
La foto che vedi qui sotto, intitolata “Dead Cow” è stata realizzata da un famoso fotografo americano (per ora non ti dico il suo nome). La foto, come puoi notare, ritrae il teschio di una mucca morta – con ancora tracce di pelle e pelo – finito in un torrente. Cosa voleva esprimere l’autore?
Quanto la vita possa essere un fatto aleatorio anche quando la vediamo sotto forma di un animale grande e possente? O è semplicemente la celebrazione della morte che sa creare forme e situazioni di brutale bellezza? Io propendo per quest’ultima interpretazione, ma non è dato saperlo con certezza.
Certamente, la presenza dell’acqua rende la foto come “viva” (lo so, è un ossimoro, in questo caso), la mucca sembra quasi cavalcare nei pascoli del cielo, finalmente liberata dal peso del corpo e dai legami della gravità terrestre. La foto ha vinto molti premi internazionali ed è stata acquistata da un noto collezionista a un prezzo davvero alto: d’altra parte è stata stampata in una sola copia, presumo appunto per tenerne alta la valutazione.
Ma sin qui son solo considerazioni più o meno tecniche o contenutistiche. Quando per la prima volta ho visto la foto e letto la sua storia, francamente, m’è venuto da chiedermi: ma, al di là di tutto, a me la foto piace o no?
Diciamo che è ben fatta, a fuoco, ben composta, il soggetto di sicuro attira l’attenzione. Però provo anche un senso di disgusto nel guardarla. Insomma, è pur sempre un cadavere. Ma capisco anche perché abbia conosciuto il successo di cui ti ho parlato in una società fondamentalmente “necrofila”, almeno in alcuni suoi aspetti, come quella occidentale.
Ma veniamo a te: che ne pensi di questa foto? La trovi un’immagine forte o trascurabile? Un capolavoro o qualcosa di banale? In effetti il richiamo a certe installazioni artistiche recenti possiamo notarlo (penso a Damien Hirst nel caso specifico) ma a parte questo, cosa ci vedi?
Pensaci bene. Ancora un po’. Osservala davvero in profondità. Studiala. Non faresti così con ogni fotografia di un grande autore?
Solo che questa foto non è di un grande autore: l’ho scattata io e, ahimé, non sono riuscito a venderla a caro prezzo a qualche collezionista!
Scusa, non volevo prenderti in giro ma solo fare un piccolo esperimento. Sono infatti certo che ora che sai che la foto non è di un qualche “grande fotografo americano” e non ha vinto premi internazionali, non riuscirai a guardarla allo stesso modo.
Magari prima hai pensato che fosse assurdo che la foto di un teschio di mucca fosse considerata una gran foto (e ci sta) eppure dentro di te non osavi condannarla del tutto senza appello: insomma, se ha avuto così tanto successo deve pur valere qualcosa! Magari sono io a non capire il suo valore, ti sarai detto.
Ma ora che sai la verità, potresti sbottare con un liberatorio: “ah, mi pareva!”.
D’altra parte Endre Ernő Friedmann – su suggerimento della compagna di vita e di lavoro Gerda Taro – non cambiò il suo nome in Robert Capa proprio per essere un “grande fotografo di reportage americano”? Le sue foto erano comunque eccellenti, ma non le avrebbe pubblicate se si fosse presentato come uno sfigato ungherese fuggito dalla madrepatria.
Ma per farmi perdonare ti dico a cosa mi sono ispirato per questo giochino: a un esperimento estremamente interessante realizzato dallo psicologo turco (che però ha lavorato negli USA) Muzafer Sherif.
Fece leggere ad alcuni studenti 16 brani di prosa, ciascuno con non più di due o tre frasi, attribuite a diversi autori più o meno noti. Poi chiese loro di metterli in ordine, in pratica di farne una classifica di valore.
Non ti devi stupire se ti dico che alla fine ai brani degli autori più famosi e importanti vennero attribuiti dei punteggi assai più alti. Non importava quanto il brano fosse interessante e ben scritto, importava solo chi ne fosse l’autore. La cosa interessante è che i sedici brani erano tutti dello stesso autore, Robert Louis Stevenson!
Ti dice niente tutto questo? A me si. E cioè che in ogni campo – figuriamoci dunque in campo fotografico – tendiamo ad attribuire un significato, un valore e una rilevanza maggiore alle opere di autori già noti e stimati.
Sul Gruppo Facebook del corso Smettere di Essere Principiante (SEP) c’è stata in questi giorni un’interessante riflessione su una foto di Steve McCurry.
Ora, non si può certo dire che la foto sia “brutta”, anzi è “bella” e se vogliamo sta qui il suo limite. Il fatto che appaia precisa, ben esposta, con la gamma dinamica al suo posto (merito sicuramente di un calibrato intervento software) e così via è infatti qualcosa che ci aspettiamo dal fotografo “smanettone” che su questo basa il proprio successo sui Social, a colpi di “wow” a raffica.
Da un grande autore io mi aspetterei ben altro di una cartolina spettacolare e decisamente fondata sul cliché di una Venezia poggiata su un mare “luminoso” e con un cielo spettacolare.
Sono ragionevolmente certo che molti appassionati di fotografia – se non sapessero che si tratta di una foto di McCurry – ne avrebbero criticato l’eccesso cromatico, il senso di dejà-vu, la retorica un po’ pretenziosa. Ma siccome si sa sin da subito che la foto è di un “grande autore”, gli elogi fioccano. In fondo, chi sono io per criticare un fotografo di fama internazionale? Questo scatta nella mente di tanti osservatori.
Entra in gioco, insomma, l’effetto Sherif (per dir così): non importa quanto valida sia la foto, conta solo chi l’ha scattata. E se la foto di McCurry è comunque una foto che si lascia guardare con piacere (questo è indubbio) ho visto comparire il citato effetto anche con fotografie decisamente spiacevoli, ma comunque mai criticate adeguatamente per questo.
Come ho segnalato in un post sul mio blog, anche nella mostra di Salgado in corso a Roma c’è una foto chiaramente poco nitida e nell’insieme il progetto sull’Amazzonia appare un po’ ridondante e a tratti confuso ma, siccome è Salgado, queste cose non si possono dire. Infatti ho letto solo critiche entusiaste. E sebbene la mostra nel complesso mi sia piaciuta, trovo che anche Salgado possa essere criticato senza che scatti l’accusa di “lesa maestà”.
Tra l’altro, una volta che l’autore è diventato noto (e il modo in cui lo diventa è qualcosa di spesso misterioso, ma il più delle volte è anche merito di determinate circostanze) su di lui si spendono fiumi di parole, al punto che diventa difficile distinguere quello che le sue foto ci trasmettono davvero e quello che invece è indotto in noi da quanto abbiamo letto.
Mi viene in mente Mario Giacomelli con le sue (rare) interviste. Il merito maggiore di Giacomelli (una sua mostra è in corso al Maxxi di Roma accanto a quella di Salgado) è – oltre all’indubbia capacità fotografica e visionaria – la sua profonda autenticità: quando lo lasciavano parlare, sembrava la negazione stessa delle molte sovrastrutture che tanti critici hanno accumulato sulla sua opera.
Ma queste sovrastrutture esistono e peseranno sempre sulla “visione” di una foto giacomelliana.
A proposito di esperimenti di psicologia, val la pena, in tal senso, ricordare quello di Naftulin, Ware e Donnelly realizzato nel lontano 1973, perché è anche questo divertente e rivelatore.
I tre ricercatori scrissero un borioso discorso sulla teoria matematica dei giochi applicata all’istruzione medica, colmo di frasi insensate e anche contraddittorie, oltre che di veri e propri neologismi. In pratica il corrispettivo di certi testi critici che accompagnano le opere d’arte e le fotografie d’autore.
A questo punto un attore, del tutto incompetente ma presentato come il Dr. Myron L. Fox, una vera autorità in materia, lo lesse con grande enfasi dinanzi a una platea composta da psicologi, psichiatri ed educatori. Alla fine, venne chiesto a tutti di compilare un questionario con cui valutare il livello di gradimento di ciò che avevano appena udito.
Sorpresa: la stragrande maggioranza dei partecipanti attribuì un “punteggio di soddisfazione” assai elevato all’oratore, sottolineandone da un lato la perfetta conoscenza degli argomenti trattati (sic!), le abilità verbali (trattandosi di un attore questo è l’unico aspetto sicuramente vero) e anche l’efficacia nella disamina degli argomenti. Non male per un discorso inventato di sana pianta!
Secondo gli autori dell’esperimento, gli spettatori – pure competenti nella materia – erano stati condizionati non tanto da quel che l’oratore diceva, ma da come lo diceva e da come era stato presentato, cioè come un’autorità nell’argomento trattato.
Anche qui il parallelismo con il mondo della fotografia viene bene. Ci sono fotografi decisi a spendere anche due-tremila euro solo per avere il commento critico di qualche Solone assai famoso (un fotografo di fama, un curatore di grido, un esperto d’arte) da mettere sul sito personale o in apertura di un proprio libro.
Non fraintendermi, non dico che non ci siano esperti veri e molto bravi, critici e curatori in grado di aiutare gli autori e così via: ne conosco diversi e so che sono seri, preparati e che comunque non scrivono vaccate spacciandole per saggi critici.
Tuttavia c’è un’ampia parte di questo mondo – di sicuro quella che maggiormente è nota al di fuori del nostro mondo – che invece sfrutta l’effetto “del Dr. Fox” sia per aumentare la propria visibilità (e il proprio reddito) sia per lanciare autori che poi saranno sempre loro molto grati, creando un effetto di moltiplicazione efficacissimo.
Per questo io credo che per ogni autore – davvero: ogni autore che ti viene in mente – occorra sempre andare alle fotografie. Sono quelle che debbono parlarci, non le introduzioni o i saggi critici, che magari vanno letti dopo! Mi viene in mente una scena controversa del film “L’Attimo Fuggente” quando il professor Keating, interpretato da Robin Williams, chiede agli studenti di strappare la parte introduttiva del libro di poesia, quella in cui si spiegava come andassero interpretati i testi.
Ora, il gesto di epurare è sempre riprovevole, ma a livello simbolico e non pratico è quello che dovremmo sempre fare. Liberarci dal modo “esatto e corretto” di leggere le foto di qualcuno e fidarci della nostra sensibilità e della nostra cultura, che per questo vanno sempre affinate, con determinazione e tanta passione. E se poi ci troveremo a non essere d’accordo con gli “esperti” e i “grandi autori”, almeno sapremo di essere comunque sulla nostra strada e non su quella di qualcun altro, per quanto titolato possa essere.