su quanto avremo realizzato. Abbiamo costruito un mondo che non esiste? Abbiamo fatto un consapevole gesto artistico? Abbiamo semplicemente fatto qualcosa che ha reso migliore (o peggiore) la nostra foto?
Questo ci aiuterà ad allargare i nostri orizzonti, portandoci in modo spontaneo a interrogarci sul ruolo del cosiddetto operatore (termine più ampio e omnicomprensivo di quello di fotografo), sulle nostre capacità e responsabilità in merito a quanto ripreso, e ci fornirà magari alcuni spunti utili.
Ti porterà di sicuro a chiederti, come è successo a me, cosa differenzia l’artista di Land Art che, come Long, cammina su un sentiero gettando un sasso in ogni torrente attraversato – e questo gesto, documentato fotograficamente, rappresenta l’opera – e il fotografo che, nello scattare la sua fotografia rimuove qualche elemento di disturbo, sposta qualche foglia, o addirittura organizza tutta la scena e guida il modello/a nella posa da assumere.
Insomma, quando nasce davvero l’opera d’arte fotografica? Prima o dopo lo scatto?