
In gergo giornalistico un “ballon d’essai” è un articolo che rivela una qualche notizia poco (o affatto) verificata al solo scopo di saggiare la reazione del pubblico. Ovviamente è un termine di valore dispregiativo.
Più in generale il “ballon d’essai” è una prova, qualcosa che si fa solo per vedere cosa succede, senza avere la certezza delle conseguenze. Questa accezione è quella che prediligo, e anche quella più affine al senso originale: i ballon d’essai (letteralmente “pallone di prova”) erano infatti piccole mongolfiere fatte decollare prima del lancio di una mongolfiera con equipaggio umano allo scopo di saggiare la direzione del vento in quota.
Credo che in ambito fotografico sia necessario essere appassionati lanciatori di palloni di prova. Io, almeno, ne mando in aria davvero tantissimi.
Se ti capita di partecipare a qualche forum online di fotografia, ti sarà capitato di trovare la classica domanda del neofita (ma non solo): “cosa succede se…”. Oramai le persone sono talmente spaventate dall’idea di sbagliare, che chiedono sempre lumi ai più esperti per conoscere in anticipo le conseguenze di qualche tecnica ancora poco conosciuta. In queste domande c’è sempre un pizzico di ansia, che rivela la convinzione che esista un modo – uno e uno solo – ritenuto “giusto” di fare le cose. In questa incertezza i creatori di “tutorial” ci sguazzano.
Se nella fotografia analogica – dove gli errori sono frequenti, data la procedura basata su agenti chimici, ma sono altrettanto frequenti anche gli “happy accidents“, gli sbagli fortunati – si può in parte comprendere il desiderio di non sprecare prezioso materiale tentando la sorte, la cosa è del tutto incomprensibile in digitale. Infatti se hai un dubbio su come una foto possa venire “maltrattandola” digitalmente, non hai che da lanciare il tuo “ballon”, dunque provare a vedere che succede sapendo che tanto potrai sempre ripartire dal file originale.
E invece no, quasi tutti i fotografi sono convinti che le cose vadano fatte in un certo modo e restano ancorati a tale convinzione come una patella allo scoglio. Per quanto mi riguarda, so che almeno i due terzi delle modalità che utilizzo nello sviluppare i file digitali (ma anche i miei rulli analogici) porterebbero un “Adobe Evangelist” – come vengono definiti i veri espertoni dei software di questa software house – sull’orlo di una crisi di nervi.
Per anni ho seguito le istruzioni passo passo che trovavo su appositi manuali (quelli che ora prendono polvere in garage), districandomi tra “duplica livello e nominalo x” , “sfoca il livello y”, “aggiungi maschera di livello a z” e così via, scoprendo poi che potevo ottenere risultati ragionevoli – e in un tempo molto più rapido – facendo a modo mio. Non è il modo giusto? Perché facendolo nel modo giusto si vince qualchecosa?
Insomma, siamo fotografi, non ritoccatori (o “retoucher” per essere precisi) – mestiere altrettanto nobile, ma molto più tecnico – e non dobbiamo dimostrare di saper utilizzare Photoshop, Lightroom, Affinity Photo, Capture One o qualsiasi altro software alla perfezione, ma di saper raccontare quel che vediamo e percepiamo in modo efficace ed emotivamente profondo. Ora, è chiaro che se uno sviluppa i propri file da solo – perché poi ci sono fotografi come Salgado o McCurry che l’incombenza la lasciano svolgere ad altri – deve saper ottenere il risultato che aveva in mente, ma se ci riesce in modi impropri o molto personali, a chi vuoi che importi?
Ecco perché sono convinto davvero che ci voglia una flotta di “ballon d’essai” da far volare, per provare a vedere cosa succede se si fa qualcosa fuori dalle “regole assegnate a questa parte di universo”, se si osa andare in direzione “ostinata e contraria”, insomma, se si fa di testa propria.
Sia chiaro: magari il risultato finale farà davvero schifo, a me è capitato e capita spesso. Ma sai come si dice? Dai successi non si impara niente, dagli errori si impara tutto. Ogni volta che fallisci conoscerai una strada che non porta da nessuna parte. E aggiungo: a distanza di tempo quelli che sembravano errori mi son tornati utili per sviluppare nuove tecniche, nuove modalità di ripresa.
Pensa solo – per fare l’esempio forse più conosciuto – alle solarizzazioni (anzi pseudosolarizzazioni o effetto Sabattier) di Man Ray, nate per un errore del suo assistente che aveva acceso la luce durante lo sviluppo di una foto.
Ma in tempi più recenti – e tecnologici – sono diventati progetti fotografici i file corrotti dovuti a errato trasferimento dei file dalla scheda al computer (pensa che colpo scoprire che le proprie foto sono andate perse… ma poi rendersi conto che sono più “fighe” ridotte a cumuli di pixel senza capo né coda) o gli HDR realizzati non con tre foto dello stesso soggetto ripreso con diverse esposizioni, ma con tre foto del tutto diverse, o lo “stitching” digitale non di foto panoramiche ma di foto qualsiasi.
Hai mai provato? Male!
Ti faccio vedere i miei risultati ottenuti prendendo alcune foto del tutto “casuali”, cioè non connesse tra loro da un contenuto specifico. Le foto sono quelle qui sotto.
C’è una foto di riflessi sull’acqua,la vetrata di una palestra, una scena di campagna e dei palazzi di città, una scena di “street” con macchina rossa e una con albero e palazzi.
Ora pensa di darle in pasto ai software (ho utilizzato Affinity Photo e Zoner Photo Studio) sfruttando gli automatismi. Ovviamente ti compariranno un sacco di “alert”, ma tu ignorali e vai avanti. Vediamo un HDR realizzato con la foto della palestra e del riflesso sull’acqua.
Ti dirò: il risultato mi piace molto! Vado avanti, oso di più: sfrutto i palazzi e per coerenza ci metto dentro le altre foto di tipo “urbano”. Vien fuori un’immagine HDR stranissima, quasi un fumetto, eppure potenzialmente utile per magari dei progetti futuri, non trovi? Un “ballon d’essai” niente male.
E niente, oramai son preso da questa furia sperimentale, lancio palloncini a tutto spiano. Provo con “sovrapponi per ridurre rumore” in Zoner e uso ancora la foto dei riflessi, quella della campagna poi inserisco una foto ulteriore di acqua in una fontana. Beh, anche qui c’è materiale su cui lavorare.
Mi sono divertito un po’, si tratta di semplici esperimenti fatti per gioco, ma spero tu abbia compreso cosa intendo dire. Quando sei davanti degli automatismi non dar retta alle istruzioni: fai l’opposto o l’improbabile, e vedi che succede. E’ il modo migliore, tra l’altro, per imparare a utilizzare i software, perché ci si diverte e non ci si annoia.
Ma oltre ai softwares ci sono naturalmente anche le tecniche “creative” più tradizionali, e anche qui bisogna lanciare palloncini. Pensa a quanto liberatorio e foriero di belle possibilità creative è il mosso: un sacco di fotografi realizzano foto ICM (Intentional Camera Movement) in verticale o in orizzontale. Chissà quanti si saranno chiesti: ma che succede se muovo la fotocamera con moto sussultorio, a spirale, in cerchio, se la lancio per aria, la faccio ruotare su se stessa o se magari sovrappongo tre-quattro foto mosse? Non chiederlo a un esperto, invece lancia il tuo “ballon” e prova!
Provare, sperimentare, osare! Non per un fine, ma solo per vedere che succede. E’ per me la cosa più bella della fotografia. Dico sul serio: di gran lunga la più bella. Non debbono per forza essere foto “utili”, ma so per certo che alla fine a qualcosa serviranno, o direttamente – perché magari ci ispirano un progetto specifico – o indirettamente, perchè attraverso di esse scopriremo nuove possibilità a cui non avevamo pensato prima.
Crea una cartella sul tuo desktop e chiamala, ad esempio, “esperimenti” o “Frankestein” o “mostri fotografici”, come ti pare. Io ti consiglio proprio “ballon d’essai” con questo musicale termine francese. E vola alto.
Come le vere piccole mongolfiere di prova d’un tempo, i ballon d’essai ti indicheranno delle direzioni, se non del vento certo per la tua creatività…