I fotografi più sopravvalutati della storia

Steve McCurry? Un pirla che ha taroccato le foto con Photoshop e si è fatto scoprire!

Berengo Gardin o Fulvio Roiter? E che palle con questa Venezia!

Ma poi… vogliamo dirlo – e dài! – che Giacomelli le foto le faceva tutte mosse, e pure Cartier-Bresson, che poi ci faceva il furbo su, sostenendo che “la nitidezza è un concetto borghese“! Ma come? Prima spendi un sacco di soldi per acquistare una Leica e poi ci scassi i cosiddetti con questa saggezza da quattro soldi, ma a chi vuol prendere in giro?

Magari ti ci riconosci, in uno di questi commenti (spero di no), ma resta un fatto: molti sono convinti che il modo più semplice per sentirsi meno piccoli non è crescere, ma rimpicciolire gli altri.

Segare le gambe a Gulliver, sputtanare il genio e ridimensionare le sue opere, alzare le spalle guardando le foto del maestro di turno esposte in una mostra o in un libro sospirando “mah, in fondo non mi sembrano granché“. Di certo è un autore sopravvalutato! Sicuro, come no.

Questo avviene al solo scopo di poter affermare che – altrettanto sicuramente – tu sei sottovalutato.

Francamente mi sembra che tutto questo sia assolutamente, rigorosamente e ampiamente privo di senso. Davvero. Almeno nel campo di cui sto parlando, quello della fotografia cosiddetta creativa, impegnata, comunque realizzata per “dire qualcosa” e non solo per fare della mera documentazione (la distinzione è importante riguardo quel che andrò a dire) o per mettere insieme un reddito decente.

Ho abbastanza esperienza (e conseguente pelo sullo stomaco) da aver letto e anche udito in prima persona commenti ad cazzum, considerazioni pulciose, bassa invidia elevata a critica consapevole, considerazioni senza senso, sputtanamenti pilotati e certo, mi è capitato di vedere fotografi promossi a genio senza avere talento, e tanti autori di talento “svelati” solo dopo morti, che è una cosa che ti fa anche un po’ incazzare, o no?

Ma il tempo è galantuomo (o un gran bastardo, dipende).

Prendi i film più trash degli anni ’70, quelli di Pierino o quelli sexy con Laura Antonelli o Gloria Guida, quelli che la critica benpensante considerava delle “emerite schifezze”: bene, oggi sono film “di culto”, rappresentano perfettamente lo spirito di quei tempi e gli attori, in fondo, erano anche bravini, addirittura facevano ridere. Con le scoregge e le parolacce, è vero: che c’è di male? E’ lo Zeitgeist, no? Lo “spirito del tempo”. Ignorante!

Allora non ti stupirà scoprire che le foto di Giacomelli venivano a volte rifiutate dai concorsi fotografici e che Franco Fontana non ne abbia mai vinto uno. Cavolo, lo Zeitgeistnon perdona: all’epoca per vincere i concorsi dovevi mostrare, nell’ordine, un vecchietto simpatico che giocava a carte con gli amici dello spizio oppure una donna nuda ma in posa artistica o un paesaggio agreste molto romantico. Tranquillo: anche questo tipo di foto verrà rivalutato e tornerà ad essere apprezzato, come i film di Alvaro Vitali.

Dunque, se grandi fotografi venivano spernacchiati nei concorsi – e di fatto sottovalutati vox populi – come mai poi sono diventati, appunto, grandi fotografi?

Ora ti rivelo una grande verità: ad essere molto, ma molto sopravvalutata è la fotografia stessa. Anzi, l’Arte in generale.

E’ sopravvalutata perché è solo uno strumento, un semplice mezzo. L’artista è come colui che indica la luna e noi tutti, invece di guardare la luna che è così bella, insistiamo a guardare il dito, cioè la foto, il quadro, la scultura, l’installazione.

Non può esistere una “bella” foto senza un fotografo sensibile che la scatti, però possono esistere bravi fotografi che non riescono a scattare “belle” fotografie. Ne conosco tanti: gente che ha molto da dire, che ha bei pensieri, belle idee, belle ispirazioni eppure – accidenti – non riesce a ricavarne un’immagine che sia davvero degna di essere ricordata.

Una bella persona è sempre meglio di qualsiasi fotografia, comunque. E a fotografare efficacemente si può sempre imparare, mentre è più difficile (a volte impossibile) imparare ad essere delle belle persone.

Anni fa, dopo questa clamorosa scoperta, iniziai a firmare le mie opere (quelle, manco a dirlo, rigorosamente sottovalutate) con lo pseudonimo di “Vox”, con riferimento stavolta al biblico “vox clamantis in desertis“, voce di uomo che urla nel deserto, dove evidentemente nessuno l’ascolta.

Perché continuo, da allora, a ripetere fino all’ossessione che ogni opera dell’intelletto umano è figlia del proprio tempo e delle condizioni in cui è stata concepita, e non c’è modo di giudicarla in modo equo, ragionevole, duraturo, condiviso una volta per tutte.

Non solo: il modo in cui la fruiamo incide sin troppo sull’idea che ce ne facciamo. Se una mia fotografia venisse introdotta come capolavoro da Achille Bonito Oliva, stai pur certo che molti direbbero: epperò, che bella foto che ha realizzato lo Scataglini! Ma se te la presento io, da me medesimo stesso, col cavolo che lo diresti, almeno non in modo così automatico.

E questo è solo un esempio, te ne potrei fare molti altri. La storia della fotografia è piena di foto che non consideriamo affatto belle o significative, ma a loro tempo erano tenute in alta considerazione.

I giudizi cambiano, la sensibilità cambia. Salieri ai suoi tempi era considerato un genio e Mozart, suo contemporaneo e rivale, solo un bravo musicista. Poi passano i secoli e c’è il contrordine: Salieri chi? E’ Mozart ad essere di certo il più grande genio della musica!

Poeti sconosciuti che durante la propria vita hanno scritto al freddo e all’umido di una soffitta e magari son morti di tisi, oggi ce li troviamo nei libri di scuola, e i ragazzi debbono imparare a memoria i loro versi.

Van Gogh faceva la fame, lo sappiamo, e se non era per il fratello Theo col cavolo che avevamo qualcosa da esporre nei musei. Gli esempi sono infiniti.

Certo, c’è chi ha la fortuna di essere riconosciuto quando è ancora in vita: ma aspetta che passino i secoli e poi ne riparliamo.

Di molti autori del passato, diciamocelo, abbiamo un’alta, a volte altissima considerazione tecnica: ne ammiriamo le straordinarie capacità pittoriche, o il modo in cui, da un pezzo di marmo, sembrano esser capaci di tirar fuori qualcosa che quasi sembra vivo. Ma di quello che le loro opere rappresentano, cosa sappiamo davvero? E pur sapendolo, siamo davvero convinti di condividerlo?

Non esiste al mondo – oramai – un artista che abbia la possibilità di realizzare un affresco come quello che decora la Cappella Sistina, ma la domanda da porsi è: se anche esistesse, ci racconterebbe quello che ha raccontato Michelangelo, anche rimanendo in ambito religioso? E lo stesso Michelangelo, se non avesse dovuto rispettare la commessa ricevuta, avrebbe dipinto gli stessi soggetti?

Personalmente mi sono sempre posto anche un’altra domanda: perché sarebbero allo stesso modo grandi artisti, in grado dunque di realizzare capolavori, sia Michelangelo Buonarroti o Tiziano che Edvard Munch o Jackson Pollock? Eppure i primi due hanno dimostrato di saperci davvero fare col pennello e lo scalpello, gli ultimi due… beh, a onor del vero scommetto che a volte ti sei scoperto a pensare che il tuo nipotino saprebbe fare di meglio, se gli dai tela e colori, o no?

Francamente, però, “L’Urlo” di Munch a volte me lo sogno la notte, è un’opera davvero sconvolgente, viceversa pur ammirando con tutto me stesso gli autori classici, provo una certa noia nel vedere riprodotte all’infinito Madonne col Bambino o le allegre vite dei Santi e dei Martiri. Quasi la stessa noia che mi prende nel veder riprodotto ad infinitum il bellissimo paesaggio scattato con la Full Frame ultimo modello sulle Dolomiti o nell’Arches National Park negli USA, o nelle vallate coloratissime dell’Islanda con tutte le sue cascate.

Di tecnica ce n’è da vendere, ma l’uomo o la donna dietro certe opere fatico spesso a vederli. L’occhio c’è, ma l’anima?

Ci vuole l’umanità, la sensibilità, il tocco magico per essere davvero un artista, la tecnica può esserci o meno (ed è meglio che ci sia), ma non è quella che fa la differenza vera.

E l’artista deve anche essere figlio del proprio tempo, saper interpretare “l’aria che tira” con modalità che siano attuali, comunque accessibili per i contemporanei. Altrimenti più che “comunicare” l’opera diventa oggetto dello “studio”, che è quello che facciamo il più delle volte con le opere del passato, che solo poche volte sanno parlarci ancora in modo diretto, non mediato.

Soprattutto l’artista deve essere in qualche modo parte della storia o della situazione che illustra.

Michael Kenna che riprende i campi di concentramento nazisti non ci mostra semplicemente questi ultimi, ci mostra il suo partecipare al senso di colpa collettivo, la nostra cattiva coscienza di eredi di quell’Europa che li costruì e di quella che voltò lo sguardo dall’altra parte per non vedere.

Ricordo una splendida mostra di vent’anni fa sulla tragedia del Ruanda, un evento che ha dimostrato ancora una volta quanto il mondo occidentale sia bravo a voltarsi dall’altra parte mentre la follia percorre il mondo, e soprattutto l’Africa (tranne poi lamentarsi per i profughi in fuga). La mostra venne concepita dall’attivista e scrittrice Tutsi (una sopravvissuta) Yolande Mukagasana e dal fotografo belga Alain Kainierakis.

Ecco il link per chi vuole approfondire. 

Bene, in quella mostra si mostravano i “boia” Hutu messi a confronto con le vittime Tutsi sopravvissute. Una serie di ritratti che, singolarmente, non sono niente di speciale, ma che accostati in questo modo divengono un autentico pugno nello stomaco.”Non ci sarà umanità senza perdono, non ci sarà perdono senza giustizia, ma non ci sarà neppure giustizia senza umanità” ha scritto la Mukagasana.

Non ci sarà giustizia senza umanità: dovrebbe essere uno slogan graffito su tutti i muri del mondo!

Il lavoro risale al 1999, e non l’ho mai dimenticato. Perché ci mostra l’orrore, ma non lo giudica, perché parla al cuore e all’anima, e non solo alla testa, e anche perché è ben concepito, intelligente, sensibile.

Un altro esempio, più vicino al mio modo di intendere la fotografia, è quello fornitoci dalla fotografa australiana Anjella Roessler che, facendosi carico del senso di colpa che opprime i discendenti dei coloni che sterminarono il popolo aborigeno, fotografa la sua “Land of Blood” attraverso i luoghi dove sono avvenute uccisioni o eccidi, il tutto grazie al foro stenopeico.

Quel che vediamo sono i luoghi che, filtrati attraverso il pinhole, sembrano davvero grondare sangue, pur rimanendo luoghi qualunque. Nella didascalia, la fotografa annota solo il nome del luogo e il numero delle uccisioni, ad esempio “Monte Cottrell, Werribee river, 1836, 10 indigeni Wadawurrung uccisi“.

I luoghi e le foto sono indiscutibilmente belli, ma possiamo guardarli con occhi disincantati? Un lavoro che trovo meraviglioso, davvero.

Ecco, non è la fotografia, non è l’opera d’arte a parlare: sono solo pezzi di carta, tela o marmo, senza vita. E’ l’autore a parlare attraverso di essi. Se mi narra di una tragedia, di un evento tragico, non voglio che me lo mostri, voglio che mi mostri le sue mani insanguinate (metaforicamente), la sua anima lacerata, il suo sguardo ferito.

Altrimenti tutto diventa solo una mera rappresentazione, poco più di quegli eventi che registrano le videocamere di vigilanza e che i telegiornali utilizzano a man bassa quando riprendono rapine, violenze o rivolte. L’oggettività è inutile e noiosa, viva sempre la soggettività!

Quel che possiamo davvero valutare, tornando al nostro punto di partenza, sono le idee, la voce, le emozioni dell’autore, ascoltarlo (grazie alle sue opere) mentre cerca di mettersi in connessione con noi. Questo possiamo fare. Apprezzare la bravura di chi sa indicarci con così tanto garbo ed eleganza la luna, ma ammirare quest’ultima e non lo strumento che è servito a mostrarcela.

Possiamo anche non apprezzare quella voce, non condividere il “messaggio”, trovarlo addirittura fastidioso, negativo, inutile. Va benissimo. E’ l’indifferenza il vero nemico, l’incapacità di ascoltare, non l’essere in disaccordo.

Confesso che il 95% almeno della fotografia contemporanea non mi piace e non ne condivido né la forma, né lo stile, e nemmeno quel che intende dirmi. Ma non mi lascia freddo e privo di emozioni, anzi. Come fece scrivere Man Ray sulla sua tomba, io sono semmai “distaccato, ma non indifferente” (Uncorcened, but not indifferent).

Così hanno fatto Giacomelli, Fontana, Bresson e tutti gli altri: hanno cercato (trovandola) una strada per farsi ascoltare, sono usciti da quel deserto in cui tanti di noi continuano a vagare, incerti, credendo che l’Universo intero stia lì a giudicare, a valutare, quando in realtà siamo noi che ci valutiamo, costantemente, pesantemente e come giudici inflessibili soppesiamo, quasi fosse una vendetta, il valore degli altri, riconoscendo che – diciamocelo – son meno bravi di noi.

Un esercizio inutile, che ci fa solo perdere tempo e preziose energie.

Dovremmo smetterla di segare le gambe degli altri e di piagnucolarci addosso. Se abbiamo qualcosa da dire, diciamola a gran voce: c’è sempre qualcuno disposto ad ascoltare. Soprattutto, cerchiamo dentro di noi quell’emozione, quella profondità che davvero può fare la differenza.

Una fotografia parla, e quella voce può essere impastata e incomprensibile, o essere un canto melodioso. Dipende soltanto da noi. Dipende soltanto da te.

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