La realtà e la finzione in fotografia

Pino Bertelli sacrifica la povera Diane Arbus pubblicando altre sue dodici istantanee del fanciullo prese nello stesso punto e momento che documentano la sua normalità: è come tanti bambini, gioca, sorride, ha una famiglia qualunque. Perché dell’immagine schizofrenica è stata regista la Arbus e il bambino recita una smorfia feroce che lei gli ha fatto vedere come si fa e ho ragione di pensare che la bomba a mano appartenesse alla fotografa” (Ando Gilardi)

Tutti ricordano bene l’iconica fotografia di Robert Capa con il miliziano ripreso nell’esatto momento in cui veniva colpito a morte da un proiettile. Più che la foto in sé, quel che ha provocato lo scorrere di (inutili) fiumi d’inchiostro è stata la realtà o meno dello scatto.

Colpo di fortuna di un fotografo avvezzo a stare in prima linea durante una battaglia, oppure abile messa in scena? La cosa bella è che – davvero – la foto non cambierebbe di una virgola, resterebbe tale e quale. A cambiare, magari, è solo il nostro modo di percepirla, di viverla, di “sentirla”.

 

Mi è capitato così tante volte di provare sensazioni simili da non saperle più nemmeno enumerare. Guardi una foto e ti sembra straordinaria, unica, assolutamente ecce-zio-nale. Che tempismo, che occhio! Poi ti arriva un testimone che-sa-tutto perché lui era lì (o anche direttamente l’autore in vena di confessioni) e ti rivela che la foto è stata realizzata con due modelli pagati per far finta di essere spontanei. Il bacio di Doisneau ne è un esempio efficace e molto noto.

Ma se quella foto non cambia davvero – cosa ovviamente impossibile – perché mai non riesco più a vederla allo stesso modo? Il bacio sotto i portici di Venezia realizzato da Berengo Gardin in che modo è poi diverso dal bacio ritratto da Doisneau?

Entrambe sono foto cariche di significato, atmosfera, romanticismo; foto “buone” ma anche belle, diciamocelo. E se debbo confessarlo, quella di Doisneau – così “sporca” con i pedoni che passano – mi sembra più “autentica” di quella di Berengo Gardin, che pure giura di non aver messo in posa nessuno. E non ne dubito.

Eppure l’aver scoperto che quegli amanti tra la folla di Parigi che si tengono stretti e avvicinano le labbra in preda alla passione è solo un’illusione, sfociata anche in una causa legale… non so, cambia tutto. Scommetto che anche a te sarà capitato di provare sensazioni simili.

Il mondo della fotografia è pieno di falsi e falsari. Dico di più: i falsi superano di gran lunga le foto autentiche. E se l’autore non apre bocca e si libera la coscienza, non potremo mai conoscere la realtà.

Farò inorridire qualcuno, lo so, ma da sospettoso come sono ho sempre pensato che, in fondo in fondo, anche Cartier Bresson potrebbe aver suggerito a qualche suo soggetto di “spostarsi un po’”, o alla ragazzina di Sifnos di correre su per la scalinata arrivando proprio lì dove il “focus” della foto richiedeva. Magari non è così, magari proprio no, ma ecco… il sospetto viene.

A pensar male si fa peccato, ma è qualcosa di irresistibile, perchè più ci penso e più mi rendo conto che è dannatamente difficile poter davvero distinguere tra una fotografia “staged“, come si dice, cioé composta ad arte, e una del tutto spontanea, che ha richiesto lunghe e pazienti attese. E se alla fine lo spettatore non sa distinguerle, chi me lo fa fare di star lì a perder tempo? Potrebbe chiedersi il bravo fotografo. Meglio controllare la situazione e sbrigare la faccenda in tempo per la cena, o no?

Si dirà: eh, ma l’etica del fotografo e ancor più del fotogiornalista? Bah, l’etica è una fregatura. La foto di Capa che citavo prima ha funzionato alla grande come “manifesto” contro la guerra, è una foto potente ed efficace, che vuoi che importi l’etica? Ma qualcosa ci rode dentro lo stesso.

E allora mi tornano in mente tutti i saggi letti – e che sto leggendo – in cui giustamente critici e studiosi sottolineano quanto la funzione testimoniale della fotografia sia in verità faccenda quantomeno discutibile, al più legata a epoche passate quando si pensava che una fotografia “non potesse mentire”.

Ma da tempo sappiamo che non è affatto così, anzi. E non è colpa del digitale, sia chiaro, che al più ha rafforzato questo aspetto, ma non l’ha certo inventato.

Il problema, se vogliamo, è che potenzialmente una foto riprende la realtà che ha davanti, ma quale dettaglio di una realtà amplissima scegliere e da che punto di vista farlo è scelta dell’operatore che utilizza la fotocamera e questo cambia tutto. Perché la fotocamera non è affatto autonoma, e non può nemmeno essere oggettiva, ma reagisce a scelte consapevoli e ragionate del fotografo, dunque finisce per essere molto soggettiva.

Oramai questo è un dato acquisito ed è curioso notare come, se un tempo appunto si utilizzava la fotografia per avere una prova certa di qualcosa, oggi quando si osserva qualcosa di fotografato, si dubita subito della sua realtà.

Un drammatico fatto di cronaca come la famosa fotografia del “ragazzo con l’estintore“, Carlo Giuliani durante i fatti di Genova del luglio 2001, lo dimostra chiaramente. In verità le foto sono più di una, ma invece di chiarire la dinamica dei fatti e semplificare l’iter processuale che ne è seguito, l’hanno complicato e di parecchio.

O pensiamo, più recentemente, agli “assembramenti” in epoca Covid sui Navigli a Milano o a Via del Corso a Roma: le foto realizzate con potenti teleobiettivi mostravano le persone accalcate in modo irreale, per l’effetto di “schiacciamento” dei piani che queste ottiche hanno. Gli assembramenti erano davvero così “stretti” oppure no?

La fotografia mente sempre e ricordo un mio post in cui sottolineavo la differenza tra le piccole e le grandi bugie. Le piccole bugie sembrano innocenti, quasi gentili, ma ingannano di più, perché si tende a credergli, laddove le grandi bugie, esagerate ed evidenti, sono assai più innocue, perché giocano quasi allo scoperto. Insomma, si sgamano.

Ecco, buona parte della storia della fotografia è fatta di piccole bugie, solo apparentemente innocue. Piccoli spostamenti richiesti a un soggetto casuale, “crop” di foto più ampie, modelli che fanno finta di star lì per caso, insomma le mille tecniche che, come nel caso della Arbus citato da Ando Gilardi, portano a realizzare foto iconiche che appaiono frutto della tempestività del fotografo e che invece sono studiate sin nei minimi dettagli. C’è qualcosa di male?

Io credo di no, ma so anche che da quando mi son reso conto di tutto questo, non ho saputo più guardare a una foto con lo stesso sguardo “innocente”. E a volte un po’ mi dispiace…

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