Focalismo Fotografico

Diciamocelo francamente, noi fotografi siamo spesso oppressi da una problematica comportamentale che viene definita dagli esperti “focalismo” o, in inglese, “anchoring bias“, letteralmente pregiudizio dell’ancoraggio.

Una barca legata all’ancora (o a una bitta di ormeggio) magari si muove un po’, ma resta vincolata in un’area ristretta, non può certo salpare e andarsene a zonzo. Ecco, chi è “focalizzato” fa la stessa cosa: si attacca a un “pezzetto di informazione” e non schioda da lì. E generalmente questa informazione è la prima a cui ha avuto accesso.

Ora, lo sappiamo che al giorno d’oggi questo problema è quasi endemico: le persone si fissano su un dato o un’informazione che hanno sentito da qualche parte e non c’è verso di far cambiare loro opinione, nemmeno fornendo grandi quantità di dati che smentiscono quella prima impressione. E per di più su tali basi ristrette e spesso errate basano anche decisioni importanti, come quelle sulla salute.

In ambito di Marketing si utilizza tale meccanismo ogni qualvolta si mette in vendita una merce a un prezzo elevato, per poi fare un’offerta “imperdibile” a un prezzo molto più basso. Le persone si convincono immediatamente che il vero valore di quella merce sia il primo a esser stato diffuso e percepiscono lo sconto come reale, anche se magari non è affatto così. E’ il motivo per cui scendere di prezzo è sempre preferibile, mentre salire è complicato e porta facilmente a insuccessi.

In campo fotografico gli effetti del focalismo hanno la loro rilevanza. Ho conosciuto moltissimi fotografi che, avendo acquisito una certa serie di informazioni – sia tecniche che creative – nella fase iniziale del loro percorso espressivo, non intendono mai e poi mai andare oltre. Dato che – come capita a tutti, in fondo – all’inizio del loro percorso creativo gli è stato detto che una “buona foto” è quella che rispetta certe regole, si sono creati un insieme di convinzioni inattaccabili, che non intendono mettere in discussione, anche se tutt’intorno a loro la realtà (fotografica, ma non solo) è completamente cambiata. Anche se – grazie agli smartphone – quelle foto “corrette” le fanno tutti senza sforzo, grazie all’Intelligenza Artificiale o agli automatismi elettronici.

Ovviamente il focalismo è anche autorafforzante. Per dimostrare che si ha ragione nel restare ancorati a un modo tradizionale o classico di concepire – nel caso che ci interessa – la fotografia, si citano scritti, ricerche, articoli, libri però tutti provenienti da chi la pensa allo stesso modo. Spesso anche forzando e distorcendo le convinzioni altrui, o pescando tra gli scritti di fotografi del passato: è piuttosto ovvio che Ansel Adams difendesse il suo modo di fotografare, il suo approccio all’arte della fotografia, ma parliamo di almeno cinquant’anni fa. E sono certo che Adams, da persona curiosa e intellettualmente aperta qual era, oggi avrebbe scritto cose assai diverse.

Ma questo non serve a convincere i focalisti, che citeranno le frasi di Ansel Adams sbattendotele in faccia chiosando: “vedi? Se lo dice lui!”.

Gli psicologi lo difiniscono “preconcetto della fonte comune” e sappiamo bene quanto sia potente oggi, grazie ai Social. Ci si costruisce una “safety room” virtuale e ci si rinchiude dentro, tra persone che continuano a sostenere le stesse idee e opinioni che noi condividiamo. Così pare che il mondo intero – e non una microscopica nicchia – la pensi come noi, e ci sentiamo meglio. Ma è un’illusione.

Se la realtà fosse davvero come quella in cui navigo quando sono su Instagram, ad esempio, allora significherebbe che la stragrande maggioranza dei fotografi si dedica a realizzare foto in bianco e nero di paesaggio e natura. Ahimé, so bene che non è affatto così!

Ma i fotografi “focalisti” soffrono anche della tendenza a non rivedere (o a non analizzare abbastanza) le proprie convinzioni sulla base dei nuovi elementi di cui si è venuti a conoscenza (conservatism bias, per gli studiosi). Per anni, durante il passaggio dall’analogico al digitale, i fotografi della vecchia guardia continuavano a ripetere che la “vera fotografia” (per dirla con Berengo Gardin, che da questo punto di vista di focalismo s’intende) era solo quella a pellicola, perché il digitale non era “buono abbastanza” ed era troppo “facile”. Nonostante le evidenze dicessero il contrario, restavano ancorati alla loro bitta ideologica e c’è chi lo fa ancora. Come c’è ancora chi pensa che fotografare con uno smartphone “non sia serio” e che le foto fatte con un “telefono” non possono reggere il confronto con le foto “vere”. E questo nonostante spesso siano invece anche migliori.

Tra i “bias” legati al focalismo che trovo interessanti da declinare in campo fotografico, ce ne sono due davvero notevoli e tra loro collegati. Si tratta della “fissità funzionale” e della “legge dello strumento“.

La prima è la tendenza delle persone “a utilizzare un oggetto nel solo modo in cui viene utilizzato tradizionalmente“. E la fotocamera è esattamente uno di questi oggetti. Puoi utilizzarla in mille modi diversi (dal mosso allo sfocato, dalle esposizioni multiple al low/high key, eccetera) ma si ritiene che solo la foto ben esposta, a fuoco, nitida sia una foto davvero corretta e dunque efficace.

Non solo, chi ha un pregiudizio di questo tipo ritiene che solo una fotografia fatta con una fotocamera sia fotografia: utilizzare gli strumenti fotografici come pellicole, carte sensibili o anche sensori (ad esempio quelli di uno scanner) in modi inusuali (ad esempio con le tecniche dette “Off Camera“) per creare immagini insolite “non è fotografia”. Certo – aggiungono – magari è anche qualcosa di valido, ma è altro, non è fotografia – ribadiscono – e questo nonostante già alla metà del XIX secolo, a fotografia appena inventata, fossero tecniche ampiamente utilizzate.

Quest’ultima tendenza si chiama appunto “legge dello strumento” che è il fenomeno per cui ci si affida in modo eccessivo “a strumenti familiari o metodi noti, ignorando o sottovalutando gli approcci alternativi“. Insomma “se tutto quel che hai è un martello, ogni cosa ti sembrerà un chiodo“.

Mi sono divertito, come avrai capito, a tradurre in campo fotografico una serie di contenuti creati dagli psicologi (e dai sociologi) per analizzare le modalità con cui le persone si comportano nella vita reale. Bisogna dire che ciascuno di noi ha una certa tendenza a conservare lo status quo, e dunque il focalismo – in gradi diversi – è molto diffuso. Trovo però irragionevole – in tal senso anche un po’ “malato” – il restare avvinghiati a ciò che già conosciamo, mentre in campo artistico il cercare strade nuove, o nuove modalità di utilizzare ciò che già conosciamo, è di fondamentale importanza.

Direi che è proprio il cuore di ogni attività artistica.

Anche coloro che oggi ci appaiono come classici – sia nelle tradizionali arti figurative che nella fotografia – ai loro tempi sono stati invece grandi innovatori, spesso rifiutati dai focalisti organizzati nelle Accademie. Pensa agli Impressionisti, ad esempio; o pensa a Stieglitz o al Gruppo f/64, impegnati a superare le regole imperanti del Pittorialismo. O pensa a Giacomelli con i suoi contrasti esasperati e la nitidezza ridotta. Di esempi ce ne sono moltissimi.

Se ognuno fosse rimasto bloccato a girare attorno alla propria ancora ben piantata sul fondale, non avremmo avuto l’arte contemporanea, la fotografia innovativa, le mille espressioni dell’animo umano. Possono anche essere declinazioni che non ci piacciono in modo particolare, ma di sicuro sono tutte possibilità di aprire la mente, lo sguardo, i sentimenti. Ognuno deve trovare la propria strada, che può anche essere quella classica e tradizionale. La ricerca ossessiva del “nuovo” a tutti i costi è anch’essa un errore, un preconcetto, un “bias”.

Il punto che ho cercato di sottolineare con questo post, infatti, è l’atteggiamento che dovremmo sempre avere, in campo fotografico come – mi permetto di aggiungere – nella vita. Dunque difendere le proprie scelte e convinzioni, ma essere sempre pronti a cambiarle quando subentrano delle novità, quando cambia la prospettiva, quando abbiamo nuove necessità espressive. Soprattutto occorre non smettere mai di essere curiosi, ma accettare sempre le sfide.

Aprire la mente, slegarla dall’ancora che la tiene soggiogata, è un gesto coraggioso, sempre foriero di sviluppi interessanti.

Nessuno scopre nuove terre restando alla rada in un porto sicuro.

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