
Ogni pratica, non solo artistica (pensa a quelle sportive, ad esempio) richiede un periodo di apprendimento, più o meno lungo. A volte questo periodo viene definito come una “curva”, e trovo che l’immagine sia azzeccata, perché si parte da zero, si sale, si sale, si sale… e poi si inizia a scendere.
Una coccinella alle prese con una curva un po’ ripida… ogni fotografo all’inizio si è sentito così.
Com’è possibile, dirai, smettere di imparare? Come si può crescere nel perfezionamento della pratica fotografica, e poi “fermarsi”, addirittura disimparare? Non di curva bisognerebbe parlare, sento che stai pensando, ma di retta in costante ascesa.
L’immagine è quella di una sorta di mostro affamato, che continua a ingurgitare dati, nozioni, tecniche, competenze, esperienze, idee, seguitando a ruminare questa massa di informazioni al solo scopo di migliorare se stesso. Diventare, insomma, sempre più bravo e inattaccabile dal punto di vista della cultura, tecnica almeno.
Ammettilo, non è una bella immagine.
All’inizio siamo stati quasi tutti così. Io ricordo perfettamente che divoravo libri e manuali vari, e leggevo almeno tre riviste di fotografia al mese. Volevo saperne sempre di più, e mentre le mie foto rimanevano scadenti e tristemente “da principiante”, potevo discettare di diaframmi e tempi, di profondità di campo, mosso intenzionale, luce naturale e artificiale, esposimetri e obiettivi con quella prosopopea che ritrovo tante volte, ancora oggi, ad esempio su Internet.
Quasi che la fotografia fosse solo ed esclusivamente un fatto tecnico, come se dopo quasi duecento anni non si accettasse ancora l’idea che invece fotografare è un modo per esprimere se stessi.
La tecnica è nulla, se non vincolata a un’emozione.
Indubbiamente se avessi dovuto partecipare a qualche quiz a tema fotografico, le mie competenze mi sarebbero servite molto, ma per fotografare, purtroppo, erano spesso d’impaccio.
Perché la tecnica non va “conosciuta”: deve, invece, diventare una seconda natura.
Qualcosa che impari e dimentichi, ma non per davvero, nel senso che rimane nascosta dentro di te e soccorre il tuo agire fotografico. Solo, non te ne rendi conto. Esattamente come quando hai imparato ad andare in bicicletta non è che poi stai sempre lì a valutare il tuo equilibrio e come pedalare: sali in sella e vai.
Devi certo imparare la tecnica, ma poi devi smettere di farlo, a parte qualche “ripassatina” ogni tanto, che non guasta. Dopo trent’anni di attività fotografica intensa e professionale, ci sono aspetti tecnici che debbo andare a rivedere ogni volta, specialmente se ho necessità di spiegarli a qualcun altro.
Non c’è niente di male in questo, perché la vera conoscenza è l’uso che fai delle tue competenze, non il fatto di poterle mandare a memoria.
Una cosa è imparare a memoria, ad esempio, interi canti de “La Divina Commedia” (cosa che un tempo a scuola si faceva) e un’altra è saperla comprendere e commentare.
Perciò le cose vanno così: prima impari, impari, impari (cioè studi, studi, studi) e poi – quando sei in cima alla curva, manco fossi al Luna Park – è il momento di lasciarti andare, di iniziare non più a studiare per diventare fotografo, ma di esserlo e basta. Il che comporterà ancora lo studio e l’applicazione, ma con uno spirito completamente diverso. Non sei più un principiante, diamine.
Io credo di poterne parlare a ragion veduta, visto che da tempo sono in quella fase discendente della nostra “curva”, e da tanti anni ho smesso di essere un principiante, laddove ci sono fotografi che restano tutta la vita degli “absolute beginners” nonostante la pratica e gli studi!
Il fatto è che la nostra società e soprattutto le nostre scuole sono organizzate intorno al concetto di perenne apprendimento. “Gli esami non finiscono mai”, diceva Edoardo, e da ogni punto di vista aveva ragione. Se devi sempre imparare qualcosa, ci sarà sempre qualcun altro che te ne chiederà conto. E se non hai studiato, ti guarderà con occhi tristi che sembreranno dire “peccato, sei rimasto indietro”.
E’ come non aver mai tolto lo zaino delle elementari dalla schiena, è come non essersi mai alzati dal banco in terza fila (io, almeno, stavo lì).
Pensa a come le fotocamere cambiano con una velocità un tempo sconosciuta, e a come devi sempre apprendere nuovi termini tecnici, oggi più che altro legati al mondo dell’elettronica. Quelli della mia generazione si son dovuti sorbire il passaggio dall’analogico (di cui ancora nemmeno avevamo compreso tutto) al digitale (di cui non comprenderemo mai tutto), e non è stato facile, con quella terminologia astrusa, i mille controlli a cui prestare attenzione, e la gestione del colore, gli hard disk, i molti device, e via elencando.
Ragazzi, si resta apprendisti a vita, studenti all’infinito, pivelli per l’eternità!
Così ci vorrebbero almeno gli esperti del marketing che lavorano per le case produttrici di computer e fotocamere.
Perché laddove non arriva la competenza personale, si può supplire acquistando nuova (apparentemente più comprensibile) tecnologia, che faccia il lavoro al posto nostro. E magari acquistando corsi tutto incluso che ci facciano finalmente intendere a cosa serva un determinato bottone della nostra fotocamera, o quel comando (rigorosamente da “menu a discesa”) del software sofisticato che abbiamo installato sul computer velocissimo. Che bello.
Le nuove fotocamere hanno automatismi che realizzano per te il focus stacking e l’HDR, lo stitching di panorami e addirittura la scelta della foto “migliore” in una raffica di 10 foto al secondo. Eppure mi pare che intere generazioni di grandi fotografi abbiano potuto fare a meno di questi automatismi, comodi in molte occasioni ma che hanno due scopi essenziali: mettere a disposizione di tutti tecniche “esoteriche” e placare l’ansia da apprendimento del fotografo.
Il problema non è che certe tecniche siano oramai automatizzate (spesso la cosa è molto comoda), è che imparare davvero una tecnica ti porta a chiederti perché utilizzarla e come possa essere utile per esprimere quel che hai da dire. Invece premere un pulsante diventa quasi un gioco, un “vediamo che effetto fa” e non a caso tecniche come l’HDR sono diventate oramai invasive e invadenti. Io l’ho utilizzata per anni, quando ancora erano in pochi a conoscerla, ho anche pubblicato parecchie foto a gamma estesa, ma senza esagerare e solo quando davvero utile.
Non è la tecnica che fa la foto, né la fotocamera: è sempre e solo il fotografo. Banale a dirsi, eppure è l’insegnamento più facilmente dimenticato. Strano.
Ma torniamo al nostro tema: per smettere di essere principianti, in fotografia come in tanti altri campi dello scibile umano, occorre allora arrivare alla comprensione che non è imparando di più che si migliora, ma diventando più consapevoli delle nostre potenzialità e dei nostri sentimenti, iniziando finalmente a porci le domande giuste.
- Snowden Ward, nel 1902, scriveva: “Il fotografo che realmente riflette sull’opera propria, elimina il caso dal suo risultato, e quantunque essa possa essere considerata buona o cattiva dai critici, consegue almeno quel tale scopo perché ad esso appunto ha mirato. Fare una cosa giusta è bene; ma conoscere perché si fa tal cosa, anche quantunque non sia giusta, è meglio”.
Quando parti dalla parte bassa della curva di apprendimento, ti chiedi “come?”.
Vuoi scoprire ogni segreto tecnico, comprendere come ottenere foto correttamente esposte, a fuoco, non mosse. Ti dico: con un po’ di impegno son cose che si imparano in poco tempo.
Se resti aggrappato alla convinzione che l’importante sia perfezionare il “come”, la tua curva continuerà a salire, ma tu resterai sempre un principiante e ogni méta è appunto solo il principio di un nuovo percorso di apprendimento.
Quando scoprirai che ciò che davvero conta è “perché” (perché voglio fotografare? E perché questo soggetto? e così via), la curva non sarà più tale. Potrai continuare, è ovvio, a scoprire nuovi aspetti tecnici, a imparare trucchi e trucchetti, ma saranno solo strumenti a tua disposizione: sarai un fotografo, non più un eterno principiante.
Sembrerebbe un passaggio semplice, addirittura elementare. Lo è, in effetti. Ma per scoprirlo a volte non basta una vita!
Soprattutto, col tempo arriverai a capire che quel che conta imparare, su cui vale la pena investire tempo e risorse, non è la tecnica, ma la capacità di vedere e dunque di raccontare.
Ogni scrittore degno di questo nome avrà imparato dapprima a scrivere, poi a scrivere bene, poi avrà approfondito le tecniche narrative più particolari, partecipato a corsi di scrittura creativa e così via, ma alla fine quel che conta è la storia che ha in mente e che cresce dentro di lui, le emozioni che saprà mettere sulla pagina. A chi mai fregherebbe qualcosa di una storia affatto interessante, noiosa e senza emozioni, ma scritta benissimo?
Come fotografo hai a disposizione strumenti incredibili per emozionare, commuovere, divertire, intrattenere le persone, hai la possibilità preziosa di narrare storie e mostrare mondi (reali o di fantasia), di metterti in gioco e di aprire la tua anima (diciamo così), e vorresti ridurre tutto allo studio della coppia tempo/diaframma?
A vedere i commenti di alcuni post su Facebook, o le considerazioni su diversi forum, sembrerebbe così. Facci caso: quante volte si parla davvero delle foto e di emozioni? Davvero di rado.
Ma se è vero che senza lo studio e la comprensione della coppia tempo/diaframma (tra le altre cose) non potresti avere una foto ben esposta, è anche vero che senza studiare e comprendere il linguaggio e le potenzialità della fotografia, avresti solo una foto corretta. Un po’ poco, non trovi?
Specialmente perché, andando avanti, scendendo lungo quella curva di cui abbiamo trattato, la verità che diventa lampante è che la singola foto è preziosa, un cammeo piacevole a guardarsi, ma solo grazie a un insieme di fotografie, tra loro connesse e dialoganti, si può creare un racconto, comunicare in modo più profondo e articolato, realizzare una connessione con lo spettatore.
Il grande passaggio tra il principiante e il fotografo maturo spesso è proprio in questo cercare il tema, la serie, il reportage, nel non accontentarsi della singola, bella foto, nella consapevolezza che puoi usare poche o tante “parole” per dire quel che hai da dire, ma di certo con una parola sola potrai dire ben poco…