
Considerando che ci son voluti più di 170 anni per riuscire ad avere immagini fotografiche di alta qualità, perché mai ci sono fotografi che scelgono di realizzare le proprie fotografie utilizzando tecniche lo-fi (si legge lo-fai), o low-fidelity, cioè “a bassa fedeltà” (e io sono tra questi)?
Bella domanda, a cui è difficile rispondere.
Da sempre ci sono fotografi che, ignorando i progressi della tecnica, hanno scelto di investire tempo ed energie in tecniche cosiddette a bassa risoluzione.
Oggi, col digitale, il contrasto appare più forte; inoltre, la possibilità di utilizzare tecniche ibride (analogico-digitali) e di condividere i risultati online, ha portato ad un aumento esponenziale dei praticanti.
Resta certamente un settore di nicchia, ma questa nicchia è molto cresciuta negli ultimi anni, al punto che procedimenti oramai avviati alla definitiva scomparsa, come la Polaroid e in generale la fotografia istantanea, hanno conosciuto una rinascita e un inaspettato sviluppo.
Ovviamente una fotografia “a bassa fedeltà” non è semplicemente una foto “fatta male”.
Una buona foto Lo-Fi deve essere, prima di tutto, invece, una buona foto: l’effetto Holga o Foro stenopeico o altro viene scelto solo perché adatto a quel determinato soggetto o perché il fotografo si è reso conto di voler dare un senso di magia e atemporalità alla propria fotografia.
Insomma, non si usa la Holga “perché rende artistica ogni immagine“! Anche perché non è affatto vero che sia in grado di farlo.
Ribadiamo il concetto allora: la fotografia Lo-Fi è una filosofia di ripresa e una tecnica al servizio del fotografo, che può decidere di ricorrervi esattamente come potrebbe scegliere invece una reflex digitale full frame di ultimissima generazione e un teleobiettivo dal costo di diverse migliaia di euro.
L’importante è sempre il risultato finale, solo la foto conta. Una foto sbagliata è sbagliata e basta, a prescindere dal mezzo con cui viene fatta.
Personalmente, dopo oltre dieci anni di fotografia quasi esclusivamente digitale, ho trovato nelle tecniche alternative un modo per riequilibrare il mio approccio al mondo circostante, che mi appariva sin troppo “mordi e fuggi” nonostante, come fotografo di paesaggi e di natura, restassi per molto tempo nello stesso luogo.
Il fatto è che, a differenza dei pittori e degli scultori, i fotografi fanno tanto lavoro prima e dopo la realizzazione dell’immagine, mentre il “durante” è un fugace attimo. Ecco allora che sfruttare determinate tecniche significa espandere questo attimo, in modo da avere la possibilità di rimanere più tempo a contatto con il proprio soggetto.
Inoltre, soprattutto per le tecniche cameraless, come il fotogramma, l’antotipia e il lumenprinting (che ho ampiamente utilizzato nel mio progetto di fotografia naturalistica “Foto|Sintesi” diventato anche un libro), c’è un tentativo di uscire del tutto dalle solite logiche della fotografia come oggi la conosciamo, tornando all’essenziale.
I fotografi naturalisti, d’altra parte, sono stati i primi a comprendere l’utilità della nuova invenzione per documentare il mondo circostante: era il 1843 quando Anna Atkins realizzava il suo progetto “British algae”, una serie di stampe cianotipiche delle alghe del Mare del Nord.
Collocando gli specimen, già seccati, su fogli di carta sensibilizzati con la emulsione cianotipica, appena inventata da sir John Herschel, la Atkins ottenne diversi record: fu la prima donna fotografa della storia, realizzò il primo libro fotografico e divenne anche il primo fotografo naturalista mai visto sulla faccia della Terra.
Ecco perché queste tecniche ci riportano alle origini non solo della fotografia, perché sin da subito gli uomini, oltre a documentare le proprie fattezze con il ritratto, ebbero come obiettivo quello di mostrare al mondo la bellezza della natura e del mondo circostante.
Marco Scataglini – Fotosintesi
Le antiche tecniche sono anche utili a mettersi alla prova, per scoprire se, senza il supporto delle tecniche più avanzate, si portano a casa le immagini.
Chi ricorre, ad esempio, alla tecnica del collodio umido, utilizzata per decenni dai fotografi di tutto il mondo agli albori della fotografia, deve preparare e stendere l’emulsione (su vetro) direttamente sul campo, grazie a una camera oscura portatile, e quindi esporre e sviluppare immediatamente la foto, prima che il collodio (un’emulsione ottenuta dal fulmicotone) si secchi!
Oggi, la possibilità di utilizzare i citati metodi ibridi, cioè elaborando digitalmente i negativi, come anche al contrario stampare con tecniche antiche le foto digitali e di condividere i risultati online, offre davvero nuove e inaspettate possibilità, sebbene magari si rischi di attirare gli strali degli immancabili “puristi”. Ma poco importa: come detto, quel che conta è ciò che si ha da dire e il modo in cui lo si fa, il resto sono solo parole al vento.
Tra i molti fotografi – specialmente americani – che sfruttano le tecniche alternative e a bassa fedeltà per i propri scopi creativi, vorrei citare ad esempio David Johndrow, che realizza le sue macrofotografie utilizzando pellicola medio formato e poi stampa i negativi su carta sensibile “autoprodotta”.
“Debbo ammettere”, sostiene, “che mi piace la magia quasi alchemica di stendere l’emulsione sulla carta. Poi ci sono molti incidenti fortunati che possono portare a immagini ancora più interessanti. Allo stesso tempo, la possibilità, oggi, di avere negativi digitali ha significativamente semplificato la realizzazione di stampe con tecniche alternative, dando al fotografo ancora più libertà e flessibilità”.
E qui Johndrow sottolinea due aspetti importanti del movimento Lo-Fi: da un lato il fatto che c’è sempre una parte legata al caso, per cui “l’incidente”, l’errore che capita lavorando con tecniche così primitive in realtà non è tale, ma anzi può essere un colpo di fortuna, dall’altro che è proprio lo sviluppo delle tecniche digitali ad aver fatto la fortuna di quelle analogiche e tradizionali, che possono oggi essere sfruttate al massimo, senza perdere del tutto il controllo sui risultati.
Altro fotografo che si è fatto un certo nome nel campo è Jim Sincock, fotografo paesaggista americano che ha fatto delle “slow techniques” un suo tratto caratteristico. “Trovo che utilizzando queste tecniche, come il collodio umido o la foto su negativi di grande formato”, racconta, “io sia in grado di rallentare e conoscere il mio soggetto a un livello più profondo. L’intero processo è molto meditativo, e io sento una connessione assai più forte con la scena che sto fotografando; trovo che questo mi consenta di ottenere fotografie più coinvolgenti che col digitale”.
E aggiunge: “per me, il digitale è un processo facile e rapido con il quale mi trovo a muovermi da un soggetto all’altro troppo in fretta, laddove con le tecniche tradizionali sono costretto a rallentare e a vedere davvero l’immagine che sto creando”.
Sincock scatta con fotocamere a banco ottico da 4×5” (negativi circa 10×12 cm) e 8×10” (negativi circa 20×25 cm). La sua tecnica di lavoro consiste nel cercare la scena che lo colpisce, e fermarsi a osservare la luce, le forme, le textures, quindi nel sistemare la fotocamera e comporre l’inquadratura: “se al termine dell’intero processo ancora mi piace la scena che ho di fronte, scatto la foto, altrimenti smonto tutto e procedo oltre. Sono molto selettivo quando scatto con il grande formato, molto meno se utilizzo il digitale”, conclude.
La fotografa americana Susan Burnstine invece costruisce da sola le proprie fotocamere per ottenere delle foto a bassissima nitidezza, ma molto evocative. Grazie alla somma dei difetti presenti in ottiche costruite con lenti semplici (aberrazione laterale e cromatica, distorsione, effetto coma, ecc.) solo piccole parti della scena fotografata sono davvero “nitide”, mentre il resto affoga in un limbo misterioso e suggestivo. Non a caso il suo progetto più importante, diventato un libro con lo stesso titolo, è “Absence of being”, che cerca di descrivere – attraverso fotografie di paesaggio urbano, la sensazione di “non eserci”, di spaesamento, quasi di sogno ad occhi aperti.
Il lavoro della Burnstine ci rivela un altro assunto della fotografia a bassa fedeltà, ma direi di qualsiasi genere fotografico: e cioè che quel che davvero conta è ciò che abbiamo in testa e nel cuore, quel che vogliamo esprimere, raccontare, trasmettere, testimoniare grazie alla fotografia. Non si tratta dunque di cercare semplicemente un’impossibile “originalità”, quanto di guardare il solito con occhi nuovi per “vedere il monso” come se fosse la prima volta, come già sosteneva quasi trent’anni fa Luigi Ghirri.
La magia delle tecniche alternative è tutta qui, nella lentezza e nella selettività a cui obbliga il fotografo, in un’epoca che ha fatto della velocità e istantaneità il proprio tratto distintivo, e dunque nella possibilità che offre di non rimanere vincolati a un modo di fotografare magari di successo, ma già sin troppo visto.
Glossario essenziale
Simple lenses – Autocostruzione dei propri obiettivi partendo da una sola lente, in genere biconvessa, da utilizzare su fotocamere ad obiettivi intercambiabili.
Fotocamere giocattolo (Toy Cameras) – Sono uno dei principali strumenti della fotografia creativa. Il modello più noto è senz’altro la Holga, in produzione dal 1982 in Cina, che venne adottata da diversi fotografi creativi americani, ed iniziò così a conoscere un sempre crescente successo in tutto il mondo. Sulla scia di questo successo è nato negli anni ‘90 anche il movimento della Lomografia, grazie a due studenti austriaci che intuirono le potenzialità creative di un’altra fotocamera, la Lomo, appunto, di fabbricazione russa.
Fotografia stenopeica – più che una tecnica, è una vera e propria filosofia di ripresa fotografica, che utilizza, al posto di una o più lenti, un foro piccolissimo (si parla di frazioni di millimetro) aperto in una sottile lamina metallica. Il risultato sono fotografie generalmente poco definite, ma -è bene sottolinearlo- non “sfocate” (anzi, la profondità di campo è enorme).
Tecniche Cameraless – L’oggetto da fotografare (in genere sottile) viene collocato direttamente sulla superficie sensibile ed esposto alla luce. Nel fotogramma, la carta fotografica va poi sviluppata normalmente, nel lumenprinting, invece, si espone il tutto alla luce del sole anche per molte ore, ottenendo un’immagine diretta sul foglio sensibile (non permanente, anche se può essere fissato perdendo però consistenza). Nell’antotipia, inventata da Herschel come la Cianotipia, si utilizza come superficie sensibile uno strato di succo vegetale estratto da fiori (Antòs in greco) o da frutti, steso su carta da acquarello.
Tecniche di stampa tradizionali – Sono innumerevoli, tra le più diffuse sono la Cianotipia o blueprint (per il colore dell’immagine che si ottiene), basata sui Sali di ferro, e poi una lunga serie di tecniche ai sali d’argento, come il Collodio (secco e umido), la Carta salata, la Callitipia, il Van Dyke e simili. Nella Gomma Bicromata si sfrutta l’unione di gomma arabica e bicromato di potassio, che al sole diventa impermeabile: stampando a registro tre negativi RGB si possono ottenere anche stampe a colori. In tutti questi casi è possibile arrivare alla stampa anche partendo da file digitali: basta stampare il negativo su acetato trasparente e collocarlo a contatto con la carta sensibilizzata.
(Nota: Questa è una versione modificata dell’articolo apparso sulla rivista “Asferico”)