DI FINESTRE E SPECCHI (IN FOTOGRAFIA)

La cosa davvero importante è fermare il momento, registrare qualcosa in modo così completo che coloro che lo vedranno riusciranno a vivere un Equivalente di quanto viene espresso” (Alfred Stieglitz)

Mi sono sempre chiesto cosa rendesse una fotografia davvero degna di essere guardata, possibilmente a lungo: direi anzi addirittura studiata, analizzata, vivisezionata. Ancor di più, cosa renda un progetto fotografico, magari raccolto in un libro, superiore ai mille altri che possiamo trovare in circolazione? Cosa quella o quelle foto ci trasmettono, a differenza delle altre?

Se ci pensi, questo è un po’ il cuore stesso dell’attività fotografica. Tu, ad esempio, vorresti forse che le persone guardino le tue foto di sfuggita sbiascicando un “bella” per poi passare oltre? Certo che no!

Vorresti che le tue amatissime e preziose fotografie costringano la gente ad ammirarle, a scrutarle con attenzione per cercare di carpirne ogni segreto, ogni messaggio, più o meno subliminale. Io, almeno, l’ho sempre desiderato.

Tuttavia, purtroppo, questo è uno dei segreti meglio custoditi della fotografia, anche il più studiato a dire il vero, ma sempre con scarsi risultati. Perciò dimentica che io possa in questo breve post rivelarti l’arcano, però vorrei condividere con te alcune riflessioni che spero siano utili, utilizzando due dei miei “supereroi” preferiti, Alfred Stieglitz (il padre della fotografia moderna) e Minor White, il “meno noto dei maggiori fotografi della storia”.

Nella citazione di Stieglitz che ho messo all’inizio si introducono gli “Equivalenti” (Equivalents), uno dei primi – e più convincenti – tentativi di trovare il “vello d’oro”, cioè una spiegazione del perché alcune foto ci restano appiccicate addosso e altre invece volino via come farfalle (belle, ma appunto non restano).

La prima volta che Stieglitz concepisce il concetto è negli anni ’20, quando inizia a fotografare le nuvole, che per lui rappresentavano un modo per rendere – fotograficamente – la musica. Non a caso la prima serie che realizza si intitola “Music: A sequence of Ten Cloud Photographs” (1922), mentre un progetto successivo si intitolerà “Songs of the sky”. Solo dal 1925 inizierà a intitolare le foto di nuvole come “Equivalents”.

Ora, è probabile che proprio lo sforzo di rendere come “musica” delle immagini fisse e ovviamente prive di sonoro debba aver fatto scattare nella testa del grande fotografo il concetto di equivalenza: insomma, io non posso fotografare il suono, ma posso fotografare qualcosa che lo evochi o che almeno spinga lo spettatore a provare un qualcosa il più affine possibile.

Parliamo di metafore, ad esempio, ma non solo: lo scopo di Stieglitz è di andare oltre. Infatti, se io fotografo uno spartito musicale, ecco che il concetto di “musica” giocoforza nascerà nella testa dello spettatore, ma qui siamo davvero a un livello sin troppo basico.

Lo scopo, invece, è far “sentire” la musica a chi guarda la fotografia, e questa è ben altra faccenda: per Stieglitz un Equivalente provoca nello spettatore un’esperienza personale estremamente profonda, allo scopo non già di comunicare qualcosa (ad esempio un’informazione) ma di provocare una reazione di tipo interiore.

Potremmo osservare che non è detto che la reazione dello spettatore sia esattamente quella che io cerco: insomma, guardo le foto delle nuvole di Stieglitz e magari provo una sensazione di libertà, anche di fresco, di grandiosità, ma potrei non sentire affatto la musica, o qualcosa che ricordi una melodia, se non quella del vento che soffia.

Questa, ammettiamolo, è una bella difficoltà (irrisolta) che si può solo correggere (in parte) affibbiando appunto un titolo, o allegando un testo, che orienti la lettura che lo spettatore farà delle foto. Se il titolo è “Songs of the sky” potrei percepire un suono, ma se il titolo fosse “Clouds are beautiful” magari no.

E chi più di Minor White poteva essere consapevole del problema? Dopo diversi incontri con Stieglitz, White si entusiasma all’idea degli Equivalenti, che rispondevano alla sua esigenza di definire un modo per trasmettere – grazie alla fotografia – non solo sensazioni ed emozioni, ma anche cose più profonde.

Perciò scrisse un saggio proprio sull’argomento, identificando tre livelli di “Equivalenza”, che non sono tra loro gerarchizzati. Sono, semplicemente tre approcci diversi, che possono ancora oggi fornirci diversi spunti di riflessione.

Il primo livello White lo definisce “Livello Grafico” che riguarda la fotografia in quanto tale, come appare quando la guardiamo. Ovviamente può far nascere in noi delle sensazioni ma in ogni caso si resta ancorati a ciò che nella foto è rappresentato.

Il secondo livello riguarda invece l’esperienza interiore dello spettatore: come scriove White “si collega a ciò che avviene nella mente dello spettatore quando guarda la fotografia”. In pratica il soggetto non ha più così importanza, almeno a livello sensoriale. Certamente siamo consapevoli di “vedere qualcosa” – anche se non lo riconosciamo, a volte – ma il dato fondamentale è che, quasi come nelle macchie di Rorschach utilizzate dagli psicologi, quella foto scatena in noi una serie di reazioni che sono assolutamente personali. Se il soggetto è visibile, nella foto però c’è un elemento invisibile, che non si vede eppure agisce. E questo avviene in maniera ancora più forte quando le foto sono tra loro accostate in una serie.

Il terzo livello è quello che riguarda “l’immagine ricordata”, cioè quello che lo spettatore sente emergere dentro di sé nel rivedere mentalmente l’immagine quando questa non sarà più davanti ai suoi occhi. Solo poche foto o serie di foto sanno essere talmente coinvolgenti e “scatenanti” da rimanere impresse nella mente (e nell’anima) dello spettatore, il quale riandrà mentalmente a rivederle e facendo questo inevitabilmente le trasformerà, facendole proprie.

E’ evidente che nel secondo e terzo livello quel che davvero conta è ciò che lo spettatore prova, quel che accade dentro di lui, dunque è qualcosa di meramente soggettivo, sebbene il fotografo possa cercare di “indurre” determinate reazioni creando fotografie che funzionino come “triggers”, come inneschi di reazioni profonde, non superficiali, come quelle del primo livello.

Per White occorre che scatti uno speciale senso di “corrispondenza” con la foto, in modo tale che lo spettatore si identifichi con la foto stessa, ci metta del suo. Quando questo avviene, la fotografia funziona come “Mirror”, come specchio. Insomma, “l’esperienza è interamente all’interno dell’individuo. E’ un’esperienza personale, privata, ineffabile e non trasmissibile” .

E’ un concetto che a me piace molto: pensare a una foto come a un oggetto in grado di riflettere l’immagine stessa di chi la guarda, nel senso che lo spettatore davvero ci si riconosca, si senta parte di quel che sta guardando, è molto affascinante. Ecco allora che facilmente scatterà il terzo livello, perché quella foto verrà ricordata, in quanto collegata a un’emozione personale: non è un fatto di pura memoria visiva, è qualcosa di davvero più profondo.

S’intende che visto che ognuno di noi è diverso, fotografie che possono “riflettere me stesso” magari risultano del tutto indifferenti ad altri, e questo spiega perché spesso, tra noi fotografi, si litiga su immagini che alcuni trovano “fantastiche”, “epiche”, “indimenticabili” e altri trovano invece “deprimenti”, “vuote” e “insignificanti”. Ti sarà capitato, no?

E ogni volta cerchiamo di convincere il nostro interlocutore della bontà di quelle foto portando a sostegno la biografia dell’autore, la sua importanza storica e mille altre menate più o meno di critica fotografica. Inutilmente.

A me, ad esempio, è capitato spesso con Luigi Ghirri, che io adoro, altri fanno finta di apprezzare, altri detestano senza mezze misure. Eppure le sue foto mi provocano emozioni forti, ma capisco perché ad altri appaiano invece scialbe e vuote. In effetti, oggettivamente, lo sono: i colori sono delicati e poco vivaci, i soggetti minimali e poco appariscenti. Ma non si tratta, è ovvio, di incapacità del fotografo, ma di scelte creative e come tali funzionano per molti ma non per tutti.

Parrebbe, però, da tutto questo, che il soggetto della fotografia sia alla fine poco importante. Se al primo livello di equivalenza il soggetto è tutto o quasi, e pensa a tutte le tonnellate di foto spettacolari e coloratissime che vedi in giro, specie online, negli altri due livelli quel che serve è stabilire una connessione profonda tra spettatore e fotografia.

Il che porta spesso a fotografie (mi viene in mente Eggleston, ma vale per molti altri) talmente antispettacolari e quotidiane che viene da chiedersi: e allora il ruolo “autoriale” del fotografo? Si limita a trovare un elemento in grado di scatenare una qualsiasi reazione interiore allo spettatore?

In verità, il fotografo può – direi deve – fare molto per acquisire la capacità di guidare le reazioni emotive degli spettatori, di quelli almeno che apprezzano e apprezzeranno la sua opera. E questo può avvenire con più facilità non solo con certi soggetti, ma con fotografie efficaci e ben fatte. Non è facile, spesso anzi è faticoso, per questo, scrive White, occorre tener conto del fatto che “un certo grado di riflessività (mirroring) avviene con qualsiasi fotografia, ma questa è particolarmente intensa con fotografie che sono rese in modo stilizzato e non letterale. Inoltre è piuttosto forte nelle fotografie in cui la presenza di un’ideaè uguale o supera la presenza del semplice soggetto davanti alla fotocamera”.

A livello pratico, White ha declinato queste sue considerazioni teoriche attraverso fotografie (e serie fotografiche soprattutto) che potremmo definire “astratte” (anche se non lo sono), in genere dettagli di elementi che cambiano spesso forma. Un esempio è questa fotografia del 1962, intitolata “Beginnings” (notare il titolo che evoca ma non informa, non ci dice cosa stiamo guardando), che rappresenta appieno il concetto espresso dall’autore: “con materiali in costante mutamento come acqua, o nubi, o ghiaccio, o luce, o cellophane e simili materiali, l’infinità di forme e contorni, riflessi e colori suggerisce ogni variante di emozioni e incontri tattili e speculazioni intellettuali che sono supportate e ispirate dai materiali stessi ma che mantengono un’identità distinta dalla quale il fotografo può scegliere quello che desidera esprimere”.

Sebbene tutto questo ragionamento sia tortuoso e a tratti fumoso, io lo trovo estremamente utile, soprattutto se viene liberato dalle mille sovrastrutture che prima Stieglitz e poi White vi hanno costruito sopra. Possiamo dire, per semplificare, che il concetto base è quello di distinguere la fotografie “Finestra” dalle fotografie “Specchio” (lo stesso ragionamento vale anche per progetti con più foto).

Nelle fotografie del primo tipo noi non guardiamo tanto alla foto, quanto al soggetto, proprio come faremmo guardando un paesaggio attraverso una finestra. Non vediamo il vetro e la cornice, vediamo quel che c’è dietro. Questo capita spessissimo: magari possiamo anche apprezzare il buon livello tecnico della foto, il fatto che è a fuoco, ben composta, ben esposta, eccetera, ma di fatto quel che davvero ci interessa è quel che la foto rappresenta, ci mostra. Siamo insomma al primo livello.

Ma se la foto, grazie alla capacità del fotografo di mostrarci qualcosa di significativo – e spesso son soggetti davvero poco appariscenti – riesce a incatenarci, a provocare in noi una risposta emotiva tale che la ricorderemo anche a distanza di tempo, ecco che quella non è una finestra, ma uno specchio. Una fotografia davvero preziosa.

Ed è bello pensare che finestre e specchi poi di fatto non sono così concettualmente diversi, sono anche fatti dello stesso materiale, il vetro. Esattamente come ogni foto è realizzata poi – più o meno – sulla base delle stesse tecniche, eppure gli esiti possono essere molto, molto diversi. Lo stesso Minor White ha fotografato proprio una finestra (“Windowsill Daydreaming”, 1958, foto sopra) ma senza “guardare fuori” bensì concentrando l’attenzione sul singolare riflesso che la luce del sole provocava sul muro e in cui sono contenuti dei geroglifici misteriosi. Una foto specchio di una finestra!

Ti consiglio di pensare a questa distinzione ogni volta che sei in giro a fotografare: vuoi solo mostrare la bellezza di quel che hai davanti nel miglior modo possibile, cosa assolutamente legittima, o vorresti tanto che chi guarderà le tue foto venga coinvolto nelle stesse emozioni che stai provando tu nel momento dello scatto? E’ una scelta, ma ricca di conseguenze.

In entrambe i casi possiamo ottenere foto che funzionano (come lo stesso White sosteneva) ma solo immaginando quello specchio potremo (forse) riuscire a ottenere qualcosa di indimenticabile. E per assurdo mentre spesso la foto finestra è difficile e tecnicamente complessa, quella specchio è semplice e immediata. Come le emozioni vere, in fondo.

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