
Questa fotografia di paesaggio – mi dispiace ma non posso definirla altrimenti, dal momento che il paesaggio è (può essere) tutto ciò che hai davanti a te ma anche dentro di te – di una calda mattina d’estate scattata in un barrio di Città del Messico, sembra essere un’ inquadratura ambigua, una fotografia anti-fotogiornalistica, che presenta un tema di ripetizione dei “due”: due finestre, due finestre, due finestre, due auto.
Si tratta di una “struttura”, per utilizzare il vocabolario di Stephen Shore, risolta con una ripresa centrale dell’edificio, in cui le auto parcheggiate svolgono una funzione complementare e decisiva.
“Small Town Mexico” esattamente di fronte a te, in una sorta di riconoscimento del paesaggio americano in cui puoi sentirti immerso proprio grazie alla “trivialità” dei soggetti.
L’immenso Ernest Hemingway spiega facilmente come sia possibile: “Vedi, sto provando in tutte le mie storie di ottenere la sensazione della vita reale – non solo per descrivere la vita – o criticarla – ma per renderla davvero viva. In modo che quando hai letto qualcosa da me, in realtà tu sperimenti la cosa. Non puoi farlo senza metterci dentro il brutto e il cattivo allo stesso modo che ciò che è bello. “
La grande ombra X sull’asfalto apre le porte a una diversa percezione e quindi alla metabolizzazione della fotografia.
Serve a separare la struttura della foto, esattamente come la colonna centrale dell’edificio.
Questa separazione, tuttavia, crea allo stesso tempo una giunzione.
Nella foto possiamo osservare l’essenza del luogo, un’architettura utilitaristica di un barrio Messicano.
La natura è oltre, possiamo vederla in quella piccola porzione di alberi a sinistra e nel cielo, che rappresenta la fuga e quindi la redenzione dalla disposizione claustrofobica dell’asfalto e del cemento.
È piuttosto interessante considerare come fotografare il “paesaggio costruito” oltre a produrre una migliore comprensione dello spazio e dei luoghi del nostro vivere, possa stimolare la percezione del nostro stato mentale, creando un dualismo che è inerente alla natura di ogni fotografia.
Questo aspetto claustrofobico è rilevante per la spiegazione di questa foto, che ho realizzato in un luogo da cui si erano sentiti provenire degli spari la notte precedente.
Ora, vorrei fare qualche considerazione sulla scelta di utilizzare il colore al posto del b/n, fatto che ha cambiato completamente il mio approccio fotografico negli ultimi mesi.
Le mie fotografie a colori hanno una ragione specifica per essere foto a colori: l’osservazione della realtà, per quanto non del tutto fedele – perché questa è la natura della riproduzione del medium fotografico – è fondamentale nel mio nuovo approccio. E quindi, ecco il colore.
Non è perché il colore è bello, o più impegnativo. Non sono interessato a queste motivazioni, che invece spesso si leggono su internet.
Vedo molte foto a colori che non rappresentano affatto la realtà: troppo sature o desaturate, con neri e ombre impossibili, che rendono qualsiasi cosa più falsa di un normale bianco e nero.
Quindi non riesco a cogliere , spesso, quale sia l’obiettivo di molti fotografi contemporanei che usano il colore.
Io voglio semplicemente assecondare la realtà o almeno provarci.
Il colore per me deve essere il più naturale possibile. Perché ho bisogno di avere te, osservatore, dentro la realtà in cui sono immerso, in quello che io vivo, dove puoi arrivare a provare quel che io provo, ma evitando la forma urlante.
Non è facile farlo.
Perché la fotografia è un mezzo espressivo problematico, a causa della sua ontologica dicotomia tra realtà e percezione della realtà – della quale ognuno ha la propria.
Per Cesare Zavattini, una delle figure più illustri del ‘900, la “qualsiasità” è la possibilità di trovare cose interessanti da dire in qualsiasi luogo ci si trovi.
Traslare questo in fotografia significa rendersi conto di come non ci siano scuse e non dobbiamo necessariamente viaggiare per incontrare luoghi e soprattutto stimoli interessanti.
La mia fotografia attualmente si occupa molto di ripetitività.
Per questo, la seconda immagine che ho deciso di proporre in questo articolo è simile ma diversa alla prima.
Le conseguenze del cambio di posizione, anche di pochi centimetri al momento dello scatto, da una foto all’altra, generano una nuova percezione dello stesso luogo.
Questo capacità di cambiare è, secondo me, il cuore pulsante della fotografia.
Fotografando infatti soggetti e cose diverse, è molto facile offrire nuove sensazioni.
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Ma farlo attraverso lo stesso luogo e più o meno lo stesso soggetto è una sfida maggiore, che trovo rigenerante, oltre che fondamentale nell’ottica del lavoro di ricerca che sto realizzando.
Paul Strand, un altro fotografo a cui faccio spesso riferimento, sosteneva che “un fotografo non può prescindere dalle cose che sono davanti alla macchina fotografica”.
Va da se come la fotografia sia sempre e comunque un atto che declama se stesso, ovvero l’azione meccanica di fotografare e dunque, implicitamente, la scelta del fotografo di osservare quel che si trova “davanti a lui”.
Continuando a ragionare sulla mia scelta di ripetizione, vi propongo tre foto realizzate nello stesso luogo pochi giorni fa.
L’atto di fotografare lo stesso posto è un modo per riconsiderare dove sono rispetto alla realtà.
Modificando leggermente il punto di vista, posso ottenere una fotografia completamente diversa.
In 3 giorni sono tornato nello stesso posto e l’ho fotografato in ore differenti del giorno, ottenendo ogni volta un’immagine diversa.
Consideriamolo un esercizio mentale.
Se nel primo scatto l’attenzione è rivolta all’edificio e alla luce interessante che ho catturato, nella seconda il punto di vista leggermente diverso e la presenza di automobili creano un’immagine completamente diversa.
Con un’altra “struttura risolutiva” abbiamo cioè una totale nuova esperienza visiva.
Per esempio, nella terza fotografia quell’auto che avevamo parcheggiata sulla destra nella seconda immagine adesso si trova sulla sinistra, mentre in lontananza osserviamo una persona.
Stesso luogo, ma esperienza sottilmente e totalmente diversa, che determina a sua volta una diversa fruizione cognitiva, con contenuto e forma anche essi diversi …
Permettetemi di chiudere questo articolo con una considerazione: quante volte si parla di fotografia di strada che però neppure sembra fatta per strada!
Questo capita perché non c’è vero interesse verso la strada, le sue attività e le sue evoluzioni.
L’interesse genuino per le cose della strada, delle vie, dei palazzi, della condizione umana, non può prescindere, a mio modo di vedere, da una visione che sia realmente orientata a quello che vediamo di fronte a noi; e non, dunque, a quello che un pò egoisticamente vogliamo rendere palese di aver colto.
Tanto più che, in ogni modo, la via introspettiva è implicita: l’autore-fotografo è comunque il regista e indirizza le percezioni.
Partendo da questo, con in testa un approccio orientato all’oggettività e ad una fotografia democratica, possiamo mostrare maggiormente come è fatto il mondo, cogliendone sfumature che magari altri non hanno abilità di registrare in una pellicola o in una scheda di memoria.
Alex Coghe