
Roger Fenton (Heywood, 28 marzo 1819 – Londra, 8 agosto 1869) è stato uno dei più grandi fotografi ottocenteschi, un vero pioniere in molti campi e soprattutto in quello della fotografia di paesaggio e di architettura. Ma i suoi interessi erano piuttosto vari. Si trovò così ad essere anche il primo “fotoreporter” di guerra della storia, in un periodo in cui per realizzare le fotografie occorreva portare con sé una pletora di attrezzature pesanti e ingombranti (36 casse in totale) e un’intera camera oscura ospitata in un carro trainato da cavalli.
Con il sostegno del Ministero della Guerra britannico e di un editore che gli aveva promesso di pubblicare le sue foto in un portfolio, si imbarcò per la Crimea (guarda caso) dove Regno Unito, Francia, Regno di Sardegna e Impero Ottomano combattevano contro la Russia zarista. Fenton rimase in Crimea dal marzo al giugno 1855 come fotografo “embedded” – diremmo oggi – tra le truppe britanniche. Ovviamente, anche a causa dei limiti tecnici della fotografia dell’epoca, ma soprattutto per disposizione dei militari, poteva fotografare solo le retrovie, dedicandosi di fatto a comporre bei ritratti di soldati e dei loro comandanti.
Sempre impeccabilmente vestiti, sia i comandanti che i soldati sembravano pronti per andare a una festa. Del fango che regnava ovunque (a quanto pare fu un periodo abbastanza piovoso) non c’era traccia. Chi guardava le foto poteva pensare a un’allegra scampagnata: più che oscuri pensieri sulla guerra, le foto ispiravano il desiderio di partecipare. Se questa è la guerra, voglio partire anch’io! si saranno detti i concittadini inglesi di Fenton.
Diciamolo, da allora la fotografia è diventata un po’ più smaliziata, ma alla fine l’obiettivo che si pongono i diretti interessati (i paesi in guerra e i loro amici) è esattamente lo stesso: apparire forti, determinati e con le mani pulite. La questione se vogliamo è riuscire a comprendere cosa le foto intendono trasmettere, e questo coinvolge i fotografi – è ovvio – ma anche tutto il sistema informativo.
Il bravo fotografo, infatti, sa far trasparire le emozioni che i comandi militari – o i giornali schierati – vorrebbero nascondere. Lo stesso Roger Fenton, il 23 aprile scattò finalmente la foto che lo avrebbe reso famoso e che spesso viene indicata come la prima, vera foto di guerra della storia: “Valley of the Shadow of Death” (La valle delle ombre della morte). Il titolo deriva da un Salmo della Bibbia.
Questa foto è di stretta attualità per vari motivi. Il primo è il luogo dove venne scattata: appunto la Crimea, da sempre una di quelle terre “sfigate” che per la loro posizione strategica sono destinate a essere contese e dunque instabili, come i fatti di questi ultimi anni ci dimostrano. Se vogliamo, dimostra anche che da sempre la Russia la ritiene fondamentalmente “proprietà privata” e dunque che di certo non sia disposta a lasciarla in mano ucraina. Già allora costò ai russi pesanti perdite (256.000 vittime, di cui 128.000 direttamente per i combattimenti) e una dolorosa sconfitta.
Inoltre rende chiaro come – anche storicamente – “sebbene ci sentiamo assolti siamo per sempre coinvolti“, per dirla con De André, visto che in Crimea di fatto i piemontesi andarono per gettare le basi delle future alleanze che permisero nel 1859 al Regno di Sardegna di iniziare la campagna per l’indipendenza italiana. Un pochino, insomma, c’entriamo anche noi.
Ma dimostra anche, e direi soprattutto, che non serve mostrare morti, sangue e distruzione per evocare le “ombre della morte” e lo spettro orribile della guerra: basta una distesa di palle di cannone in un paesaggio desolato. La foto è così efficace che da quasi due secoli viene tirata fuori ogni volta che una nuova guerra è in corso, anche per dimostrare che niente, non impariamo mai. Non avremo più le palle di cannone ma missili e aerei potenti, ma davvero la logica è sempre quella della clava. La barbarie che portiamo dentro e di cui non riusciamo a liberarci.
Oltretutto la foto è stata, molto probabilmente, costruita ad hoc, un po’ come si sostiene della foto del “Miliziano morente” di Robert Capa. Ne esistono infatti versioni diverse, una senza le palle di cannone – effettivamente disposte in modo troppo regolare – sulla strada.
E’ del tutto ovvio che Fenton volesse “saturare” con i proiettili la scena per renderla più efficace. Una pratica che non è mai cessata da allora, ancora oggi ci sono reporter che chiedono di spostare i cadaveri per rendere la scena “più forte”, come anche pratiche di propaganda che spacciano foto fatte altrove o organizzate ad hoc come riprese recenti fatte “sul posto”.
Tuttavia io preferisco vederla invece come una scelta comunicativa e artistica, visto che la foto non vuole essere una mera documentazione (dato anche il titolo) ma evocare un’atmosfera, delle sensazioni. In tal senso funziona alla grande. A rigore la si poteva anche scattare altrove, nemmeno serviva andare in Crimea, ma se vogliamo è in questo la sua grandezza.
Ad ogni modo mi è tornata in mente in questi giorni proprio perché nell’infinita serie di corsi e ricorsi storici, rappresenta un tassello di quella consapevolezza che dovremmo avere tutti del fatto – puro e semplice, addirittura ovvio – che la guerra non risolve mai (mai!) i problemi. Ogni conflitto, indipendentemente da come termina, ha in sé i germi per un conflitto futuro. Quei bambini che piangono disperati e che vediamo evacuare dalle città martiri dell’Ucraina saranno i soldati e i combattenti di domani, se non sapremo fermare questa follia, e vale per qualsiasi conflitto in ogni parte del mondo.
Mi piacerebbe davvero che i vari negoziatori e mediatori che cercano di convincere la Russia a interrompere l’attacco e l’Ucraina ad accettare un compromesso, portassero sempre con sé, e avessero bene in mente, la foto di Fenton. Questa è la guerra: desolazione, solitudine, morte, devastazione, ingiustizia.
E mi piacerebbe anche che si riuscisse a guardare le fotografie non fermandosi alla loro superficie. Come nella foto di Fenton, il “messaggio” spesso è implicito e sottile, legato alla sensibilità del fotografo o della fotografa, e ovviamente dello spettatore.
Le recenti polemiche riguardo le foto realizzate da Annie Leibovitz ai coniugi Zelensky – ma in verità il reportage è soprattutto su Olena Zelenska, dato che a pubblicare il lavoro è stata “Vogue” – mi hanno rattristato perché da un lato ci si ferma a quel che la foto apparentemente rappresenta, dall’altro ci si dimentica che la Leibovitz è uno dei più grandi fotografi viventi (uso il maschile per dire che lo è a prescindere dal sesso), una donna con alle spalle una carriera incredibile e che questo dovrebbe spingerci almeno a concederle il beneficio del dubbio.
Non è un reportage nel senso giornalistico del termine, sono foto di ritratto ambientate, ovviamente costruite, e come sempre in questi casi è l’espressione e il “body language” che andrebbe interpretato.
Le foto sono ritenute “inopportune” visto che il paese è in guerra, troppo “estetizzanti”, che fare fotografie di “Moda” in Ucraina è immorale. E queste sono le critiche più benevole. Leggendole mi sono chiesto cosa diavolo avesse combinato la Leibovitz. Poi ho visto le foto e come fotografo le ho trovate subito ben diverse da come sono descritte sui giornali o sui siti online.
La Leibovitz lavora con gli sguardi e gli atteggiamenti: gli occhi stanchi e tristi dei due coniugi, anche quando abbozzano un sorriso o una posa serena, non mi hanno affatto ispirato un’idea di “glamour”, anzi l’opposto.
Come ha sottolineato Oliviero Toscani, la Leibovitz è una delle maggiori ritrattiste al mondo, sa tirar fuori l’umanità dei suoi soggetti, sa interagire con essi, anche quando scatta per riviste di moda. E che riviste: “Vogue” è per la fotografia una vera istituzione, basti ricordare che è stato Edward Steichen in persona a “impostare” la sua iconografia già negli anni ’30. Scusate se è poco.
Ma la Leibovitz è stata anche reporter di guerra, basti ricordare la foto realizzata negli anni ’90 a Sarajevo, dove si trovava con la compagna, la giornalista Susan Sontag (nome che a noi fotografi dice molto!), potente quanto e più della foto di Fenton, anzi potremmo definirla la versione moderna della “Valle delle ombre della morte”: una bicicletta a terra, del sangue.
Straordinaria, terribile. Per dire che non stiamo parlando dell’ultimo arrivata, o di chi non conosce le regole del gioco. A 73 anni la Leibovitz di pelo sullo stomaco ne ha parecchio.
Le foto in cui i Zelensky sono abbracciati o quella in cui sono seduti al tavolo e guardano verso la fotocamera mi hanno colpito. La posa sarà anche stata studiata, ma tradisce la personalità dei due soggetti, e racconta molto della situazione che si trovano a gestire. Sempre ricordando che “Vogue” ha comunque una sua modalità narrativa (come ogni rivista), diciamo pure “sontuosa”. Ma al netto di queste ovvie considerazioni, le foto funzionano.
Ma riconosco che ognuno guarda certe foto con la propria cultura e, vorrei dire, con le proprie convinzioni, anche politiche. E ci sta, fa parte del gioco.
Ma, per favore, almeno non parliamo di “estetizzazione”. Perché mai per secoli si sono realizzati splendidi e acclamati dipinti (e sculture) con scene di guerra (è un genere detto proprio “Arte di Guerra”), in cui la gente che si ammazza sembra serenamente disinteressata o si sono scritti e si scrivono interi romanzi su tematiche di guerra con trame profonde, coinvolgenti e ispirate, o si girano film di guerra con sceneggiature e regie perfette e poi, quando parliamo di fotografia improvvisamente fare delle foto ben fatte, professionali, esteticamente gradevoli anche quando si trattano tematiche scabrose diventa “immorale”?
E’ un’accusa che è toccata a tanti fotografi – il più famoso è forse Salgado – è che trovo ingiusta e assurda. Non è forse compito del fotografo realizzare foto efficaci, ben fatte e dunque, potremmo dire, “belle”?
Creare un servizio con foto ben realizzate e professionalmente studiate e gestite mi sembra quasi il “minimo sindacale” per un fotografo, se non ci sono motivi diversi per – invece – realizzare foto “sporche” (tipo essere sotto il tiro incrociato delle opposte fazioni!). Presumo che nel caso della Leibovitz scattino considerazioni più socio-politiche che creative, oltre al fatto che il reportage sia finito su “Vogue”: se le pubblicava un giornale “classico” forse nessuno avrebbe avuto da ridire…