Segni/Signs – Un Crowdpublishing di Marco Scataglini

Sta partendo il “Crowdpublishing” del mio prossimo libro, “Segni/Signs” e vorrei sottoporti le riflessioni che sono dietro al progetto, che credo siano comunque utili in generale. Almeno lo spero.

Parafrasando Tolstoj, potremmo iniziare dicendo che mentre ogni luogo è bello a modo suo, i luoghi brutti sono brutti sempre allo stesso modo. Insomma, si somigliano sempre almeno un po’, specialmente al giorno d’oggi.

Il nostro paesaggio quotidiano è pieno di elementi di disturbo. Pali della luce, tralicci, edifici poco attraenti, strade, cave, discariche e così via.

L’osservatore medio di un paesaggio generalmente applica una sorta di algoritmo mentale, un filtro che cancella tali elementi al punto da renderli poco o affatto visibili. Semplicemente il suo cervello concentra l’attenzione su ciò che emerge come interessante e il resto viene a malapena percepito.

E’ il motivo per cui le auto parcheggiate davanti a un famoso monumento non ne diminuiscono molto l’interesse visivo, come anche certe recinzioni o strutture collocate all’interno di aree archeologiche. Per non parlare di quel che si vede da un belvedere: solo quel che davvero interessa viene “visto”, mentre i citati elementi di disturbo finiscono sullo sfondo. Il nostro cervello è il vero strumento della visione, non gli occhi, e sceglie accuratamente su cosa dobbiamo concentrarci e cosa dobbiamo trascurare.

Ho personalmente osservato (e ascoltato) persone commentare entusiaste la bellezza di certi luoghi in cui io mi sentivo a disagio per l’abbondante presenza di brutture più o meno volontarie.

E ho vissuto per un periodo in una cittadina costiera francamente inguardabile e invece apprezzata da tante persone che “amano il mare” e guardano solo quello, ignorando quel che sta alle loro spalle.

Noi fotografi invece – questi elementi di disturbo – li vediamo eccome, perché possono facilmente rovinare la nostra foto. Il brutto palo della linea elettrica, un muro in cemento tutto scrostato, un cestino dei rifiuti stracolmo e via elencando, sono cose spiacevoli che occorre eliminare grazie a tecniche ben note: un’inquadratura più stretta che le tagli fuori, un punto di ripresa leggermente laterale o anche – oggi come oggi – qualche colpo di “timbro clone”.

Confesso di aver applicato tutti questi metodi, giustificandoli con la volontà di adeguare l’immagine ripresa a quella che è la normale visione – appunto – dell’osservatore medio, esattamente il discorso applicato alle proprie opere dai pittori, per secoli.

Insomma, se un paesaggio viene “percepito” in un certo modo, il fotografo cosa dovrebbe fare: riprenderlo così com’è oppure prestare attenzione a scattare per adeguarlo alla propria percezione?

Bella questione. Per lunghi periodi di tempo la modalità è stata sicuramente la seconda e ancora oggi la gran parte delle classiche “fotografie di paesaggio” che vediamo in giro risponde a determinate caratteristiche: pulizia formale e contenutistica, spettacolarità, rigore assoluto. Il mondo sembra una realtà in CGI (Computer Generated Images, immagini generate al computer): la natura o le architetture che si vedono in certe foto io – nella realtà – non le ho mai viste.

Ma confesso che in qualche modo ho partecipato a questo “trend”, specialmente negli oltre 15 anni in cui ho lavorato come fotografo editoriale per riviste di viaggio.

Immaginiamo di vedere un ponte medievale, bellissimo, che scavalca un fiume dalle acque agitate (“Bridge over trouble water” canterebbe Paul Simon, ottimo spunto per il titolo di una foto): a destra e a sinistra del ponte, però, ci sono molte strutture moderne, un cavalcavia in cemento, magari un’industria con le sue ciminiere, un centro commerciale.

Ora, se io fotografo solo il ponte medievale, in caso utilizzando tempi di ripresa lunghi per rendere “setose” le acque e scegliendo un orario serale – la classica “ora blu” per aumentare la spettacolarità dell’insieme – otterrò di certo una “bella” foto. Ma è una foto “vera”? E’ quella la realtà del contesto ripreso?

Non è un esempio casuale: parecchi anni fa mi è capitato di verificare una situazione simile. Su una rivista vidi un bellissimo ponte in Toscana, ma quando poi mi recai sul posto per fotografarlo a mia volta, la situazione reale era ben diversa!

Negli ultimi decenni molte cose sono cambiate in campo fotografico. A partire dai fotografi detti “New Topographics” dal titolo della loro prima mostra collettiva (Robert Adams, Louis Baltz e Stephen Shore soprattutto), anticipati a onor del vero dal grande Walker Evans, ma passando anche per la “scuola di Dusseldorf” e fino alla nuova scuola italiana della fotografia di paesaggio (Ghirri, Jodice, Guidi, Fossati, ecc.) l’attenzione si è spostata dal “bello” al “vero”, facendo anzi degli elementi di disturbo il soggetto autentico della fotografia.

Ma realizzando buone fotografie: insomma, non mere foto di denuncia, ma foto che interpretano la realtà che ci si trova davanti, senza imbellettarla o tradirla.

Nell’esempio del ponte probabilmente la scelta giusta sarebbe fare in modo di mettere assieme il ponte medievale e il contesto, cercando di realizzare una foto efficace, anche piacevole, ma che racconti quel contesto paesaggistico. Insomma, non bisogna – io credo – fornire allo spettatore medio la conferma di quel che “vede” (ma in realtà non vede), quanto invece aprirgli occhi, che poi è sempre stata la funzione del fotografo.

Perciò io per primo ho iniziato a invertire l’ordine dei fattori, cioé a concentrarmi sugli elementi di disturbo, anzi a non considerarli più tali, ma a pensarli come parte integrante del paesaggio stesso. Di fatto lo sono, a prescindere che ci piacciano o meno.

Infatti, se un casale diruto, o una struttura di archeologia industriale, possono essere anche piacevoli a vedersi, di sicuro ci sono altri elementi che provocano un certo fastidio, per la loro incongruità, ad esempio, o per il fatto di essere frutto di incuria, trascuratezza, cattivo gusto. Ma se sono nel paesaggio, il paesaggio non può prescinderne.

Ma soprattutto occorre saperli interpretare perché il paesaggio è sempre un fatto culturale, dunque nessun elemento che lo compone è privo di senso. Da ogni cosa sulla superficie terrestre possiamo imparare, e molto.

Per questo più che sugli elementi grandi e importanti, quelli in grado di cambiare davvero il senso di un paesaggio – tipo un “Outlet” costruito ai piedi di una montagna, o una grande centrale termoelettrica o nucleare – ho scelto di concentrarmi soprattutto su quelli piccoli e apparentemente insignificanti.

In fondo, si pensa, un telo di nylon verde a coprire un cancello o una serra in plastica non sono problemi gravi, e un paesaggio campestre resta piacevole lo stesso, pur in presenza di simili “interventi spontanei”. Non concordo. Queste piccole installazioni (le considero infatti opere d’arte spontanea, anzi involontaria, come quelle che fotografava Brassai) rappresentano bene l’approccio che le persone che vivono o lavorano in un dato luogo hanno con la realtà che li circonda: in tal senso sono molto significative. Sono testimonianze preziose. Dal mio punto di vista cambiano eccome il senso di un paesaggio perché molto spesso sono interventi di tipo “anarchico”: non vengono pianificati, a volte nemmeno autorizzati o gestiti.

Le persone, semplicemente, le realizzano.

Tali interventi, dalla strada alla villetta, dalla recinzione alla piscina, sono tutti concepiti per svolgere una funzione – almeno nelle intenzioni iniziale, visto che spesso restano incompleti o finiscono per restare inutilizzati – ma, inseriti nell’ambiente, entrano a farne parte, interagiscono con gli elementi intorno e – volenti o nolenti – esprimono bene il nuovo “Genius Loci”, che il fotografo non può ignorare. O, almeno, dovrebbe smettere di farlo.

La regione dove ho scattato le fotografie – la Tuscia, intesa come provincia di Viterbo, Toscana meridionale e Orvietano – è assolutamente identica a tante altre zone del nostro paese. E’ insomma “un luogo qualsiasi”, secondo la teoria della “qualsiasità” del noto scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini, autore con il grande fotografo Paul Strand del volume “Un Paese” in cui il borgo di Luzzara, in Emilia, diventava idealmente la rappresentazione di qualsiasi altro paese d’Italia se non d’Europa, e forse del mondo.

Non è di certo l’area italiana più degradata, anzi al contrario è ancora abbastanza integra, però mostra quei segni di una “cultura” che si adegua e non lotta, che si uniforma e non ama i distinguo, che si esalta nel rivendicare la propria unicità quando invece l’ha da tempo abbandonata in favore delle comodità di una vita standardizzata e priva di guizzi creativi.

E’ un fenomeno che in molte zone del mondo è evidente, quasi fragoroso, in altre (come nella Tuscia) sotterraneo e poco indagato, tuttavia sta avvenendo ovunque, dall’Africa all’Asia, dal Sudamerica a ogni angolo d’Europa o degli USA.

Il tutto sotto i nostri occhi troppo indifferenti.

Se vuoi sostenere il mio progetto preacquistando il libro che ne ho tratto, puoi andare nell’apposita pagina del mio sito. Grazie!

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