
“Oltre alla distanza fisica e geometrica che esiste tra me e tutte le cose, una distanza vissuta mi collega alle cose che contano ed esistono per me e le collega tra di esse. Questa distanza misura in ogni momento l’ampiezza della mia vita”,
sosteneva il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty.
Come fotografi conosciamo bene i limiti di un’immagine bidimensionale e immobile: nonostante i nostri sforzi, il più delle volte quelle che erano le nostre sensazioni ed emozioni, provate dinanzi un panorama, un evento, un volto, non le ritroviamo nella fotografia che ne abbiamo tratto.
La foto, si dice, non ha “atmosfera”, è una mera rappresentazione di un dato concreto, magari è ben realizzata, ma non comunica, non emoziona.
Eppure capita ogni tanto di trovare fotografie che invece ci trasmettono una vera scarica emotiva, che ci commuovono, ci fanno riflettere o sognare. Foto che appunto un’atmosfera ce l’hanno eccome.
Per iniziare a lavorare un po’ sull'”atmosfera”, una buona strategia per me è provare a fare foto con la nebbia, in mezzo alla natura. Non so perché, ma è una cosa che mi mette in un particolare “mood” che poi trova sempre riscontro nelle immagini che ne vengono fuori. Naturalmente è solo una delle possibili strategie, perché “atmosfera” ce ne è ovunque.
Ora, è evidente che nel fruire di una fotografia noi sfruttiamo un solo senso, quello della vista, e solo grazie a quest’ultimo dobbiamo evocare tutti gli altri: è questa la vera, grande difficoltà.
Guardando una foto, ad esempio di un bosco dopo la pioggia, dovremmo poter “sentire” la brezza sulla faccia, o percepire l’odore di terra bagnata e udire il suono delle fronde che si muovono o dei nostri passi sulle foglie secche, e così via. Non letteralmente, s’intende, ma come percezione “secondaria”, riflessa.
Ottenere questo risultato, se pure possibile, di certo è difficile, molto difficile. Roba da maestri. Anche perché è davvero arduo fornire dei consigli pratici: possiamo parlare di composizione, esposizione, tempi di scatto, ma alla fine chi può davvero suggerire a un fotografo come rendere la propria opera ricca di “atmosfera”?
E soprattutto: cos’è che intendiamo davvero quando parliamo di “atmosfera” di una località, di una situazione, di un incontro?
Scommetto che non ci hai mai pensato e che come tutti (me compreso) usi questo termine per abitudine, per sottolineare sensazioni e sentimenti evocati in noi nel momento in cui qualcosa succede.
Ma l’atmosfera, che cerchiamo disperatamente di riportare sul sensore, è un elemento più complesso di quel che credi.
Addirittura esiste una scienza chiamata “atmosferologia” secondo cui viviamo il nostro rapportarci al mondo attraverso il cosiddetto corpo-proprio, cioè un corpo “extraorganico” (diciamo così) che percepisce la realtà non attraverso i cinque sensi ma quasi espandendosi nel mondo circostante.
“La percezione atmosferica, in sintesi, è un settimo senso. Una percezione intuitiva delle situazioni”, sostiene Tonino Griffero, uno dei massimi esperti italiani della materia.
Avere questo settimo senso ci aiuterebbe moltissimo nella nostra attività fotografica, oltre che nella nostra vita, non trovi?
Ci consentirebbe di andare oltre il mero dato concreto, per analizzare il nostro soggetto su basi più profonde, cogliendone quegli aspetti che al normale osservatore il più delle volte sfuggono. Che poi è quello che un fotografo dovrebbe fare: rivelare agli altri il mondo circostante, non solo mostrarglielo.
I bravi fotografi mettono nelle proprie immagini quel quid che non è immediatamente visibile, e che loro sanno intuire meglio di altri, riuscendo al contempo a superare l’impasse di cui parlavamo all’inizio: come ricondurre una esperienza, che è varia e multiforme, e multilivello, a un’esperienza monosensoriale come la fotografia?
Probabilmente l’unica risposta a questa domanda potrebbe venirci da una capacità che abbiamo tutti in qualche modo, sebbene il più delle volte inespressa, e che consiste nell’utilizzare più sensi per percepire lo stesso stimolo: un sincronismo funzionale di due organi di senso o due facoltà cognitive, insomma.
Questa capacità si chiama sinestesia (dal greco syn = insieme e aisthesis = sensazione) e quando è pienamente espressa diventa un vero e proprio malfunzionamento dell’apparato sensoriale: ne sarebbe affetta circa una persona su duemila, e da molti anni affascina i neuroscienziati. Secondo la tesi più accreditata potrebbe derivare da un’errata interazione tra diversi centri cerebrali, e sarebbe ereditaria: in effetti ci sono famiglie in cui diversi membri ne soffrono.
Ma come si esplica? Beh, un sinesteta può in pratica “vedere” una musica come un colore o viceversa “udire” un colore come un suono, o percepire un odore se sfiora una determinata superficie, e così via. Esiste anche la sinestesia del tocco a specchio: chi ne soffre percepisce sensazioni tattili quando vede qualcuno che viene a sua volta toccato.
Ma al di là del suo aspetto patologico (che può divenire fastidioso se non debilitante), la sinestesia è molto diffusa, anzi secondo i ricercatori tutti siamo più o meno sinestetici, in quanto il cervello è in grado di far interagire tra loro diversi sensi: nella maggioranza delle persone, però, questa capacità è latente.
Può essere risvegliata, però: sollecitata in qualche modo. Molti artisti utilizzano le droghe, come faceva ad esempio Baudelaire, per risvegliare questa capacità del nostro cervello: ma non mi sembra un sistema consigliabile! Molto meglio esercitarsi a liberare la nostra mente dai legacci della razionalità e iniziare a indagare le nostre reazioni dinanzi agli stimoli che ci vengono dal mondo esterno.
Poche cose hanno capacità di evocare sensazioni come lo fa l’acqua …. Sarà che ci siamo stati immersi per nove mesi? Sapersi destreggiare con gli effetti dell’acqua è indispensabile per il fotografo.
Prova, la prossima volta che ne hai l’occasione, a “sentire” un suono come un colore, o un colore come un odore. Non pensarlo solamente: analizza te stesso e vedi se provi sensazioni che non hanno apparentemente alcun legame diretto con lo stimolo.
Non basta fare un collegamento di tipo psicologico ed emozionale: ascoltando un brano di black music magari molto triste penserai al colore blu (in effetti il genere è detto “Blues”, che in inglese vuol dire anche malinconico), ma questo collegamento è in genere di tipo culturale. Sarebbe diverso se ascoltando un brano di Bessie Smith tu vedessi colorarsi il mondo circostante di blu o un velo bluastro calasse davanti ai tuoi occhi.
Ci sono stati molti artisti che hanno fatto della sinestesia una sorta di bandiera, un modello da conseguire sulla strada verso l’opera d’arte totale, ricerca tipica dell’arte contemporanea. Era sinestetico il grande Vasilij Kandinskj, che vedeva il colore come “un mezzo per influenzare l’anima in modo diretto”; Isaac Newton era affetto dallo stesso disturbo, e vedeva connessioni matematiche tra suoni e colori, mentre Bach diceva di “vedere” la musica che scriveva.
Per Merleau-Ponty “la percezione sinestesica è la regola e, se non ce ne accorgiamo, è perché il sapere scientifico rimuove l’esperienza, perché abbiamo disimparato a vedere, a udire e, in generale, a sentire, per dedurre dalla nostra organizzazione corporea e dal mondo quale lo concepisce il fisico ciò che dobbiamo vedere udire e sentire. Si vede la rigidità e fragilità del vetro, la morbidezza o secchezza di una fibra, la flessibilità ed elasticità di un ramo appena scosso dal volo di un uccello. La forma degli oggetti non è il loro contorno geometrico, ma ha un certo rapporto con la loro natura propria e, mentre parla alla vista, parla a tutti i nostri sensi”.
Ecco come fotografare in modo efficace, dunque: non riprodurre un oggetto di vetro, ma attraverso un effetto sinestetico farne sentire la fragilità; non mostrare una fibra di qualsiasi tessuto, ma farne percepire la morbidezza; non mostrare un ramo di un albero, ma suggerire il movimento leggero dello stesso dopo che un uccello che vi era appollaiato ha preso il volo.
Fare in modo che una fotografia, “mentre parla alla vista”, possa anche parlare “a tutti i nostri sensi”.
Cogliere il rapporto che lega la natura intrinseca, propria, di un oggetto con il suo aspetto esteriore. Ogni cosa è quello che appare, ma esprime molto di più.
E questo di più è quello che spesso dimentichiamo di afferrare e inserire nelle nostre fotografie.
In questa foto emerge chiaramente la texture, la sensazione quasi tattile del paesaggio.
Dipende da noi riuscirci o meno, dall’ispirazione, dalla nostra capacità di espandere i confini del nostro corpo sino a comprendere la realtà che ci circonda. Prima ancora di premere il pulsante di scatto, dobbiamo essere consapevoli del fatto che in parte creiamo il nostro mondo, almeno lo orientiamo, gli diamo un senso. Questo “orientamento” poi si riflette in noi, regalandoci quelle sensazioni che sarebbe bello riuscire a mettere in una fotografia.
Dare forma alla realtà è qualcosa che molti ritengono di non poter fare, per questo si accontentano di seguire la strada già tracciata da altri: si adeguano a modelli precostituiti.
Quando pensi che per riprendere un paesaggio nebbioso devi “ispirarti” a Luigi Ghirri, quando ritieni che un paesaggio di colline fiorite vada fotografato “alla Franco Fontana”, una situazione di “street” sia meglio riprenderla come avrebbe fatto Cartier-Bresson, ecco, dovresti fermarti a riflettere.
Non puoi formare il tuo mondo a immagine e somiglianza di quello creato da altri, sebbene siano grandi maestri. Devi crearlo partendo dalla tua cultura e dal tuo retaggio sociale. Partire da zero, in effetti è quasi impossibile, ma è possibile eliminare i preconcetti e le “fonti di ispirazione” più usurate e utilizzate.
Nei miei post qui su EffeVentidue ho affrontato spesso questo tema, quello della necessità di fermarsi a riflettere, o meglio a emozionarsi, per offrire una testimonianza efficace (per così dire) della nostra realtà (qualunque essa sia).
Non c’è alcuna necessità che la realtà appaia reale, e questa foto ne è un buon esempio.
Si tratta di una tematica che reputo importante, fondamentale, per ogni fotografo e mi sembra singolare come tanti si dedichino a cercare strumenti e tecniche in grado di restituire foto sempre più precise e di “qualità”, dimenticando al contempo quanto sia utile lavorare su sé stessi e sulla propria capacità di percepire “l’atmosfera” e metterla nelle proprie foto in modo tale che si trasmetta ad altri.
Eppure è su questo che si basa davvero la comunicazione, sulla capacità di trasmettere emozioni, di interagire a livello profondo, e la tecnica è importante, ma nient’affatto fondamentale. Chi non accetterebbe di realizzare una foto poco nitida e magari anche micromossa, se solo avesse la certezza di creare un’immagine indimenticabile?
Oggi troppi trovano nella tecnica scorciatoie per creare atmosfere posticce. Paesaggi con nuvoloni neri e fulmini che crepitano, mari in tempesta e cascate fragorose, e poi persone che entrano in composizioni urbane al limite dell’astratto, ritratti in cui si evidenziano capillari e vene (e difetti vari), foto di periferie degradate e gente che soffre, e così via. Nessuno può rimanere indifferente a situazioni del genere, ma sono meccanismi quasi automatici, sovrasfruttati e man mano che passa il tempo sempre meno efficaci.
L’atmosfera di una fotografia non è qualcosa che puoi aggiungere grazie a un software o a una tecnica, non è nella replica ad infinitum di cliché visti e rivisti (ne parleremo in un prossimo post), ma è qualcosa che riguarda te e solo grazie a te entra (o non entra) nella fotografia.
Non dimenticare mai che sei il dominus della tua fotografia, sei il signore e padrone della tua creatività, sei tu e solo tu che devi decidere il perché e, successivamente, il come.
Perché mai, se possiedi questo immenso spazio di libertà assoluta, vorresti rinunciarvi?