Fotografare con l’emisfero destro

L’Arte non è quel che vedi, ma quello che fai vedere agli altri” (Edgar Degas)

Non appena un fotografo inizia un po’ a “scafarsi” e a diventare più o meno esperto, ecco che finisce giocoforza per imbattersi nel tema della “indicalità della fotografia”, che tanti fiumi d’inchiostro ha fatto scorrere, più che altro tra i semiologi, specie se seguaci di Charles Sanders Peirce.

Ora, più o meno tutti sanno che grossomodo tale “indicalità” significa – dal punto di vista pratico – che per fare una foto serve un soggetto, e su questo c’è poco da dire.

 

Però nel 1977 Rosalind Krauss – nota critica e studiosa americana – pubblica sulla rivista “October” un saggio intitolato “Note sull’indice” e da allora questa cosa dell’indicalità non ha più mollato noi fotografi.

Secondo la Krauss le opere artistiche contemporanee (e dunque non solo le fotografie) sono basate non più sulla tradizionale rappresentazione iconico-simbolica bensì su una nuova concezione dell’arte quale “registrazione di una pura presenza fisica” secondo una logica – attento qui! – che comporta una relazione esistenziale tra l’opera e il processo o l’ambiente da cui essa nasce.

O, aggiungerei, tra il soggetto e lo strumento con cui lo si isola dal contesto, dunque nel nostro caso la fotocamera. E qui la Krauss tira fuori un altro nome che noi fotografi abbiamo imparato a odiare (quasi quanto il pubblico delle sue mostre) e cioè Marcel Duchamp, il precursore di questa faccenda dell’indice nel mondo dell’arte.

Marcel duchamp

Marcel Duchamp

Ora, è probabile che per te l’indice sia quella cosa che serve appunto a indicare a qualcuno una direzione, ma ti assicuro che è davvero importante. Deve esserlo se molti ne parlano, senza arrivare a una conclusione, o no?

Sebbene chi ci ha riflettuto su – io l’ho fatto – abbia soprattutto raggiunto la ferma convinzione che alla fine una teoria del genere porta alla riduzione dell’arte (e della fotografia prima di tutto) a una mera operazione di scelta e inquadratura del soggetto.

D’altra parte era o non era il conosciutissimo Roland Barthes a dire che la fotografia è un “messaggio senza codice”, insomma che chiunque può capire cosa una foto contenga visto che una cosa fotografata è proprio quella cosa lì, non devi mica interpretare – che so – i segni di una qualche scrittura?

Più recentemente Umberto Eco, nel 1999, scriveva che “si ha indicalità primaria quando, nella materia spessa delle sensazioni che ci bombardano, di colpo selezioniamo qualcosa che ritagliamo su quello sfondo generale, decidendo che vogliamo parlarne”. Perciò appare chiaro che è il soggetto a comandare e al fotografo resta un ruolo ancillare, di rivelatore del soggetto.

Certo, ci mette creatività e fantasia per esaltare il soggetto, ci mancherebbe, però il soggetto è quello che davvero conta. Come scriveva Susan Sontag “pur non essendo in sé una forma d’arte [la fotografia] ha la singolare capacità di trasformare in opere d’arte tutti i suoi oggetti. Non è tanto importante il problema se sia o no un’arte, quanto il fatto che annuncia (e crea) nuove ambizioni per le arti”.

Susan Sontag

Quando leggo queste affermazioni non so mai se essere contento o arrabbiarmi. Nel dubbio, in genere mi arrabbio. Perché poi ci sono torme di fotografi (o presunti tali) che – consci o no di tale fenomeno semiologico da maniaci – si prodigano a dimostrare che il soggetto non conta niente, che anzi me lo posso inventare, lo posso sovvertire, cambiare, aggiuntare, tagliare, deformare. Ci faccio quel che mi pare, io! Qualsiasi cosa può diventare arte grazie alla fotografia e grazie al fotografo, s’intende. E comunque se l’oggetto in questione è riottoso alle sue lusinghe, beh, c’è sempre Photoshop.

In effetti, lo riconosco, la stragrande maggioranza dei fotografi si disinteressa del tutto a tali questioni, ignora cosa sia la semiotica e chi sia la Krauss, il cui nome avrà letto distrattamente in qualche citazione collocata qua e là nei testi che parlano di fotografia.

Se c’è una certezza in questo nostro mondo è che tutti, prima o poi, citeranno la Krauss, o Barthes o Susan Sontag per apparire colti! Meglio scrivendo la frase all’ingresso di una propria mostra, magari di nudi femminili più o meno provocanti, tanto per dimostrare di non aver di sicuro letto i libri da cui le citazioni stesse sono tratte. Ma tant’è.

Credo però che partire dal riconoscere la nostra innegabile dipendenza dal soggetto, sia utilissimo per fare un percorso davvero creativo, ma soprattutto consapevole. Perché quel che sembra un limite è invero una gran bel vantaggio, perché ci consente di guardare al mondo in modo diverso, sapendolo vedere innanzitutto, e poi riconoscendolo.

Noi fotografi, al mondo, gli diamo del tu.

Sappiamo dedicare ore all’esplorazione di un muro scrostato in una periferia di qualche città, o trascorrere giorni interi a guardare le nuvole passare e mutare forma. Nemmeno i poeti – quelli che usano le parole – arrivano a tanto. Ma noi fotografi si. Anche perché conosciamo bene il potere delle forme, dei contrasti, delle luci e delle ombre, delle cose appunto.

Sappiamo che un albero non è mai solo un albero, come una strada non è mai solo una strada. E possiamo raccontarlo agli altri, grazie a una fotografia. Nessuno può farlo come lo facciamo noi. Un dipinto non verrà mai “creduto” come viene creduta una fotografia: è questo il potere della sua natura indicale, è questa la sua magia.

Noi fotografiamo con l’emisfero destro del nostro cervello, quello deputato alla creatività, perché se dipendiamo dal soggetto per realizzare una fotografia, sappiamo pure che riprendere il soggetto così come appare superficialmente significa solo riprodurlo, non fotografarlo.

Nella vera fotografia il fotografo aggiunge una spezia rara e unica al processo: la propria personalità, il proprio sguardo, le proprie emozioni. Tutto materiale che i semiologi si divertiranno molto a studiare, e va bene così. Perché che sia indice o meno, per noi trovare un soggetto adatto ed evidenziarlo con una foto che funziona non è niente di meno di un miracolo.

Trovare qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno avrebbe potuto immaginare prima, qualcosa che solo tu puoi trovare perché, oltre ad essere fotografo, sei un essere umano un po’ speciale, capace di guardare in profondità dove altri tirerebbero dritto” sosteneva Margaret Bourke-White, descrivendo di fatto, oltre se stessa, qualsiasi fotografo davvero coinvolto con la propria arte.

I fotografi sono sempre esseri un po’ speciali, perché non passano e vanno, ma osservano, guardano e poi vedono. Riconoscono il soggetto, hanno una relazione con lui. Se questa è la natura indicale del mezzo, che bella dipendenza è!

Eppure, come sosteneva giustamente Pablo Picasso, ci sono due categorie di professionisti sempre insoddisfatti, i dentisti e i fotografi. I primi vorrebbero essere medici, i secondi pittori.

Ecco, non so nel caso dei dentisti, ma di certo è vero per quanto riguarda i fotografi. Credono, i più, di dovere essere presi sul serio, e che dunque la loro arte non debba avere nulla da invidiare alla pittura. Il che è anche vero, per certi versi. Ma non è nell’imitazione la strada, piuttosto in una separazione ancora più netta.

Il fotografo esplora la realtà come pochi pittori possono fare, grazie a uno strumento (la fotocamera) che ben guidato gli permetterà di creare testimonianze di grande forza e intensità. Non superiori, non inferiori, ma diverse da quelle del pittore. E questa è la vera direzione da seguire, ben “indicata” verrebbe da dire!

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