Fotografi che sono volpi e quelli che sono porcospini

Isaiah Berlin nel suo libro “Il riccio e la volpe” sostiene che «la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande» individuando così due grandi famiglie di spiriti: da una parte le volpi, coloro «che perseguono molti fini, spesso disgiunti e contraddittori, magari collegati soltanto genericamente, de facto, per qualche ragione psicologica o fisiologica, non unificati da un principio morale o estetico»; dall’altra i ricci, coloro «che riferiscono tutto a una visione centrale, a… un principio ispiratore, unico e universale, il solo che può dare un significato a tutto ciò che essi sono e dicono».

Sulla base del libro di Berlin, il ricercatore e consulente americano Jim Collins (e collaboratori) ha elaborato un principio, detto appunto “del porcospino” e divulgato nel libro “Good to Great” che ha conosciuto una certa fortuna in ambito di gestione delle società e delle aziende.

Ma se pensiamo alla fotografia, beh, non è che le cose vadano molto diversamente. Tu che fotografo sei, un porcospino o una volpe?

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Secondo Collins – che ha analizzato oltre 1500 aziende per identificare i motivi del successo di alcune a fronte di una scarsa crescita della maggioranza -i manager “riccio” mostrano una concentrazione continua su ciò che è essenziale, mentre invece i manager “volpe” hanno tanti fini e vedono il mondo in tutta la sua multiforme essenza non riuscendo così ad arrivare ad una visione sintetica e dunque a conseguire gli obiettivi che si erano dati. Ti suona famigliare?

Il fotografo-volpe (come la relativa tipologia di manager) è quello che vaga in giro per il mondo (anche solo in senso figurato) cogliendo spunti qua e là, scattando foto sparse e varie, magari buone se non addirittura ottime, ma senza che si possa cogliere, di fondo, un elemento unificante e vivificante, quel filo rosso che unisce ogni ispirazione e ogni idea.

Sono bravi, ma dispersivi; appaiono intelligenti e “open-minded” ma di fatto sono confusi e poco concentrati. Ti tirano fuori una foto spettacolare dietro l’altra, ma senza una logica che le unisca, senza che ci sia dietro un ragionamento complessivo, una filosofia di vita e di visione. Sanno molte cose, ma in questo magma perdono ciò che è essenziale.

Non sapendo decidere quale sia la strada migliore, le percorrono tutte, ma solo in parte e con continui ripensamenti. La loro strategia è, in realtà, una non-strategia, e spesso si rifugiano nella tecnica, nella ricerca di un’eccellenza basata sulle fotocamere, gli obiettivi, le competenze, la resa esatta al millimetro di quel che fanno.

Possono anche avere successo sul momento – ad esempio in qualche concorso – ma non emergono come “autori”, se non di rado, e se non in qualche campo – anche professionale – in cui conta solo la perfetta ed equilibrata realizzazione di un “prodotto” fotografico d’eccellenza.

I fotografo-porcospino sono di tutt’altra pasta. Le attività fotografiche che svolgono li appassionano profondamente, sono consapevoli di essere bravi, a volte pensano addirittura di essere tra i migliori in assoluto, e poco importa che questa loro preminenza sia poi riconosciuta dagli altri o meno; infine, sanno sfruttare le proprie capacità per emergere, anche se solo in ambiti ristretti.

In realtà sono così concentrati sulla visione complessiva di quel che fanno che spesso si disinteressano del successo o meno di ogni loro singolo passo verso il conseguimento del risultato finale.

Sanno una sola cosa, ma grande e importante, l’unica che conti davvero e a quella si dedicano anima e corpo.

Il fotografo-porcospino ha la certezza di avere un concetto unificante e forte che guida la propria azione. Questo non significa assolutamente avere uno stile rigido e immutabile o dedicarsi solo a un genere fotografico specifico, tutt’altro. Significa però che ogni attività svolta ha, di fondo, un’idea, un’emozione, un concetto che rende il percorso creativo riconoscibile.

marco scataglini

Paolo Monti era per esempio un classico fotografo-riccio: nella sua carriera ha fatto fotografie impostate e molto “precise”, come anche foto estremamente creative e sperimentali, dal mosso intenzionale alle esposizioni multiple, dalle diffrazioni con prismi ai chimigrammi, eppure uno stesso afflato percorreva la sua opera, la stessa ricerca del “visibile” era presente in fotografie molto diverse tra loro, ma tutte ascrivibili allo stesso “sguardo” che le andava creando.

In tal senso, sostiene Collins, per un’azienda che vuole avere successo – e nel nostro caso per il fotografo che vuole essere davvero consapevole – bisogna fare affidamento su una sorta di mantra: “non farò niente che non corrisponda al mio Concetto del Riccio“, che è unico per ogni impresa (e per ogni fotografo).

Questa idea di fondo, che collega ogni gesto che il fotografo compie serve a garantirgli maggiore libertà, non certo a limitarla. Perché nel momento in cui si sviluppa una linea guida che attraversa anche opere diverse, si scopre di poter sperimentare di più, nella consapevolezza di non disperdere gli sforzi, o di tradire quel che si ritiene importante.

I fotografi-riccio si dedicano spesso a generi fotografici assai diversi per soggetti e contenuti, e in questo potrebbero sembrare simili ai fotografi-volpe, ma guardandole percepiamo che pur nella loro diversità appartengono però allo stesso autore, sono frutto dello stesso impulso volto al conseguimento dell’eccellenza.

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Cos’è l’eccellenza? Nelle aziende che analizza Collins è il perseguimento senza deviazioni del fine societario evitando logiche competitive – in cui cioè ci si confronta con gli altri in una sorta di gara – ma perseguendo invece quelle del tutto interne, legate al miglioramento costante di ogni processo produttivo secondo la logica del “volano”.

Un volano è difficile da far partire ma, una volta in moto, accelera costantemente e senza altri sforzi aggiuntivi.

Un fotografo non è un’azienda (se non è un professionista, almeno) ma è evidente che l’eccellenza la può raggiungere solo quando non imita nessun’altro ma nemmeno si pone in contrapposizione agli altri fotografi, bensì quando cerca la propria strada nel tentativo di far partire il volano creativo, nelle certezza che una volta avviato genererà sempre nuove idee, spunti, emozioni e dunque immagini.

Molti fotografi hanno avuto questa strana sensazione (almeno a me è capitato) di “caduta” di un muro, come se improvvisamente tutto iniziasse a girare per il verso giusto e ogni nuova idea possa crescere e svilupparsi senza che nulla la blocchi, se non la sua stessa inconcludenza.

E’ in quel preciso momento che da volpe (perché tutti iniziamo così) ci si trasforma in porcospino, e ci si sente meno furbi, magari, ma ben protetti dalle spine della nostra ispirazione.

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