
Sebbene dopo la fantomatica mostra del 2016 in cui un “artista” avrebbe esposto foto di ani – si, si tratta proprio di quelli che funzionano grazie allo sfintere – sia obiettivamente difficile immaginare altro di più particolare, disturbante, politicamente scorretto per attirare l’attenzione, ci sono comunque delle tematiche che, più di altre, sono trascurate dai fotografi e che invece potrebbero attirare l’attenzione. Ovviamente, se è questo a cui punti.
Ora, la mostra in oggetto è un “fake”, però il fatto stesso di averla pensata rende il “fake” una sorta di happening che vive online e non sui muri: le foto sono vere, sebbene nessun museo abbia deciso davvero di esporle.
E di certo il “fotografo” (o il burlone) potrà ampiamente giustificare la propria scelta stilistica, ma scommetto che alla fine a convincerlo a dedicare del tempo a delle fotografie così prosaiche (sarebbe divertente sapere come abbia avvicinato modelli e modelle…) sia il fattore visibilità. Lo stesso che lo ha spinto a orchestrare la presa in giro informatica.
Un po’ come le finte teste di Modigliani ripescate in Arno. Non saranno originali, ma sono geniali. E dovrebbero farci riflettere sulla portata mediatica dell’arte contemporanea, che sia fotografia, scultura, pittura o installazione.
Quando nasce l’opera? E dove finisce? Scatti una foto e la esponi in una galleria ed allora il percorso è chiaro. Ma se invece la stessa foto la rendi parte di qualcos’altro – come in questo caso – l’opera consiste nelle foto o nell’idea che le utilizza?
D’altra parte le stesse domande le suscita la mostra – e stavolta non è un “fake” – di Jamie McCartney, che ha creato un “muro” di calchi in gesso (e poi in bronzo) di vagine. Vere.
Probabilmente fotografarle sarebbe stato troppo “diretto”, ma il risultato cambia poco. E di esempi del genere ce ne sono molti altri.
Considerando che la voglia di stupire e di farsi notare è quel che muove tutto, al giorno d’oggi, i dubbi nascono quasi spontanei, non trovi?
Uscire dalla massa informe, farsi notare, diventare se non qualcuno almeno un personaggio, far parlare di sé sembra il mantra di tanta fotografia contemporanea.
Ritengo comunque che scegliere dei soggetti così controversi sia qualcosa che implica, oltre un certo coraggio, anche il desiderio di andare oltre il solito e di smuovere le acque stagnanti della fotografia o dell’Arte in generale, e anche di dire qualcosa che si ritiene importante.
Sicuramente questo vale per autori importanti come Mapplethorpe (che di parti intime ne ha fotografate a iosa, e senza “filtri”, ma con molto genio), e forse anche per altri adepti del “famolo strano” come David LaChapelle.
Non è che la cosa sia poi del tutto nuova, se pensiamo alla vagina dipinta in primo piano da Courbet. O alla celeberrima “Merda d’artista” (a proposito di ani) di Piero Manzoni.
Ci si fanno battute su, si scherza, si ride, ci si indigna, si alzano le spalle, ma in fondo il nostro sguardo finisce lì, in quelle foto, in quel mostrare ciò che andrebbe tenuto nascosto secondo le eterne regole della società: quelle regole che ogni buon artista vorrebbe tanto abbattere.
Solo che per farlo davvero devi essere un grande artista (e un grande fotografo) altrimenti non solo non scalfisci un bel nulla, ma anzi rafforzi le convenzioni, dai energia a ciò che vorresti combattere perché di fatto fai solo il bastian contrario – prendi una regola (non si mostrano parti così intime) e la inverti (ti mostro il dettaglio della parte intima) – ma dalle regole dipendi sempre.
Laddove l’artista invece cerca di scompaginare le carte in tavola, come – per restare nella sezione “parti intime” – ha fatto Paolo Gioli per il suo progetto “Naturae” in cui ha fotografato delle vagine da cui spuntano dei fiori, a sottolineare il potere “generativo” dell’organo femminile, che viene di fatto riprodotto dal fiore stesso (che ricordiamoci è un organo sessuale) e a volte sovvertito quando il fiore assume una forma fallica e allora la donna è quasi ermafrodita. Uomo e donna insieme.
I livelli di lettura possono essere molti e complessi, e certamente le foto possono piacere o meno, disturbare o meno (io il libro ce l’ho e non è che mi entusiasmi, lo confesso), ma è evidente che il processo creativo e intellettuale è portato su un livello diverso.
E dunque?
Beh, la questione è di cercare di capire cosa rende un fotografo “grande” – diciamo meritevole, per usare un termine meno usuale – e cosa invece confina gli altri nel ruolo delle “mezze tacche”.
Una risposta che trovo convincente ci viene da Brooks Jensen, fotografo e scrittore (nonché editore) americano, il quale scrive che ciò che distingue “quelli bravi” dagli altri “è quella cosa misteriosa chiamata contenuto. Al suo livello più profondo, io ho sempre pensato che il contenuto avesse a che fare con le idee … una cosa difficile da quantificare (o insegnare) e che potrebbe apparire difficilmente descrivibile in termini più concreti”.
Il contenuto è diverso dal soggetto ed è diverso dall’idea che sta dietro alla fotografia, ma riunisce entrambe le cose, e in questo consiste il suo successo.
Quando l’idea guida il soggetto – e tutto quel che ne consegue: inquadratura, esposizione, messa a fuoco e così via – allora avremo un contenuto interessante, perché si crea un circuito virtuoso tra ciò che il fotografo aveva da dire, lo spettatore e quel che nella foto è effettivamente rappresentato.
Se, per dire, fotografo un “BdC” (un ano, insomma) e lo metto in mostra insieme ad altre decine, quale contenuto vedremo in queste foto? Semmai il contenuto è nell’intera mostra, nell’idea a monte, presumibilmente nel testo introduttivo che ci spiega perché il fotografo abbia fatto una determinata scelta, ma di certo ogni singola foto ci lascerà perplessi, per non dire altro.
Viceversa un peperone o una foglia di cavolo – meno problematici, ma comunque soggetti prosaici anch’essi – nella mani di Edward Weston diventano soggetti non solo piacevoli a vedersi (e questo potrebbe anche essere un limite) ma soprattutto un “contenuto” di qualità.
Guardi la foto (ad esempio lo strafamoso “Pepper n°30”) e partecipi al processo creativo dell’autore, navighi nel suo mondo, e allora il peperone diventa una scultura d’arte contemporanea o qualcosa di simile a due corpi avvinghiati.
Sono certo che Weston avrebbe anche potuto fotografare dei “BdC” – e in effetti ha fatto moltissime foto di nudo – ma di certo non avrebbe semplicemente ripreso il soggetto con un flash anulare in modo quasi “scientifico” collocando a monte – cioé fuori dall’opera – il senso della sua ripresa.
Perciò il contenuto è importante, forse il contenuto è tutto, in una fotografia.
E’ più, molto di più di un’idea (sebbene senza un’idea non possa esistere) ed è molto di più anche della tecnica, delle capacità del fotografo e del soggetto stesso.
A volte, se ci pensi, è una magia. Anzi, è come un vello d’oro e tutti noi siamo come Argonauti che sempre stiamo lì a inseguirlo, senza raggiungerlo mai.
In fondo, è proprio in questa costante ricerca di una misteriosa alchimia che risiede il fascino della fotografia e dell’arte, in quel tentativo di superare tutto, ogni ostacolo e poi, in forza delle idee, trovarci tra le mani un valido “contenuto”, un po’ come fece Duchamp con il suo orinatoio.
Siamo sempre nel campo del triviale – e ricorda che anche Weston fotografò da par suo un Water, in Messico – ed è interessante pensare che finiamo nello stesso “campo” dal quale siamo partiti, ma quando c’è il genio il resto necessariamente viene di conseguenza…