
Quando parliamo di “fotografia emozionale” e cerchiamo di declinarla nell’ambito dei grandi Autori, beh, finiamo sempre per accettare il fatto che solo gravi momenti di crisi possano fornire immagini adeguate alla bisogna.
Che Walker Evans o Dorothea Lange – come altri fotografi che collaborarono con la FSA – siano noti per le loro commoventi fotografie di gente disperata, povera, stracciona, lo si deve alla Depressione, che di fatto ho creato le condizioni stesse affinché si mettesse mano al grande archivio diretto poi con piglio dittatoriale da Roy Stryker.
E una gran parte delle fotografie “da colpo al cuore” (o “pugno allo stomaco“) sono state realizzate da quelli di Magnum – tra gli altri – nelle guerre che da sempre insanguinano mezzo mondo.
In generale, dove c’è una crisi c’è – almeno c’era – un fotografo. Perché la possibilità di realizzare scatti epocali, che si facciano ricordare a livello profondo, inevitabilmente è legata a due condizioni essenziali: che ci sia una situazione di pericolo, morte e distruzione e che tale situazione riguardi direttamente gli esseri umani. Se bambini, meglio. Se donne, bene. Se uomini, è preferibile che siano anziani. Al limite, che almeno appaiano disperati. Non c’è in questo nulla di strano. La fotografia funziona come un referente preciso della realtà, è la sua “natura indicale” a determinarlo, perciò risulta essere per davvero un “equivalente” di ciò che ritrae. Insomma, fa scattare i nostri “neuroni specchio”, ci spinge all’empatia, soffriamo se vediamo soffrire, piangiamo se vediamo piangere.
Se immaginiamo un potenziale elenco dei capolavori della fotografia (ce ne sono diversi online) possiamo approfondire la nostra analisi. Ne prendo uno a caso “googlando” su Internet. Al primo posto scopro il famoso “bacio” all’Hotel de Ville di Robert Doisneau. Bene: l’amore è sempre l’amore, anche se la foto è “costruita”.
Vedo poi nell’elenco la foto della bambina scheletrica con dietro l’avvoltoio scattata da Kevin Carter in Sudan, nel 1993. Una foto che una volta vista non la dimentichi più. Piena di rimandi e in grado di scuotere anche il più sociopatico degli spettatori. Per la cronaca: la bambina poi si salvò, invece il fotografo no, poco tempo dopo si suicidò.
Come potrebbe poi mancare l’afghana dagli occhi verdi di McCurry? Una foto davvero “usurata” dalla sovraesposizione mediatica, ma sicuramente notevole. Oppure una foto non tanto “autoriale” quanto storica – e di certo riuscita – come il “Tank Man” di Jeff Widener, dove si vede un omino solitario fermare una colonna di carri armati in Piazza Tienanmen durante la nota protesta del 1989. O anche un altro bacio, quello tra un marinaio e un’infermiera nel “V-Day” (14 agosto del 1945) a Times Square, scattata da Alfred Eisenstaedt.
O la bambina bruciata dal napalm in Vietnam (1972), opera di Nick Ut.
E avanti così: altri siti, altri elenchi, sempre foto del genere, però, con poche eccezioni. Foto che ci mostrano “La banalità del male” per mutuare il titolo del noto libro di Hannah Arendt che parlava di tutt’altro: comunque, ci sono tra le fotografie “che hanno fatto epoca” anche quelle riprese nei campi di concentramento o quelle degli scenari di guerra legati appunto alla furia del nazismo, ad esempio quelle di Margareth Bourke-White.
E in effetti all’elenco possiamo aggiungere anche foto non direttamente riprese sul campo di battaglia, come la foto di Joe Rosenthal del 1945 con la bandiera USA alzata a Iwo Jima da un gruppo di Marines, ma che alla guerra fanno riferimento ed emozionano magari in senso positivo, come sempre quando un incubo finisce. Se si sta dalla parte del vincitore, la vittoria è sempre un’emozione grande.
Non è facile ottenere gli stessi risultati emotivi fotografando altri soggetti, dai paesaggi agli edifici, agli still lifes. Questo spiega perché, se si chiede a chiunque (diciamo a chiunque mastichi un po’ di fotografia) di indicare quali siano i “capolavori” che ritiene più potenti ed emotivamente riusciti i più indicheranno qualche scatto dello sbarco in Normandia di Capa, o la “Migrant Mother” di Dorothea Lange o il soldato sotto choc di McCullin. Ci sta.
Magari potrebbe pure uscir fuori che qualche foto di Basilico realizzata in Libano o un’immagine di Ghirri persa nella nebbia rientri nella categoria. Ma poca roba. Sia chiaro, non parliamo di foto famose, riuscite, efficaci e così via: di quelle ce ne sono molte in ogni campo della fotografia, figuriamoci. Parlo di quelle foto che le persone considerano indimenticabili, appunto. Che se le guardi ti scappa la lacrimuccia, sniff!
Perché ci emozioniamo tanto dinanzi a certe immagini e restiamo freddini, o al più facciamo lavorare il senso di “ammirazione” e “piacere estetico” ma non quello emozionale dinanzi ad altri tipi di foto?
Probabilmente qui dovremmo distinguere tra un approccio alla fotografia di tipo meramente emotivo, come abbiamo visto, e uno più intellettuale, sebbene magari anche più profondo. Ci sono numerose tipologie di fotografia che non possono essere “lette” rimanendo sulla superficie. Se pensiamo a una foto di nudo, ad esempio, è evidente che ci sono diversi livelli di approccio. Se la modella è donna e piacente, un uomo potrebbe trovare piacevole quel che sta guardando. E’ questo che l’autore voleva? Anche qui: magari l’amatore che partecipa a un workshop con modella a disposizione punta a solleticare l’innato voyeurismo dello spettatore, mentre un “Autore” utilizza il nudo per dire altro.
Ma questo altro non colpisce immediatamente le nostre emozioni più profonde, non solletica la nostra umanità, non ci costringe a riflettere. Figuriamoci se fotografiamo delle montagne o dei palazzi in vetro-cemento, oppure dei vasi di fiori! In verità, se si è accorti, questi generi fotografici possono dire molto. Arrivo a sostenere, provocatoriamente, addirittura di più di certe fotografia che “colpiscono basso”, il loro problema è però che richiedono tempo per essere comprese.
Ecco, il tempo di lettura di una fotografia è esattamente quel che ci manca. Almeno, manca a tante persone. Se guardiamo la citata “Migrant Mother” della Lange, è ovvio che possiamo fare tante osservazioni interessanti, e se allarghiamo lo sguardo all’intera serie di foto scattate a Florence Thompson la nostra indagine può rivelarci ancora altre cose, sia dal punto di vista strettamente fotografico che da quello sociale e culturale. Tutto molto bello.
Però la gran parte delle persone guarda la foto e basta. E rimane colpita dallo sguardo della donna e dai due bambini di spalle. Prova empatia, parteggia per gli sconfitti. L’approccio è immediato, efficace, diretto. Inevitabile. La Lange ha scattato tantissime altre foto, ma solo due o tre sono davvero conosciute.
In fondo, chi non è appassionato di musica Rock quanti brani conosce di “The dark side of the moon” dei Pink Floyd a parte “Money” (o al più “Us and Them“)? Una canzone che abbia la capacità di farsi ascoltare e magari canticchiare resta impressa e diventa la colonna sonora delle persone, e questo anche se il muiscista ne ha magari realizzate centinaia anche migliori. Vale lo stesso per i fotografi.
Difficile prevedere quando una foto possa diventare davvero un “capolavoro” o un punto fermo nella storia della nostra arte, quel che sappiamo è che capita di rado, e quasi sempre con soggetti in cui le persone si riconoscono. Far emozionare con soggetti non umani è complesso, davvero difficile. Ad Ansel Adams, per dire, è riuscito poche volte (“Clearing Winter Storm“, o la foto dello Snake River, o la luna su Hernandez), e parliamo di un vero campione, in questo specifico settore. E sembra che stia diventando sempre più difficile.
Di tutte le foto che ho citato non ce n’è nemmeno una che sia davvero recente, sono tutte del passato, tutte analogiche. Forse la fotografia, nel suo complesso, non è più in grado di commuovere, di scatenare i neuroni specchio, di colpirci al cuore (allo stomaco è più facile) come sapeva fare un tempo? E’ diventata troppo intellettuale e solo pochi reporter riescono oggi a creare progetti davvero emotivi?
Chissà, dovrò ancora rifletterci su!