Fotografia e Ambiente

I molti problemi creati dai mutamenti climatici, stanno giustamente portando molte persone a dedicare sempre più attenzione alle questioni ambientali. Possiamo noi fotografi restarne fuori? certo che no!

So che sono questioni anche controverse, ma vorrei comunque fornire qualche spunto di riflessione, poi ognuno farà liberamente le proprie scelte, tornando in pratica ad approfondire alcune considerazioni fatte con il post precedente.

Nato nel 1912 (e morto nel 2009), Arne Naess è stato uno dei maggiori filosofi (e alpinisti) norvegesi, ideatore della cosiddetta “Ecologia Profonda” (DeepEcology) che non cerca soluzioni facili (e spesso inefficaci) ai problemi ambientali, ma ricerca un cambiamento nel pensiero e nei modi di vita che si adattino ai ritmi del pianeta, per consentirne la sopravvivenza.

Per la cosiddetta “ecologia superficiale” il metro di riferimento è sempre l’essere umano: dobbiamo avere atteggiamenti meno impattanti per salvare noi stessi. Per l’ecologia profonda, invece, occorre salvare tutte le forme di vita e gli ecosistemi e questo di conseguenza porta alla sopravvivenza della nostra specie. Noi non siamo il metro di tutto, la natura lo è. Per salvare il mondo non possiamo solo “fare i bravi”, dobbiamo cambiare completamente approccio, e anche il sistema economico e sociale.

Leggendo il libro di Naess “Siamo l’aria che respiriamo” mentre mezzo mondo annaspa nella siccità (e un’altra metà combatte con le alluvioni) mi sono reso conto che il filosofo norvegese è stato un inascoltato profeta. Già negli anni in cui scriveva i suoi saggi (tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’90) si sono presentate tangibili evidenze dei mutamenti che il pianeta stava subendo, a cui – allora come oggi – si opponeva una stolta fiducia nella tecnologia (eccola, l’ecologia superficiale!) che avrebbe risolto magicamente ogni problema.

Le magnifiche sorti e progressive, insomma.

Il messaggio di Naess era ed è chiaro: ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, fare pressioni affinché cambi profondamente l’approccio sia politico che economico alle questioni ambientali, che dovrebbero essere prioritarie su tutto, ma anche cambiare l’atteggiamento personale, che poi finisce per influenzare il “mercato”.

Cos’ha a che fare questo con la fotografia?

Potremmo dire che come fotografi abbiamo un potenziale duplice ruolo: da un lato quello di essere testimoni delle questioni legate ai mutamenti climatici e alle questioni ecologiche in generale, dall’altro scegliere di essere più parsimoniosi e oculati nelle nostre stesse scelte di acquisto.

Ora, se progettare veri e propri reportage su tematiche ambientali – ad esempio raccontando lo sciogliersi dei ghiacciai – può essere considerato qualcosa di stimolante e creativo, insomma qualcosa di piacevole, evitare di cadere nella GAS (Gear Acquisition Syndrome, Sindrome dell’acquisto compulsivo) o comunque ridurre il proprio impatto ambientale come consumatori di prodotti elettronici è decisamente più complicato. Un fotografo utilizza strumenti altamente tecnologici: fotocamere digitali o analogiche (e dunque pellicole e sviluppi), obiettivi dotati di vetri per la cui realizzazione si utilizzano risorse preziose (come le terre rare) e molta energia, computer e monitor, oltre a batterie di ogni tipo. Un bel po’ di roba a notevole impatto ambientale!

Chi si è mai posto il problema dell’impronta ecologica della fotografia?

In verità la questione è stata già sollevata nel passato recente. In un articolo del 2020 su Jumper.it, ad esempio, Luca Pianigiani scriveva: “una politica ambientalista nella produzione fotografica potrebbe essere un approccio da prendere in considerazione: la meravigliosa luce naturale (che belle le nuove fotocamere che hanno sensori in grado di riprendere quasi al buio con risultati incredibili), meno viaggi che creano grandi emissioni di CO2, questo per esempio significa usare una bicicletta invece che un’automobile, e questo porta ad avere delle attrezzature leggere, semplici, facilmente trasportabili senza casse e valigione. E, per estremizzare, significa scattare meno: ogni immagine occupa spazio, sui computer, poi sui server, che hanno bisogno sempre di più di alimentazione, ma il tema è ancora più profondo: dobbiamo comprendere (possiamo farlo, se ci impegniamo) che “tanto è peggio di poco”, che meno si produce  (anche se “virtuale” perché non c’è nulla di virtuale: i dati sono reali, occupano spazio, hanno bisogno di reti per essere trasmessi, “pesano”… smettiamola di credere che siano privi di una “fisicità”) e meglio sarà il prodotto che offriremo: vince il minimalismo, non l’abbondanza, la selezione e non l’eccesso, la sintesi e non l’essere prolissi”.

Parole che mi rinfrancano: non sono l’unico “pauperista” in campo fotografico (con riferimento al post di due settimane fa)!

In queste considerazioni c’è già un po’ tutta quella che potrebbe essere la nuova modalità di intendere la fotografia professionale (perché di quella si occupano Pianigiani e Jumper), sebbene la stessa logica si possa applicare a quella amatoriale.

D’altra parte occorre anche osservare che il mercato della fotografia sta cambiando molto e in verità il settore delle fotocamere è in netta crisi: c’è stato un calo delle vendite del 40% e oggi solo Canon e Sony (che da soli rappresentano il 70% del mercato) riescono a rendere più o meno redditizio il loro impegno nel settore. Nikon, che un tempo era il numero uno, oggi naviga in bruttissime acque con appena il 14% del mercato.

Tutta questa fuga dal settore fotografico è andata a vantaggio dell’industria degli smartphone, che oramai sono lo strumento fotografico ampiamente predominante. Gli smartphone, a differenza delle fotocamere, vengono sostituiti molto più spesso (la media negli USA è di 26 mesi!) e sono un problema ambientale enorme: la loro produzione è fonte di squilibri geopolitici (soprattutto per l’estrazione di terre rare e del Coltan in particolare), di sfruttamento delle popolazioni, origina guerre e inquinamento delle acque e dell’aria.

Come scrive il sito Green.it, “l’estrazione dei metalli preziosi – un cellulare attualmente contiene circa 60 materiali diversi – oltre che essere molto spesso inquinante per l’ambiente circostante, è caratterizzata talvolta da condizioni di lavoro disumane. Oltre a questo, poi, il controllo delle miniere è uno dei motivi principali dei continui conflitti armati che sconvolgono luoghi come la Repubblica Democratica del Congo. Ma non è tutto qui: anche gli stadi successivi della produzione degli smartphone nascondono delle minacce per la salute umana, con l’esposizione degli operai a pericolosi agenti chimici”.

Eppure non esitiamo un attimo a passare da un modello recente a uno ancora più nuovo, e questo non perché quello che abbiamo sia davvero obsoleto (cioè non più in grado di fare quel che ci serve) ma solo per il desiderio di avere la “novità elettronica”. Un desiderio che prende la forma evanescente del “bisogno”, che è un inganno bello e buono, spesso indotto. Tutti ci siamo cascati, volenti o nolenti. Mandiamo in malora il pianeta per qualche megapixel in più – dato che come fotografi è questa la caratteristica che ci attira maggiormente – sebbene serviranno comunque a fare le stesse foto scadenti (e non per colpa dello smartphone) di prima.

E’ vero che stanno partendo progetti di recupero e riciclaggio, ma è anche vero che occorre cercare soprattutto di ridurre l’impronta ecologica di tutte le merci, e dunque anche dei nostri amati “device”. In un capitolo del suo libro Arne Naess fornisce alcuni consigli su come riorientare in senso ecologico profondo la propria vita. Non li riporto tutti, solo quelli che possono essere utili al fotografo, con un mio commento.

1 – “Utilizzo di mezzi sempliciEvitare strumenti complicatinon necessari e simili”. Quanti di noi hanno fotocamere che sono ben superiori alle proprie necessità? Pensaci: avere fotocamere che producono file pesanti significa dover acquistare computer più potenti, Hard Disk più capienti, obiettivi e accessori più complessi. Come scrive Pianigiani su Jamper, è una pia illusione credere che una foto digitale non sia “corporea” e non consumi risorse. Come è un’illusione credere che Internet stesso (meta finale di gran parte delle fotografie scattate) non assorba enormi risorse energetiche: la sola gestione dei Bitcoin (nemmeno l’unica struttura a utilizzare le blockchain) richiede 80 Terawatt/ora, con un consumo annuale di energia pari a quella di una nazione come il Cile o La Nuova Zelanda! La Rete Internet è la quarta “nazione” al mondo per consumo energetico, assorbe il 7% di quella prodotta a livello globale, introducendo in atmosfera quasi 11 miliardi di tonnellate di CO2. Da solo lo streaming video immette 300 milioni di tonnellate di gas serra, e la fotografia non è distante da queste cifre. Condividere meno fotografie online, utilizzare più accortamente i Social, porterebbe a una riduzione delle emissioni “avvertibile”, insomma significativa.

Ma non è solo questo: anche evitare continui “upgrade” delle fotocamere è importante. Se pensi che l’intero settore della fotografia analogica oggi vive ricorrendo all’usato, visto che non si producono più fotocamere a pellicola, ti renderai conto che alla fine rimettere sul mercato fotocamere non più in uso rappresenta una scelta in grado di sostenere le esigenze di molti fotografi e ridurre – e di molto – l’inquinamento complessivo. Ci sono milioni di fotocamere ferme nelle case delle persone che potrebbero tornare sul mercato e trovare nuova vita, e lo stesso vale per gli smartphone. Ci sono siti, come ReBuy, che garantiscono l’usato e ne specificano il risparmio ambientale. Dal punto di vista tecnologico, le fotocamere anche di dieci anni fa hanno prestazioni ampiamente sufficienti per la stragrande maggioranza degli utilizzi!

2 – “Preferire laprofondità e laricchezza dell’esperienza piuttosto che l’intensità”. E questo secondo me ha anche un riferimento alle scelte tecniche che si fanno. Riuscire a realizzare le foto notturne con tutte le stelle in cielo, o certe immagini complicatissime, richiede un grosso investimento economico in fotocamere performanti e ottiche di alta qualità. Non a caso nelle pubblicità è su questo che si insiste molto. Ma davvero sono fotografie utili, interessanti e buone? Davvero vale la pena utilizzare risorse importanti (e parlo dell’impatto complessivo, compresa la messa in rete sui Social) per l’ennesima fotografia “spettacolare” dell’islanda o delle Dolomiti di Brenta? Davvero in quel momento non è l’impegno tecnico a prevalere piuttosto che quello meramente esperienziale? Personalmente, nel corso del tempo, mi sono reso sempre più conto di quanta importanza abbia invece la fotografia semplice, senza fronzoli, che nel momento in cui la si realizza consente di concentrarsi solo sull’esperienza che si sta facendo, che non metta in mezzo vincoli tecnici di chissà quale complessità. E’ la fotografia che ha dominato la nostra arte per oltre un secolo, e che oggi sembra venir dimenticata. Per questo chi guarda a una foto di Guido Guidi o Luigi Ghirri le trova “banali” e poco interessanti, quando invece sono la prova di quanto quel che conta davvero sia lo sguardo, non la tecnologia fine a se stessa.

3 – “Sforzarsi di condurre una vita complessa – non complicatacerca di realizzare quanti più aspetti possibili di esperienze positive in ciascun intervallo di tempo”. La fotografia deve essere un amplificatore delle esperienze nel momento in cui sono vissute, non essere l’esperienza in quanto tale, quasi a prescindere da ciò che si sta fotografando. Occorre partire dal vedere davvero il soggetto, fotografarlo nel modo più semplice possibile e lasciarsi coinvolgere da tutta l’esperienza, nel suo compiersi. Vedo sin troppi fotografi che pensano solo alle giuste regolazioni della propria fotocamera invece di perdersi a guardare come suggeriva Jodice. Una foto deve cambiare il tuo modo di percepire il mondo – anche se di pochissimo – altrimenti è inutile.

4 – “Tentare di vivere nella natura piuttosto che limitarsi a visitare posti belli”. Anche in questo caso la questione è spinosa: per troppi fotografi il gesto di scattare una foto è legato al viaggio, se non al turismo. Invece frequentare la natura più prossima o comunque i luoghi in cui viviamo è di fondamentale importanza per realizzare fotografie davvero significative. Il turismo poi – specialmente quello realizzato con aerei e navi da crociera – rappresenta un potente attacco all’ambiente e agli ecosistemi. Forse non ci si pensa mai abbastanza. Ci sono luoghi che hanno subito un pesante impatto ambientale solo per la voglia dei fotografi di fare – per l’ennesima volta – quella foto così bella!

So che magari potresti trovare il post esagerato. Tuttavia sentivo il bisogno di esprimere queste idee, e proprio in questo momento storico, in cui il tempo stringe. Da sempre ho cercato di avere un atteggiamento “a basso impatto ambientale”, ovviamente con le mie incoerenze, e anche qualche ipocrisia, che Naess stesso riteneva inevitabili visto che siamo umani e viviamo in una società che ti spinge sempre nella direzione del consumo.

Ma credo anche che sia proprio nell’avere la mente pronta a valutare la portata delle proprie azioni – accettando gli inevitabili errori – che sta il valore dell’ecologia profonda. Senza inutili sensi di colpa e autoflagellazioni, porsi sempre nella condizione di attribuire le giuste priorità nella nostra vita, questo è importante. A cominciare appunto dalla nostra amata fotografia.

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