
Ci sono miliardi di fotografie che ogni anno si aggiungono nell’immenso archivio virtuale di Internet. Davvero c’è bisogno di aggiungerne altre? O piuttosto non è preferibile cominciare a “utilizzarle” secondo quel processo che molti definiscono “appropriazione” ma che il fotografo, curatore e artista Joan Fontcuberta chiama piuttosto “adozione”?
«Appropriarsi di qualcosa significa “catturarlo”, adottarlo significa invece “dichiarare di aver scelto”. Nell’adozione prevale l’atto dello scegliere su quello del privare. Adottare, quindi, mi sembra un proposito genuinamente postfotografico: non si reclama tanto la paternità biologica di un’immagine, quanto la sua tutela ideologica (cioè la prescrizione di senso)» scrive Fontcuberta in “La furia delle Immagini”.
Certamente tutto questo deve farci riflettere sul ruolo dell’artista e dunque del fotografo consapevole: una riflessione nata con Duchamp e forse oggi arrivata alla sua maturità.
Perché è del tutto evidente come sia diventato drammaticamente difficile realizzare “cose nuove”, correndo continuamente il rischio di riscoprire l’acqua calda, mentre di certo di cose da dire ce ne sarebbero a bizzeffe.
Sono numerosi gli artisti – e molti di loro è dura definirli fotografi sebbene utilizzino la fotografia – che sfruttano l’enorme massa di immagini disponibili online per concretizzare le loro idee, divenendo dunque “catalogatori” o “rivelatori di senso” e rinunciando all’aspetto manuale, artigianale della pratica artistica.
In pratica è il rifiuto del ruolo meramente autoriale a cui si contrappone un’autorialità diffusa in cui l’artista è più un regista che un “deus ex machina”. Le fotografie sono già disponibili, realizzate a miliardi ogni giorno e inserite in flusso costante su Internet, e come Duchamp lavorava con gli oggetti “trovati”, così oggi gli artisti pescano in questo mare in continua crescita, lavorando sulla “photo trouvée”, da utilizzare per i propri progetti.
Il più delle volte queste fotografie hanno una qualità piuttosto scadente, sono sfocate, mosse, esposte male, composte peggio: d’altra parte il loro scopo non è essere buone, ma essere utili a chi le scatta, soprattutto come supporto per i ricordi. Lo sganciare la fotografia dalla sua qualità intrinseca, significa – per questi artisti della postfotografia – ribellarsi alle logiche della tecnica, e anche della tecnologia.
E poi ci sono, online, anche siti in cui sono presenti fotografie “industriali”, cioè realizzate per scopi tecnici o pratici. In tal senso, uno dei siti più noti e utilizzati dagli artisti della postfotografia è senza dubbio Google Maps, che mette a disposizione di tutti una ripresa complessiva di ogni singola parte del nostro pianeta; non solo: grazie alla funzione “street view” ci permette anche di scendere al livello del suolo e di viaggiare attraverso quegli stessi paesaggi, il più delle volte urbani o urbanizzati.
Diciamo che le automobili di Street View con le loro fotocamere a 360° hanno immobilizzato – a beneficio di tutti – un momento preciso del tempo e dello spazio e compito del fotografo (o dell’artista) è navigare in questo spazio virtuale alla ricerca di spunti utili e significativi, che poi è quello che farebbe anche nella realtà vera e non virtuale.
Può esistere un “momento decisivo” alla Cartier Bresson in questo ambiente immobile ma sconfinato? Sembrerebbe di sì, se consideriamo che il fotografo Michael Wolf con il suo progetto “A series of unfortunate events” ha avuto una Menzione d’Onore nel World Press Photo del 2011, pur non avendo fisicamente scattato nemmeno una fotografia!
In realtà ha navigato per “mezzo mondo virtuale” identificando delle situazioni registrate su Street View in cui “accadevano cose”, soprattutto eventi più o meno tragici. Certamente un’operazione artistica più che giornalistica, ma tant’è.
Personalmente utilizzo spessissimo Google Maps per preparare le mie uscite fotografiche. Nel fare queste esplorazioni “con gli occhi di Dio”, dallo spazio e zenitale, ho iniziato a scoprire inquadrature, dettagli, grafismi che mi intrigavano in modo particolare e ho iniziato una fervente attività di “adozione”, ricavandone il piccolo progetto che presento qui con alcuni estratti.
Se vogliamo l’operazione ricorda quella che Mario Giacomelli fece per il suo progetto “Presa di coscienza sulla natura”: molte delle foto realizzate in quell’occasione non vennero scattate direttamente da lui, ma da un altro fotografo, Edmo Leopoldi (grazie a Carlo Traini per la segnalazione) che – volando su un piccolo aereo da turismo – riprese le scene esattamente secondo le indicazioni di Giacomelli.
Ora la domanda è: di chi sono quelle foto? Senza dubbio alcuno di Giacomelli, e tuttavia non c’era lui dietro la fotocamera al momento dello scatto.
Le foto che ho tratto da Maps avrei certamente potuto scattarle grazie a un drone, ma questo avrebbe cambiato di poco la sostanza. Certo, avrei scelto con cura l’ora e la stagione, le condizioni meteo e magari l’angolo di ripresa, ma questo avrebbe solo reso “più belle” le foto, ma non più significative.
Perché il soggetto di questa serie sono i segni che l’uomo ha lasciato sulla superficie terrestre e in particolare su quel piccolo rettangolino di pianeta chiamato Tuscia.
Il più delle volte sono anche testimonianze di attività abbandonate: campi a pigola, strade oramai chiuse dalla vegetazione, tracce di antiche centuriazioni o di moderni trattori, addirittura resti archeologici visibili solo dal cielo come depressioni più o meno profonde del terreno (in un caso, vicino al sito archeologico di Ferento, a Viterbo, si vedono in pianta gli antichi edifici, vedi foto qui sotto).
Posso dire di aver fatto io queste foto? Credo di si, se è vero, come sostiene anche Fontcuberta, che il nostro ruolo, come fotografi, è principalmente avere un’idea e mostrarla agli altri, sfruttando i mezzi a nostra disposizione, qualunque forma essi possano assumere: anche quella di un satellite che non possiamo controllare.
In fondo accade lo stesso con la realtà…