
Credo che quasi tutti sappiano che i pittori Impressionisti amavano e utilizzavano la fotografia come “taccuino d’appunti” per i propri dipinti. Claude Monet non faceva certo eccezione. E, anzi, a volte finiva per realizzare fotografie che in qualche modo erano opere in sé, magari non sempre in modo del tutto consapevole.
Nella foto sopra – un autoritratto scattato nel suo giardino nel 1905 – vediamo il soggetto prediletto dall’artista, le ninfee (a cui dedicò ben 250 quadri), e nella parte in basso l’ombra dell’autore, col suo cappello dalle larghe falde. Una foto “sbagliata” si direbbe, ma non lo è affatto se dobbiamo credere all’intenzionalità di mettere qualcosa di se stesso all’interno dell’inquadratura. ln fondo, l’ombra che proiettiamo tenendo il sole alle spalle (una regola nata nei tempi d’oro della fotografia!), è il modo più semplice e diretto di inserirci nella ripresa, senza arrivare all’autoscatto o peggio al selfie.
E ce lo dimostrano parecchi autori, come Lewis Hine che nella foto in basso riprende non solo la propria ombra, ma anche quella dell’ingombrante fotocamera utilizzata per una ripresa quasi di “street” (“Self Portrait with Newsboy“, 1908) in cui ci mostra “anche” un ragazzino che distribuisce giornali.
ll che rende la foto una sorta di “backstage”.
Le ombre dicono molto di noi, e non solo quelle proiettate dal nostro corpo. Gli “skiagrafi” (da skia = ombra) si differenziano molto dai “fotografi”, potremmo dire: i primi (e io penso di poterml ascrivere alla categoria) prediligono luoghi ombrosi e nelle foto fanno prevalere le ombre, i secondi invece preferiscono scene luminose e solari, con solo le ombre indispensabili. Il fatto è che le ombre hanno il potere di evocare senza rivelare, suggerire senza mostrare.
Come sostiene Jean-Christophe Bailly nel Suo saggio “L’istante e la sua ombra‘ (in cui analizza il fenomeno delle ombre partendo da una foto di Fox Tabot, “Il covone”) il regime d’esistenza delle ombre “è fisico e materiale – sono come un respiro della luce – ma questa esistenza fisica è senza peso”
Le ombre hanno qualcosa di magico, di incorporeo eppure di connesso alla corporeità dell’oggetto che si frappone tra la luce e la superficie di appoggio. Un fenomeno semplice, quotidiano, banale addirittura, a cui prestiamo troppo poca attenzione. Per un fotografo (specie se di tendenza skiagrafica!) è poi particolarmente grave non osservare che una foto è dipinta dalla luce, ma assume valore, senso e rilievo solo grazie alle ombre.
L’attrazione che personalmente provo verso le ombre – che, ora che ci penso, possono anche diventare protagoniste di spettacoli, pensiamo alle “Ombre Cinesi”, ad esempio – è per la loro indefinitezza. Sebbene a volte, come nel “covone” di Talbot, possano essere molto nette, tuttavia hanno sempre una sorta di alone, una sfumatura. E qui mi piace tornare al nostro Monet, da cui abbiamo iniziato.
Oramai piuttosto anziano, mentre dipingeva oramai solo ninfee e scattava foto con la propria ombra, si rese conto di vedere i soggetti molto sfumati e stranamente dotati di aura. Per i medici il motivo era piuttosto chiaro: cataratta. La faccenda allora come oggi si poteva risolvere con un’operazione, che Monet rifiutò sempre. Amava quell’aura intorno alle cose, preferiva vedere la realtà poco nitida e imprecisa.
La poetessa tedesca naturalizzata americana Liesel Mueller (1924), venuta a mancare recentemente, scrisse addirittura una poesia su questa vicenda, intitolata appunto “Monet refuses the Operation” che inizia con questi versi (traduzione mia):
“Dottore, lei dice che non ci sono aloni / attorno ai lampioni di Parigi / e che quel che vedo è un’aberrazione / dovuta alla mia età, un malanno./ Vorrei dirle che c’è voluta la mia intera vita / per arrivare a vedere i lampioni come fossero angeli / per ammorbidire e sfocare e infine eliminare / i contorni che lei sostiene io non possa vedere,/ per imparare che la linea che io chiamo orizzonte / non esiste e che il cielo e l’acqua / così a lungo separati, appartengono allo stesso stato dell’essere./ Cinquantaquattro anni son passati prima che io potessi vedere / che la cattedrale di Rouen è fatta / di sciabolate parallele di sole, / e ora lei vorrebbe farmi tornare /ai miei errori di gioventù…”
Inevitabilmente mi vien da pensare alle tecniche “Lo-Fi” che utilizzo normalmente, quella bassa qualità di fotocamere e obiettivi che diventa un modo per concentrare l’attenzione più sull’emozione che su quel che viene mostrato.
Questa poesia – e l’esperienza di Monet – mi ha rivelato davvero come la nitidezza sia un concetto borghese, per dirla con Cartier-Bresson. L’indefinito, lo sfumato, il mosso, l’impreciso, l’ombra, sono tutti modi che servono a vedere angeli al posto dei lampioni di città. Lascio volentieri ai fissati delle linee per millimetro la possibilità di fotografare lampioni: io preferisco gli angeli.