Foto di paesaggio: il metro che fa la differenza

Cos’è un paesaggio? Me lo sono chiesto giusto l’altro giorno mentre, durante una passeggiata, un muro scrostato ha attirato la mia attenzione.

Era così tanto tempo, troppo, che non ci riflettevo più. Ci voleva un vecchio muro per spingermi a farlo di nuovo.

Una volta, cercare di comprendere i limiti del concetto apparentemente semplice di paesaggio, almeno nel campo fotografico, era la mia passione.

C’è chi ci mette dentro le foto di architettura, i paesaggi urbani e quelli naturali, chi ci include anche certe foto elaborate e quasi astratte, realizzate muovendo ad arte la fotocamera, o anche collage digitali e molte altre cose, tra loro diverse e incongrue.

Se uno ci pensa, esiste anche un paesaggio interiore, fatto di sensazioni e idee, e per rappresentarlo bisognerebbe superare i limiti di un genere predefinito.

Per tutta la mia vita professionale, oltretutto, io avevo incluso nel genere fotografico che praticavo solo paesaggi naturali o al più paesaggi urbani. Insomma, quelle che nell’Ottocento si sarebbero dette “vedute”.

Ma negli ultimi tempi, quei limiti mi erano sempre più sembrati angusti, e difficili da giustificare. Perciò ero e sono alla ricerca di nuove frontiere.

E ora avevo un’occasione di indagine proprio lì, dinanzi ai miei occhi.

Il muro era coperto di intonaco sporco e scrostato. Era del tutto evidente che per anni si era provveduto a ridipingere la parete lasciando, sotto, la vernice vecchia.

Strato dopo strato, colore dopo colore, si era venuta a creare una tavolozza ideale per il sommo artista, il tempo che, aiutato dal suo fedele assistente, l’incuria, aveva creato un incredibile insieme di forme e tonalità che poteva sembrare solo sporco, ma che invece aveva un senso, se uno guardava bene.

No, anzi, non se uno guardava bene, ma se uno iniziava a vedere, a non lasciarsi condizionare dalla razionalità, consentendo al subconscio di andare a pescare – nell’infinito archivio che ha a disposizione – le immagini che sono necessarie al riconoscimento in un apparentemente informe insieme di macchie, delle immagini compiute, e colme di senso.

Un racconto, addirittura.

Mi ricordai di quella volta in cui, con gli amici, ero andato a fare campeggio libero in montagna. La sera, intorno al fuoco, avevamo scherzato e raccontato storie vagamente horror, così, tanto per giocare a spaventarci. E dopo, prima di ritirarmi in tenda per dormire, ero andato a lavarmi giù al torrente, passando per un breve tratto nel bosco oscuro.

Lo vidi così diverso da come lo avevo visto in pieno giorno! Ora appariva popolato di presenze, di forme misteriose, che si agitavano se colpite dalla luce bluastra della lampada led. Un profondo senso di inquietudine si impossessò di me.

Non c’era verso di ricondurre il tutto alla razionalità: istintivamente, vedevo gnomi, mostriciattoli, demoni e tutto un mondo pauroso e sconosciuto dietro ogni tronco, nell’intrico dei rami e tra le erbe alte.

Mi lavai in fretta e tornai di corsa alla tenda, inseguito dai miei fantasmi. Fu in quell’occasione che per la prima volta mi resi conto che senza dubbio noi non vediamo davvero con gli occhi, ma con la mente.

E in fondo, è su questo che si basa tutta l’arte, sul far vedere allo spettatore le cose secondo i suggerimenti dell’artefice, magari tracciati su una tela, o in una fotografia. Non la realtà (che tanto è impossibile) ma una sua interpretazione.

Così, mi sembrò di vedere, di vedere davvero, in quel piccolo riquadro di muro che ora avevo davanti, paesaggi esotici e lontani e carovane di uomini che l’attraversavano. Un deserto forse, con picchi aguzzi, segno di antiche montagne oramai disgregate. O forse una sorta di Monument Valley, con indiani a cavallo, ancora padroni del loro Far West.

In un altro punto la tinta di fondo, vagamente bluastra, pareva un cielo malato, solcato da stormi di uccelli neri, di corvi, o avvoltoi chissà. Forse laggiù, dietro l’orizzonte basso, c’era stato un agguato, e i cadaveri al sole attiravano gli spazzini della natura.

Wounded Knee, mi venne da pensare. Ecco come avrei potuto intitolare quella foto fatta di pura immaginazione. Oppure fiume Sand Creek, quello cantato da De André, in fondo al quale dormono i bambini della strage, sotto un cielo sanguinante perché colpito dalla freccia scagliata in un gesto di rabbia.

A volte, riflettei, ci vuole davvero poco per immaginare mondi, e per vederli con gli occhi della fantasia concretizzarsi davanti a noi. A volte possiamo addirittura fotografarli.

Dovremmo sempre ricordarci che ambiare prospettiva, anche di poco, è spesso fondamentale.

Secondo il poeta romantico Samuel Coleridge se ti sposti di un passo, cambia tutto, davvero. Devi solo provarci, e vedrai. Cambiare prospettiva è qualcosa che può modificare totalmente la tua percezione della realtà.

Immagina di essere sul bordo di una scogliera, e di guardare il mare. Di fronte a te, la vastità dell’oceano, chiusa in parte, sulla destra, da un promontorio. Lontana, sfumata dalla bruma, si intravede un’isola. Una barca a vele spiegate traversa la scena. Tu sei lì e hai la percezione completa di questa scena e dato che sei un tipo prudente ti terrai certamente a una certa distanza dal bordo della scogliera. Non vorrai certo precipitare giù, no? Meglio non rischiare.

Ecco dunque che un tratto di terra ed erba chiude il tuo sguardo in basso.

E’ la situazione in cui si trova la maggior parte della gente: si ferma al primo sguardo, alla prima sensazione, alla prima impressione. Quella sicura, priva di rischi, ma tutto sommato soddisfacente.

La tua opera, che sia un dipinto o una fotografia, apparirà esattamente per come tu l’hai vista ma soprattutto sentita: il frutto di una posizione comoda e sicura, quella che molti altri avranno magari visto e rappresentato.

Ora però immagina di fare solo due passi avanti. Solo due passi. Accidenti, cosa sono due passi? Poco più di un metro, no? Non rappresentano una distanza importante, un gran viaggio. Costano una piccolissima fatica, un niente!

Eppure, facendo questi soli due passi tu raggiungerai il bordo della scogliera, e vedrai giù. Che cosa ci potrà mai essere laggiù?

Una spiaggia con una donna che passeggia pensierosa? O il mare ruggente che si frange rabbioso contro gli scogli neri? Tutto un mondo, comunque, che senza quei due passi non avresti visto!

Se vuoi uscire dagli schemi, devi costantemente cambiare prospettiva. Anche di poco. Fallo, e imparerai che esistono mille mondi diversi, uno a ogni passo che farai!

Potrei farti mille altri esempi: basta che il tuo sguardo sia limitato da qualcosa, e quasi sempre lo è, ed ecco che spostarti di poco ti apre giocoforza nuove prospettive.

Se guardi fuori da una finestra, anche il semplice ondeggiare sulla due gambe ti rivela dettagli altrimenti invisibili, e pensa all’esperienza di stare in un bosco: un passo, e ti si para davanti un tronco, che chiude una parte del tuo campo visivo, ma forse te ne schiude un altro, a cui non avevi pensato.

Cammina, muoviti, e guarda le cose da punti di vista anche solo appena diversi.

Come fotografo paesaggista conosco molto bene l’importanza e il potere di scegliere un punto di vista, e l’inquadratura giusta.

Se voglio guidare lo spettatore dentro la foto, posso fare in modo di inserire un primo piano interessante, qualcosa che serva da invito per lo sguardo a entrare; viceversa, se voglio che l’attenzione vada subito a qualcosa che si trova sullo sfondo, posso creare una sorta di cornice o finestra naturale, che impedisca allo sguardo di divagare. Son cose che tanti fotografi conoscono e utilizzano.

A un certo punto mi son reso conto, però, che a volte tutto questo è frutto di “mestiere”, di esperienza, che a volte manca quella freschezza di cui parla Coleridge, quel piccolo passo avanti, o indietro, per vedere le cose da una prospettiva diversa.

Non che eviti di scattare le cosiddette “varianti”: se il soggetto è buono, realizzo tante foto. Ma alla fine, si tratta solo di aggiunte, la foto finale è comunque quella a cui avevo pensato appena mi son trovato nella condizione di percepire la scena davanti a me.

Lo spostamento c’è, fisicamente, ma non è davvero un cambio di prospettiva.

Proprio così: Coleridge non parla soltanto di semplici passi fisici, i passi sono anche mentali, spirituali se vogliamo.

Per questo ho cominciato ad allontanarmi dai soliti sentieri battuti: a volte ci riesco, a volte no, ma sempre mi sforzo di farlo.

Non si tratta, attento, di trovare una tecnica o un modo per essere totalmente originali. La tecnica è niente, non ha alcuna importanza o potere, senza la piena consapevolezza.

Si tratta, invece, di trovare la propria strada, il proprio modo di esprimersi, riconoscendo a noi stessi la capacità di emozionarsi di fronte qualsiasi situazione, e qualsiasi paesaggio.

Anche quello appena accennato e totalmente astratto che vien fuori da un muro scrostato!

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