Oui, Je suis paupériste! – Il fotografo pauperista

Ricordo che molti anni fa lessi un’intervista – su una rivista americana – di un grande fotografo che raccontava come, all’inizio della sua carriera, avesse ben presto compreso che per fare il fotografo doveva far proprio il detto “ci sono due modi per essere ricchi: avere di più o desiderare meno“. Fare il fotografo significava desiderare meno, senza dubbio!

In realtà, lo sappiamo, ci sono fotografi che per varie contingenze familiari (insomma: vengono da famiglie benestanti), per indubbie capacità personali (soprattutto imprenditoriali) o anche per l’esser davvero bravi a vendere se stessi, di sicuro non vivono male, anzi diciamo pure che con la fotografia hanno guadagnato bene. Ma a dirla tutta è più l’eccezione che la regola.

Comunque, quella intervista mi è rimasta impressa. Preferivo non avere certezze economiche ma fare il fotografo, e questo sin da subito ha significato fare numerose rinunce in altri campi. Insomma, i miei amici che avevano un regolare contratto di lavoro e dunque contavano su uno stipendio fisso si potevano permettere fotocamere (grazie al miracolo della rateizzazione) che io invece potevo solo sognare, nonostante il fotografo professionista fossi io!

Ma mi rifacevo abbondantemente quando giravo fotografando mentre loro restavano chiusi in ufficio. La vita è fatta di scelte. Posso affermare che ne è sempre valsa la pena: nessun ripensamento, sin dal primo giorno in cui diedi le dimissioni dal “posto fisso” per buttarmi senza rete nel mondo della fotografia. Ma di certo per le considerazioni di cui sopra, e per lunga abitudine, alla fine sono diventato un fervido pauperista.

I Pauperisti, nel Medioevo, erano i frati (come i Francescani) che predicavano la povertà come scelta. Se la miseria è qualcosa che ti capita tra capo e collo, non vai di sicuro a cercartela, la povertà è la sua cugina nobile. Il povero è una figura eroica, è un uomo che sa rinunciare al superfluo.

Mentre lavoravo ancora in ufficio, ricordo che lessi avidamente Erich Fromm e il suo “Avere o Essere?”. Sapevo quel che mi aspettava e volevo essere pronto, probabilmente. Ma non solo. E’ che viviamo in un mondo che sta andando a rotoli per la nostra smania di “avere per essere”, visto che non riusciamo a essere e basta: essere ciò che desideriamo, seguire le nostre aspirazioni, trovarsi “in una condizione di gioia” in cui “si usano le proprie facoltà in maniera creativa, si è tutt’uno con il mondo“.

Non si tratta certamente di mettersi un saio e andare scalzi di porta in porta a chiedere l’elemosina, semplicemente “l’esistenza umana esige che si abbiano, si conservino, si usino e ci si curi di certe cose allo scopo di sopravvivere“, insomma una forma di avere che il filosofo definisce “esistenziale”, ma il resto è spesso superfluo, serve solo ad affermare il nostro stare al mondo. Consumo ergo sum. Non ci definiscono tutti “consumatori”? Ecco, io detesto questo aggettivo. Io utilizzo le risorse necessarie, evito di consumare e basta.

Se ci pensiamo, potremmo vivere – e bene – senza tante cose (sottolineo “cose”) che la società consumistica ci mostra invece come indispensabili.

Come scriveva il grande Goethe, “io so che nulla mi appartiene al mondo / fuorché il pensiero, flutto imperturbato / che vuol sgorgare dall’anima mia / e ogni istante giocondo / in cui benigno un fato / di goder mi concede dal profondo“. Siamo quel che pensiamo, non quel che acquistiamo.

Comunque, so bene che simili ragionamenti – che in questo blog ho affrontato più volte – riscuotono poco successo. I fotografi amano sentirsi dire perché dovrebbero passare a una fotocamera più moderna e performante, e come usarla al meglio, non certo di soprassedere e invece concentrarsi su quel che si ha da dire e come farlo. Ad esempio mi chiedono avidamente quale modello comprare per ottenere certe fotografie e ci rimangono male quando gli rispondo che non ha alcuna importanza quale fotocamera, conta solo il fotografo!

In fondo all’inizio era così anche per me, e dunque non c’è niente di strano. Ma ci tenevo a sottolineare ancora una volta come un approccio pauperista porti non solo a evitare di mettere al centro della propria attività le attrezzature ma anche a scegliere con oculatezza il proprio modo di agire fotograficamente.

Semplificare, alleggerire, rendere più immediata e fluente la propria fotografia è una conquista difficile in un’epoca in cui – grazie al digitale e alle possibilità tecnologiche – si tende piuttosto al barocchismo, al troppo pieno, al troppo colorato, al troppo e basta. All’eccesso che diventa stile di vita e dunque di ripresa, in cui conta la prestazione, la difficoltà, la sfida da vincere in modo plateale.

Il tutto si trasforma – dal punto di vista fotografico – in clichè visti e rivisti e i progetti che molti fotografi realizzano rischiano, in questo modo, di valere più per l’approccio strategico e mercantilistico che per quello contenutistico e filosofico. Sembrano finiti i tempi in cui un Josef Sudek poteva diventare un grande fotografo senza muoversi da Praga, un Luigi Ghirri poteva creare nuovi filoni della fotografia camminando sugli argini del Po durante le sue passeggiate domenicali, o unAnsel Adams creare una modalità di successo nel fotografare la Natura sostanzialmente senza lasciare quasi mai la California e, anzi, due o tre posti specifici di questo stato americano. Oggi occorre dimostrare che si è in grado di progettare e realizzare progetti fotografici globali, complessi, costosi, spettacolari. Ecco, molto spettacolari.

Uno dei miei fotografi preferiti in assoluto è Edward Burtynsky. Mi piace il suo approccio, mi piacciono le sue foto, il suo modo di “razionalizzare” tutto pur senza perdere sensibilità. Ma, mi son sempre chiesto, quanta parte del suo successo e dell’apprezzamento internazionale dipendono anche dal suo essere un globe trotter che scatta fotografie complesse, tecnicamente sfidanti, in luoghi difficili ai quattro angoli del mondo anche grazie a uno staff che predispone ogni cosa? Me l’ero chiesto a suo tempo anche per Steve McCurry, che oramai è una Società per Azioni più che un fotografo. E anche per la mostra “Genesis” di Salgado, che ha richiesto un impegno economico da Colossal hollywoodiano.

Quanto incide tutto questo nella percezione che le persone hanno di tali lavori?

A Burtynsky in qualche modo mi sono ispirato per il progetto che sto realizzando e di cui magari un giorno vi parlerò. Mi sono chiesto: ma posso raccontare tematiche affini a quelle del fotografo canadese senza spostarmi troppo da casa? Posso evitare di inquinare il pianeta con voli aerei di qua e di là, e ottenere lo stesso fotografie che dicano quel che hanno da dire, sebbene occorra rinunciare alla spettacolarità di certe situazioni? Insomma, un approccio pauperista può rimanere efficace anche se si affrontano temi che – sinora – i fotografi hanno sempre affrontato su scala globale e spettacolare, necessariamente investendo cifre importanti?

Ovviamente non si tratta solo di ridurre la scala, si tratta anche di far comprendere che indubbiamente le enormi costruzioni che stanno sorgendo ovunque in Cina o certe conurbazioni americane, magari riprese dall’alto, sono un pugno nello stomaco e chiamano lo “wow” di rito, ma in verità la distruzione dell’ambiente e della natura (e i mutamenti climatici) dipendono maggiormente da piccole azioni, da gesti quotidiani a cui non pensiamo mai. Ripetute però miliardi di volte!

Col mio progetto “Signs” ho tentato di mostrare che ogni cosa che facciamo lascia, appunto, segni sulla cute del pianeta. Ora sono salito un pochino di scala, ma il mio ambito resta il quotidiano, quello che è a portata di mano, che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno.

Non sono certo il primo a tentare questa strada, e nemmeno (spero!) sarò l’ultimo, anzi. Semplicemente credo però che occorra da parte dei fotografi un maggior sforzo di uscire dalla logica dell’eccesso, in ogni aspetto della nostra arte.

Di farsi, insomma, almeno un po’ pauperisti. Di riverberare nel proprio lavoro quell’approccio al rispetto degli ecosistemi che diventerà sempre più importante, se vogliamo che i nostri figli e nipoti possano vivere su un pianeta non solo vitale, ma anche bello. E la bellezza è la cosa più semplice del mondo, per questo è così difficile da comprendere e da riprodurre.

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