
Facciamo una premessa storica.
Da quando è nata, la fotografia ha sempre dovuto lottare per ricavarsi un proprio spazio nel mondo delle arti, spintonando da un lato le arti grafiche (a cui era accomunata soprattutto dall’uso del bianco e nero) dall’altra la pittura, dal cui mondo oltretutto provenivano gran parte dei fotografi.
I Pittorialisti furono i primi a rivendicare un ruolo autonomo della fotografia, sebbene nel farlo – a cominciare dal nome – si rifacessero alla pittura come modello iconografico e compositivo, oltre che contenutistico.
Sebbene molti autori esagerassero nel creare fotografie neo-preraffaelite, con armigeri in sella e dame dai lunghi strascichi, o si impegnassero in tableaux-vivant di contenuto moraleggiante, i Pittorialisti erano autenticamente interessati a trovare un modo per affrancare la fotografia da questo legame sin troppo stretto con la “sorella maggiore”.
Certo, da un lato dovevano fare i conti con i limiti ben precisi dettati dalla tecnica ancora incerta, dall’altro lato non avevano ancora modelli di riferimento alternativi, se non quelli dei grandi viaggiatori del passato con i loro schizzi “al volo” ripresi sul campo, a cui in effetti si ispirarono i fotografi “viaggiatori” che dalle Piramidi d’Egitto ai canyon del Far West esploravano il pianeta portando con sè pesanti fotocamere di grande formato e intere camere oscure montate su carri (la tecnica del collodio umido prevedeva la preparazione della lastra sul campo e l’immediato sviluppo).
Intorno agli anni ‘20 del XX secolo, però, qualcosa sembra cambiare.
In alcuni paesi, come l’Italia, il Pittorialismo continuerà ancora a lungo, ma nel resto d’Europa e negli Stati Uniti cominciano ad emergere autori davvero innovativi, a cominciare da Atget per arrivare a Rodchenko o Moholy Nagy, con il loro Modernismo fatto di punti di vista arditi e la ricerca della situazione surreale, grafica, straniante.
Sono gli anni della Leica, la prima fotocamera davvero tascabile, che apre le porte al reportage e a un modo di fotografare più spontaneo.
Insieme al movimento Dada e poi alla Bauhaus, entrambe scuole molto interessate alla fotografia, si diffonde la Neue Sachlichkeit, la Nuova Soggettività, con autori come Karl Blossfeldt e successivamente i coniugi Becher.
Un modo di intendere la fotografia priva di passioni ed emozioni forti, ma con uno sguardo freddo e tagliente. Una reazione evidente alle atmosfere ovattate e flou e ai temi romantici e a volte melensi del Pittorialismo.
In questa rivoluzione, il ruolo più forte l’ha svolto quella che, in generale, viene chiamata Straight Photography. Non è una vera e propria corrente fotografica (anche i Neo-Soggettivisti sono “straight”), ma una modalità di intendere la ripresa che evita qualsiasi contaminazione da parte di altre arti.
La fotografia deve parlare con la propria voce, in modo diretto (“straight” appunto) e senza aggiunte successive, fotomontaggi, stampe su carta da acquerello e cose del genere.
I campioni di questo modo di intendere la fotografia sono stati i membri del collettivo f/64, nato nel 1931 in California, a San Francisco. E’ davvero incredibile quanta influenza possa aver avuto un piccolo gruppo di fotografi, che oltretutto collaborarono per soli tre anni, sulle sorti della nostra arte nei decenni successivi.
Come scrive Mary Street Alinder nel suo libro dedicato al Gruppo f/64:
“nell’autunno del 1932 una banda di fotografi del nord della California si mise assieme per ottenere un riconoscimento – per se stessi come artisti seri e per il loro medium, la fotografia, come autentica arte, alla pari con le altre. Chiamando se stessi Gruppo f/64, asserivano che la fotografia in se e per se può essere un’arte completa e indipendente. Essi definirono la fotografia sulla base delle sue proprietà intrinseche, come metodo basato sugli obiettivi a lenti. La forza di un obiettivo è che può mettere a fuoco nitidamente per produrre delle immagini finemente dettagliate. Il loro stile divenne noto come straight photography, e divenne la tradizione fotografica dominante del ventesimo secolo”.
Puoi chiedere a qualsiasi fotografo se conosce il Gruppo f/64 e molto probabilmente ti risponderà di si, o almeno l’avrà sentito nominare, laddove se parli delle altre correnti molti scuoteranno la testa dubbiosi.
In fondo anche questa rubrica la abbiamo chiamata f/22 proprio come richiamo all’esperienza dei fotografi californiani, adattato a una logica di piccolo formato oggi più usuale.
Ma se pensiamo a quanto “americana” fosse la loro produzione, e a come diversi autori (come Preston Holder, Willard Van Dyke, John Paul Edwards, Sonya Noskowiak, Henry Swift) siano sostanzialmente ignoti nel nostro paese, e non solo, la faccenda sembra ancora più straordinaria.
In effetti, la fama del gruppo si regge principalmente su quella di Ansel Adams ed Edward Weston (e in parte Imoghen Cunningham).
Lo statuto, anzi il “manifesto” del gruppo spiegava che poteva associarsi “solo chi si batteva per definire la fotografia come forma d’arte, che sfruttava con chiarezza e semplicità solo sistemi fotografici”, cioè appunto senza derivazioni da altre forme d’arte.
Presumo che il grande successo del collettivo si debba al fatto che il loro messaggio sia arrivato nel momento giusto, facendo piazza pulita dei resti del Pittorialismo o della presunta artisticità di certe fotografie più o meno manipolate. Insomma, il terreno era pronto per accogliere la pianta della Straight Photography, e occorreva soltanto qualcuno che la mettesse a dimora.
Nei decenni successivi, il “Pittorialismo” finì per essere una sorta di insulto: le foto di questo genere erano retoriche e banali, indegne di un autore che volesse definirsi serio e impegnato, sostenevano praticamente tutti.
Ma una nuova rivoluzione è arrivata poi a cambiare di nuovo tutto: il digitale.
Siamo invasi da fotografie pittorialiste, sebbene non dichiarate come tali, mentre le foto straight fanno fatica a imporsi per un semplice motivo: che in pochi credono che siano davvero tali, che cioè non siano, in qualche modo, manipolate. “E’ troppo bella per essere vera”, è il nuovo mantra.
Che ha una sua ragion d’essere, perché il digitale non consente di fare cose impossibili un tempo, ma consente di farle in modo rapido, preciso ed efficace, e dunque alla portata di chiunque. Come resistere alla tentazione?
Cicli storici, sembrerebbe. Il Pittorialismo torna sotto altre forme. Quante stampe – magari inkjet – sono realizzate su carta da acquerello, o carte martellate, o su tela?
La “combination printing” (il montaggio di più foto) diventa un giochino in grado di creare immagini fantasmagoriche, a volte spacciate per vere quando invece sono dei “fake”, mentre i colori sono adeguatamente pompati oppure desaturati per dare l’idea di una foto Autochrome, il metodo inventato dai fratelli Lumiere per ottenere foto a colori.
Con pochi click oggi puoi ottenere il risultato che un tempo richiedeva lunghe sessioni di lavoro, ma il senso non cambia.
Un paio di esempi di foto elaborate in stile neo-pittorialista, con texture e coloriture.
Personalmente credo che questa vicenda abbia molte cose da insegnarci, sia dal punto di vista “filosofico” che tecnico. Ne faccio, per comodità, un breve elenco.
- Innanzitutto, che è sempre sbagliato costringere la creatività all’interno di regole rigide. Tra i Pittorialisti ci sono stati alcuni dei fotografi più grandi della storia (come Alvin Langdon Coburn), così come tra i praticanti della fotografia straight, che ha dominato praticamente quasi tutta la produzione della seconda metà del ‘900. E la contaminazione tra i generi spesso crea ottime occasioni per elaborare un modo nuovo ed efficace di esprimersi: perché tarparsi le ali? Solo per dire di aver rispettato le regole?
- Inoltre, occorrerebbe sempre ricordarsi che la validità di qualsiasi opera creativa è legata non certo al genere a cui appartiene, ma all’autenticità dell’ispirazione. Altrimenti, dovremmo dire che, dato che la musica classica è l’unica arte musicale davvero nobile (e su questo non ci sono dubbi), i più grandi autori del Jazz, del Pop, del Rock son solo delle mezze calzette. Il che è ovviamente falso. Quando hai qualcosa da dire, e sai come dirla, il resto conta poco o nulla;
- Vorrei anche aggiungere che il ritorno del pittorialismo, sotto forma di quello che potremmo definire un Neo-Pittorialismo digitale, non ha molti punti di contatto con quello del XIX secolo, e aggiungo purtroppo. Tanto quello nasceva da una conoscenza dell’arte in generale, della composizione, delle regole (per quanto asfissianti) dell’Accademia, e dunque esprimeva comunque una profonda consapevolezza dei mezzi tecnici e della personalità dell’autore, tanto oggi buona parte dei fotografi digitali ignora la storia della fotografia (lasciamo stare conoscere Velazquez, Vermeer o Caravaggio), apprende le tecniche grazie a tutorial passo passo e li applica pedissequamente e non ha molto da dire se non far vedere “quanto è bravo”. Non per tutti è così (grazie al cielo), ma indubbiamente per troppi autori il richiamo al passato, alle textures, ai bordi pennellati, alle sfocature, al fuoco morbido è solo un giochino, appreso magari con qualche app sullo smartphone. Non c’è niente di male, sia chiaro: giocare è cosa assai saggia. Se si è consapevoli di star giocando, o esplorando nuovi campi creativi che potrebbero magari essere utili in futuro. Ma quando si fa sul serio (e se si desidera farlo) la consapevolezza dev’essere al primo posto, altrimenti il risultato sarà sempre e comunque non all’altezza delle aspettative.
E fammi chiudere con una piccola osservazione tecnica.
All’epoca del gruppo f/64, la gran parte dei fotografi aderenti utilizzava fotocamere di grande formato, sino al 20×24 cm che era lo standard per Edward Weston che, visto che stampava a contatto, non ha mai prodotto foto più grandi (e questo dovrebbe far riflettere, oggi che una foto 70×100 cm viene definita “piccola”).
Con questi formati, chiudere il diaframma a f/64 voleva certo dire aumentare a dismisura la profondità di campo, ma comunque mantenere una buona qualità, perché l’inevitabile diffrazione legata a una chiusura così estrema veniva compensata dal formato stesso.
In realtà, gli aderenti al gruppo di rado andavano oltre f/16 (“Clearing Winter Storm” di Adams venne scattata con questa chiusura di diaframma, ad esempio), e il richiamo alla massima chiusura possibile del diaframma era fatta esclusivamente in senso ideale, per intendere la più estesa profondità di campo, cioè quella che è la maggiore nitidezza percepibile possibile.
Con formati ridotti, la diffrazione si fa sentire, anche sul medio formato. Non a caso gli obiettivi delle fotocamere arrivano al massimo a f/22 (f/32 su alcuni macro, dove a volte la profondità di campo è più importante della diffrazione), ma si consiglia sempre di non superare f/16 sul Full Frame, f/11 su Aps-c e f/9 su Micro Quattro Terzi, se si vuole evitare una evidente caduta di qualità, perdendo quella nitidezza tanto cercata (che è comunque un concetto borghese, come sosteneva Cartier Bresson).
Insomma, anche scegliere il diaframma, oltre a essere una scelta tecnica, è a sua volta una scelta pienamente creativa.