
Don McCullin è uno dei più affascinanti, dei più cinici, dei più crudi, dei più coraggiosi fotografi del panorama contemporaneo mondiale.
Se da una parte ci colpiscono la sua bravura e il suo successo, dall’altra però non possiamo che restare impressionati di fronte al percorso che McCullin ha dovuto affrontare, e che lo ha portato alla fine a quasi “rinnegare” il suo lavoro di reporter.
Ma partiamo dall’ inizio …
Don McCullin: primi anni e inizio di una passione
Donald McCullin non ebbe sicuramente un’infanzia semplice.
Nato a Finsbury Park, un quartiere tra i più malfamati della Londra del 1935, visse gli anni della giovinezza tra compagnie di ragazzacci e un padre col vizio del gioco d’azzardo, il tutto incorniciato dai bombardamenti tedeschi della Seconda Guerra Mondiale.
Ebbe la possibilità di studiare, prediligendo in particolare il disegno per il quale era molto portato, perlomeno finché il padre non morì, quando lui aveva solamente 15 anni.
Abbandonò così la scuola per contribuire al mantenimento della famiglia ed entrò nella RAF, la Royal Air Force britannica, in qualità di assistente alla fotografia, poiché non aveva superato il test per diventare fotografo da campo.
Ebbe così modo di sperimentare ed appassionarsi “all’arte della macchinetta”, durante il servizio svolto presso il canale di Suez nel ’56, nell’anno dell’omonima crisi militare fra Egitto e Inghilterra..
Tornato a Londra, nello stesso anno si comprò la sua prima fotocamera, una Rolleicord, ed iniziò la sua carriera di fotografo
Vagabondando tra le strade di Londra ebbe un’illuminazione e nel ’58 decise i fare un servizio fotografico su una gang di coetanei molto particolare: i “Guv’nors” (i “Governatori”, in slang).
“L’abbigliamento formale della gang non deve ingannare. La Londra del dopoguerra era lacerata da una rivalità tra bande molto pericolose che manifestavano tutto il disagio di una generazione cresciuta nei bombardamenti. Sopra i Guv’nors di McCullin, 1958.”
Il servizio, accattivante, attuale, sagace, ritraeva una Londra ignorata dall’establishment, e forse proprio per questo catturò l’interesse di uno dei giornali più importanti della capitale, il “The Observer”.
E proprio “The observer”, nel ’61, mette sotto contratto Don McCullin in qualità di fotografo/fotoreporter.
Nei seguenti 3 anni McCullin lavora principalmente in Inghilterra e nei paesi limitrofi finché, nel ’64, accetta l’incarico di fare un servizio in qualità di inviato speciale sulla guerra di Cipro.
Don McCullin fotografo di guerra
Cipro, 1964. L’isola fu più volte lacerata da una guerra intestina tra le due etnie più numerose, i turco-ciprioti e i greco-ciprioti.
Il conflitto, una vera e propria guerriglia urbana, vedeva contrapporsi la Guardia Nazionale, sostanzialmente pilotata dalla maggioranza greca, e la milizia turca, sostenuta con interventi più o meno diretti dalla Turchia.
McCullin delineò una panoramica del conflitto incentrando la prospettiva sulla sofferenza della popolazione che subiva e combatteva.
Guerriglieri turchi.
L’esperienza a Cipro sarà fondamentale nella definizione di quelli che saranno i tratti tematico – stilistici tipici di una buona fetta del lavoro del fotografo:
- Ricerca di sguardo completo, che catturi la realtà di tutti coloro che sono coinvolti.
- La necessità di avvicinarsi per immergersi nella lotta e nello sconforto della realtà ritratta.
- Un taglio amaro, che lascia presagire la violenza imminente o recente.
- Un profondo accento sulla condizione umana.
Un mix vincente di sensibilità umana e di coraggio che si inserì nella tradizione, iniziata con Robert Capa, dei grandi reportage di guerra
L’eco del servizio effettuato a Cipro rese McCullin famoso, e lo portò a lavorara, qualche anno dopo, per il “The Sunday Times”.
Negli anni al Sunday si ritrovò a lavorare durante catastrofi umanitarie, guerre, disastri naturali, avvicinandosi sempre di più al mondo degli ultimi.
Vietnam, Irlanda del Nord ed il continente africano furono solo alcuni dei paesi che attraversò in questo periodo, sempre in prima linea.
Il tutto per inseguire una “guerra persa”, come la definì lui stesso, dedicata in primo luogo alla causa umana.
Causa che lo portò spesso ad abbandonare “la macchinetta” per prestare soccorso ai feriti, per aiutare direttamente chi dovesse avere bisogno.
Dovette pagare un prezzo per questo: rischiò più volte la vita (nel ’68 la fotocamera arrestò un proiettile a lui indirizzato), vide e sopportò cose atroci, dovette spesso lasciarsi dietro la sua famiglia con tutto il senso di colpa che derivava dalla possibilità di non far più ritorno.
E a differenza di Robert Capa, che anche in mezzo alle situazioni più difficili non perdeva mai del tutto il suo spirito avventuriero e guascone, Don McCullin risentì profondamente delle tragedie in cui si immergeva.
La sua vita fu scandita fin dall’infanzia dalla sofferenza e questo fu un peso che non smise mai di portarsi dietro, almeno finché non decise di abbandonare definitivamente i fronti del mondo per cercare un po’ di pace nella sua abitazione in Somerset, dove si dedica prevalentemente ancora oggi a ritratti e paesaggi.
“I paesaggi di McCullin sono spesso un ultimo, malinconico grido di aiuto per salvaguardare il selvatico splendore della natura dalla mano dell’uomo.”
Qualcosa in più sugli scatti di Don McCullin
La vita e le esperienze traumatiche sopportate da McCullin formano il cardine attorno al quale si sviluppò l’attività del fotografo.
I lavori riportati precedentemente infatti sono solamente un abbozzo della vastità e della complessità del lavoro da lui prodotto.
Di seguito dunque, voglio presentarti ancora qualcuna delle sue foto più famose e emblematiche:
Soldati americani supervisionano la situazione dopo la costruzione del muro di Berlino. 1961. Nota come siano simili, più che ad esseri umani, a statue di pietra dimenticate all’interno delle loro nicchie.
“Manifestazione contro l’embargo, durante la crisi dei missili cubani a Londra. 1962.”
“Carica della polizia, durante le violente rivolte dell’Irlanda del Nord.”
“Vietnam. Shell Shocked Marine, uno dei suoi scatti più celebri (fin troppo a detta sua). Ritrae un marine americano dallo sguardo vacuo, fisso. Nuovamente, non un uomo, ma un essere pietrificato dall’orrore della guerra.
“Sempre in Vietnam. Un padre ferito assieme al suo bambino.”
La sua fama come fotoreporter di guerra divenne tale che nel ’82 il governo britannico gli impedì di lavorare ad un servizio sulla guerra delle Falklands, temendo l’eco che i suoi scatti avrebbero riscosso..
Un uomo come McCullin non poteva però sopportare all’infinito l’orrore della tragedia.
Così, esattamente come farà da lì a qualche anno Sebastiao Salgado, deciderà di ritirarsi alla ricerca del conforto che spesso la natura può regalare, nel tentativo di lenire le cicatrici lasciate dall’esperienza.
Don McCullin, nelle rare interviste, si rivolge al mondo con una nota amara, convinto, ancora oggi più che mai, che il suo lavoro non sia stato di reale contributo al miglioramento della realtà di nessuna delle situazioni da lui riportate; che fotografare e mostrare al mondo non sia sufficiente.
Una lezione da Don McCullin
Un fotografo malinconico con una carriera ed una vita sacrificate sull’altare della sofferenza. Questo è il ritratto di Don McCullin se si va oltre lo stile e si arriva ai contenuti.
Eppure non me la sento di mettere qui il punto e chiudere.
Al contrario sento il bisogno di fare una considerazione finale che spero tu, come me, possa condividere.
Se veramente la fotografia di McCullin fosse stata inutile, bella ma poco salvifica come dice lui stesso, allora perché farla innanzitutto?
A quale scopo? Per far carriera, per farsi sparare?
A mio avviso è un cinismo tardivo quello del fotografo, un cinismo dettato dall’eterno accavallarsi di tragedie simili e diverse al tempo stesso.
Ma se a quei giorni non fosse stato veramente spinto da una fede, da una speranza, allora davvero avrebbe attraversato tutti quegli “inferni” per niente?
McCullin si conferma a mio parere come una delle mentalità più complesse e contrastanti del mondo della fotografia ed è forse per questo che mi affascina così tanto.
Prima come uomo, poi come fotografo.