
Tranquilli, non intendo affatto parlare di fotografia ferroviaria, sebbene la trovi un genere affascinante e a suo modo foriero di promettenti sviluppi creativi.
In verità, intendo utilizzare il concetto dei binari in senso metaforico (e la metafora è uno degli strumenti principali della fotografia, no?), nel senso di direzione obbligata, di rispetto delle regole, di imposizione a seguire pedissequamente le indicazioni fornite dai grandi fotografi o da chi per loro.
Questo post poi inaugura anche una modalità diversa di scrivere il mio blog F22, più visuale, più legato all’analisi fotografica in quanto tale che a ragionamenti arditi che poi uno nemmeno se li ricorda più. Lo avevo annunciato con il post precedente e cerco di mantenere la promessa.
Allora parliamo di fotografia e di quanto sia difficile – di fatto – essere davvero originali, innovatori, esploratori di nuove possibilità. Un tema che è tornato spesso in questo blog anche perché immagino che assilli molti di coloro che cercano di costruire un proprio stile o – se vogliamo – mettere a punto una propria visione in campo fotografico. Probabilmente un tempo ci si poneva il problema in modo meno ansiogeno. Le regole c’erano, erano chiare, si dovevano seguire e i risultati, al dunque, finivano per somigliarsi parecchio. Ma parecchio proprio.
Questa foto è del grande fotografo americano Carleton Watkins che negli anni ’60 del XIX secolo fu tra i primissimi a realizzare fotografie del “grande paesaggio americano” e di Yosemite in modo particolare. Ritrae uno dei luoghi simbolo del Parco Nazionale, Cathedral Rock.

Carleton Watkins, Cathedral Rock
Per l’epoca – cioè considerando i limiti tecnologici – si tratta di una fotografia straordinaria. Allora era davvero (ma davvero davvero) difficile arrivare in questo luogo (specialmente arrivarci vivi) figuriamoci lavorare con lastre di vetro e collodio! L’inquadratura è classica ma perfetta: vediamo Cathedral Rock ergersi oltre gli alberi, splendente contro il cielo bianco (la scarsa sensibilità del collodio ai toni del rosso e la scarsa latitudine di esposizione rendevano impossibile riprodurre il cielo insieme al paesaggio). Sembra un immenso altare rupestre, ai cui piedi scorre placido il fiume.
Una decina di anni dopo, più o meno nello stesso punto, arriva Eadward Muybridge, il fotografo anglo-americano famoso per i suoi studi fotografici sul movimento (dell’uomo, dei cavalli e di altri animali). A livello tecnologico, anche allora dieci anni non erano pochi (come oggi col digitale). I materiai sono migliorati, la tecnica pure, la foto è più complessa come costruzione, più “grandangolare” (all’epoca i veri grandangoli non si usavano), specialmente perché Muybridge aggiunge molti elementi nel primo piano. Diciamo che l’ambiente è meglio descritto, ma Cathedral Rock è meno evidente, come soggetto.

Eadward Muybridge, Cathedral Rock
Passano ancora settant’anni e nel 1949 Ansel Adams torna ancora su quelle rive e scatta quest’immagine, che riprende sicuramente di più l’approccio di Watkins che quello di Muybridge. Ora i materiali sono abbastanza moderni, le pellicole sono pancromatiche e registrano anche il cielo, il contrasto è magistralmente gestito sia in ripresa che in fase di stampa, visto che nel frattempo è entrato nell’uso comunque l’ingranditore, che va a sostituire la classica stampa a contatto di un tempo.

Ansel Adams, Cathedral Rock
Grandiosa, perfetta, indubbiamente una foto da ammirare, sebbene Adams sia arrivato sul posto in automobile senza rischiare la pelle (se non per un eventuale incidente stradale!).
I fotografi americani Mark Klett e Byron Wolfe hanno ripercorso le orme (anzi, i binari) di questi e altri grandi fotografi del passato, collocando il treppiedi negli stessi punti e componendo le proprie foto in modo da poterle poi sovrapporre a quelle originali. A loro parere nelle foto di Muybridge si avverte un forte senso di drammaticità, il sublime e l’immobilità nelle foto di Watkins e la grandiosità e il supernaturale nelle foto di Adams. Sarà.
In circa 80 anni di fotografia, comunque, pur nel variare delle tecniche e delle possibilità logistiche, quel che colpisce è che, dato un soggetto, i diversi fotografi lo avvicinano con un sentimento abbastanza affine, nel rispetto di alcune regole non scritte, ma conosciute da tutti, che difficilmente si intendeva infrangere.
Posso fare anche un altro esempio, quello del lago Tenaya, sempre a Yosemite. Ecco come lo fotografa – in 3D diremmo oggi, cioè creando una sterocoppia che, guardata con gli appositi occhialini, restituiva la sensazione della profondità – il grande Watkins.
Al netto del fatto che la già citata scarsa latitudine espositiva delle lastre di allora rende le montagne sullo sfondo molto evanescenti, la composizione è davvero da manuale: il gruppo di alberi sulla destra sembrano candelabri, riflessi nell’acqua, dove vegatano delle erbe che rendono la superficie un forte elemento grafico. Come suggeriva già Leonardo nel suo trattato sulla pittura, per suggerire la distanza e dunque dare profondità all’immagine, niente di meglio che rendere ciò che sta dietro via via più chiaro, e qui infatti il primo piano si stacca potente rispetto al contesto.
Quasi un secolo dopo, Edward Weston fotografa il lago dalla stessa prospettiva (si riconosce la montagna con le tre cime sul fondo) ma gioca il tutto sull’essenzialità, dunque scavalca gli alberi e si colloca direttamente sulle rive lacustri. Niente pini e erbe acquatiche, ma roccia, solo roccia o quasi. Non a caso Weston è, tra i fotografi della “Scuola Californiana”, il più moderno, quello che in qualche modo anticipa gli sviluppi successivi. Comunque sia, la ripresa è assai classica, divisa in due parti quasi uguali, la luce non particolarmente evocativa.
Insomma, il soggetto va interpretato scegliendo punto di ripresa, luce e parametri base, ma resta la logica di un approccio “straight”, in cui ogni cosa è sotto rigido controllo.
Occorrerà attendere il trascorrere di altri vent’anni e la “rivoluzione” avvenuta tra gli anni ’60 e ’70 del XX secolo perché le cose cambiassero davvero, e non solo ne campo della fotografia di paesaggio, con l’arrivo poi dei “New Topographics“, della Scuola di Dusseldorf eccetera, e con la comparsa di fotografi che stravolgono le regole assegnate e propongono progetti che ai contemporanei sembrano spesso incomprensibili, e di cui parleremo in altre occasioni.
Ma davvero questa rivoluzione (dovuta anche all’affermazione delle Avanguardie artistiche nel dopoguerra) ha cambiato del tutto la fotografia?
Potrebbe sembrarlo, considerando che nel frattempo è anche arrivata un’altra grande rivoluzione, quella digitale. Quante rivoluzioni! Sicuramente ora ognuno può trovare la propria strada e smetterla di ispirarsi agli altri fotografi o ai “grandi” del passato…
Ecco, magari qualcosa è andato storto, nel frattempo. Mi diverte sempre molto andare a guardare il profilo Instagram “Insta_repeat“ di cui ho parlato altre volte. Mi sembra la finestra migliore a cui affacciarsi per verificare quel che combinano non i fotografi attempati e serissimi, non quelli impegnati e avant-garde, non quelli che se la tirano “perché solo loro…” o che hanno “aperto nuove strade” (ehm), ma i “fotografi” che utilizzano il mezzo senza tanti patemi o sovrastrutture.
Ecco, loro di copiare non hanno affatto timore. Ed è straordinario che foto fatte in mille posti diversi del mondo, alla fine si somiglino in modo così imbarazzante. Se un tempo si andava (e ancora si va, in effetti) in “certi luoghi” per realizzare “buone foto” (come fanno da quasi due secoli i fotografi di paesaggio diretti a Yosemite), oggi è possibile sfruttare qualsiasi posto per fare le stesse foto che fanno gli altri.
La domanda nasce spontanea (cit.): sarà mai possibile trovare il modo di essere davvero originali? Beh, magari ne riparleremo…