
Il fotografo dipende dalla realtà, la riproduce, la diffonde, a volte la rivela. Quante volte hai sentito parlare in questi termini della fotografia?
E’ difficile, in effetti, convincere le persone che la realtà è irriproducibile e che dunque qualsiasi tentativo di fermarla in una fotografia, e ancor più in un dipinto, una scultura o un’installazione, è destinato al fallimento.
La realtà, infatti, non è pura immagine, ma un insieme di realtà di tipo diverso (onde luminose ma anche sonore, profondità, volume, movimento, temperatura, e così via) che possono solo essere interpretate, ma mai colte in senso oggettivo se non, forse, con degli strumenti scientifici. E in tal caso avremo complesse formule matematiche e grafici, non certo “un’immagine”.
Già solo guardando alle cose si ottiene una mera illusione. Gli occhi registrano l’immagine (invertita e sottosopra) e la trasmettono alla corteccia visiva primaria, che “vede” il soggetto. Se guardi a una sedia, vedrà “una sedia”.
Ma questo non serve a molto, se non scatta poi l’ausilio della corteccia visiva secondaria che interpreta quanto visto dandogli da un senso. Allora la sedia diventa quell’oggetto utile a sedersi quando si è stanchi. Sino a quel momento, è solo un insieme di linee e volumi apparenti.
Ed è interessante osservare che, com’è ovvio, non solo la percezione di qualsiasi oggetto o realtà è diversa da persona a persona, ma lo è – ben più grandemente – tra diverse specie animali.
Se il mondo fosse esattamente come lo vedono gli esseri umani, vorrebbe dire che i cani, i gatti, i leoni o le scimmie per non parlare di insetti e rettili hanno della realtà una percezione “errata”. Ma questo non è ovviamente possibile: il loro modo di vedere è diverso dal nostro per necessità di sopravvivenza, e quella che vedono è la stessa realtà, interpretata in modo differente.
Dunque, come fotografi, non potremmo mai riprodurre un soggetto nella sua realtà, possiamo solo darne un’interpretazione fedele.
Fedele, s’intende, non già all’apparenza di quel che abbiamo di fronte, bensì all’illusione che ce ne siamo fatti, intesa come interpretazione non fedele.
Se infatti per le attività quotidiane abbiamo bisogno di “leggere” il mondo in modo adeguato, per evitare di mangiare un frutto velenoso, o addentare un sasso, o compiere altri gesti pericolosi, quando siamo liberi da questi obblighi e stiamo creando Arte, possiamo anche rendere commestibile un sasso, o fare di un cesto di verdure un volto umano, stile Arcimboldo.
Il noto pittore “visionario” Francis Bacon, in una sua intervista del 1991, alla domanda su quale differenza esista tra la forma illustrativa e quella non-illustrativa nel mondo dell’arte rispondeva che secondo lui la differenza «consiste in questo: la forma illustrativa rivela immediatamente, tramite l’intelletto, il suo significato, mentre la forma non illustrativa passa prima per la sensazione e solo dopo, lentamente, riporta alla realtà. Perché sia così, non lo so. Probabilmente ha a che fare con l’ambiguità della realtà e dell’apparenza. Questo modo di arrivare alla forma è di per sé più vicino alla realtà, proprio per la sua intrinseca ambiguità».
In alto, Francis Bacon fotografato da Heni Cartier-Bresson. In basso, autoritratti dello stesso Bacon
In altre parole, l’artista, e il fotografo per quanto ci riguarda, può agire in due modi: riprodurre la realtà per mostrarla agli altri, interpretandola necessariamente ma cercando di renderla del tutto comprensibile, oppure rinunciare a ogni legame con detta realtà, accettare l’impossibilità di poterla portare agli altri “così com’è” e dunque lavorare sulle idee, le sensazioni e le emozioni dello spettatore per fargli in qualche modo giungere il proprio “messaggio” e nel far questo, rileva Bacon, si avvicina di più alla realtà perché ne svela l’intima ambiguità.
Sebbene molti fotografi di reportage cerchino di lavorare con la prima metodologia, e anzi abbiano costruito tutta un’etica del fotogiornalismo con vincoli di “oggettività” e onestà, la verità è che solo prescindendo dal dato reale oggettivo si può dire qualcosa di valido, di “vero”, come dimostrano le esperienze (magari inconsapevoli) di tanti fotografi del passato (a cominciare da Cartier Bresson e Capa) e quelle, molto più studiate, di fotografi di reportage contemporanei, come Paolo Pellegrin.
Essere un fotografo illustrativo o non illustrativo è una scelta ovviamente, e si possono ottenere in entrambe i casi delle fotografie valide, ma forse sarebbe bene considerare che in nessun caso si ottiene comunque una mera riproduzione della realtà: che poi è quello che tanti fotografi, soprattutto dilettanti, si rifiutano di accettare. In fondo lo fanno anche alcuni maestri.
Quando Berengo Gardin sostiene di voler raccontare solo delle storie, di mostrare il dato reale e di non ritenersi un artista, anche se si intuisce cosa voglia dire, si deve aggiungere che in verità sta sostenendo un’idea impossibile. Nello stesso atto di fotografare – pur nello sforzo di rimanere illustrativo – crea qualcosa d’altro dalla realtà, ed è giocoforza un artista. E infatti tutti lo considerano tale, facendolo arrabbiare.
Aristotele nel De anima, scrive che «percepire è essere affetti in un certo modo»: la percezione scaturisce cioè dall’effetto degli elementi della realtà percepita sull’organo che percepisce, ma anche dall’attività propria dell’organo; in tal senso il soggetto senziente e l’oggetto sentito sono entrambi coinvolti nel processo del percepire, e del vedere in questo caso.
Per questo guardiamo con gli occhi e vediamo col cervello, e il soggetto – anche se inanimato – da un contributo fondamentale al processo, a volte creando illusioni visive.
Come scrivono Ludovica Lumer e Semir Zeki in “La bella e la bestia: arte e neuroscienze”, «una delle funzioni principali del nostro sistema nervoso è quella di attribuire un significato al mondo circostante, o meglio agli stimoli che da questo riceve. Attribuire dei significati può voler dire individuare una soluzione. Ma spesso il cervello incontra delle difficoltà nello svolgere questo compito poiché può trovarsi di fronte a significati diversi che hanno la stessa validità. Quando la soluzione non è di accesso immediato, la cosa migliore è accettare diverse interpretazioni possibili, ciascuna egualmente legittima. Tale elevato livello di ambiguità è quello che possiamo osservare, per esempio, nella narrazione artistica … La grandezza dell’artista sta nel suggerire questi sentimenti senza offrire una soluzione finale, sta nel rendere partecipi di tutte queste possibilità, ma capaci di leggerne consciamente una soltanto alla volta. L’opera d’arte ingaggia la mente dell’osservatore in questa sfida costante».
Quante volte hai sfidato lo spettatore delle tue fotografie? Dovresti provare a farlo, qualche volta: è il modo migliore per rivelare davvero la realtà. Suggerire un percorso, non sostenere che esista una strada sicura per raggiungerla.