Le Storie Interrotte

In questo primo post del nuovo anno vorrei parlare di una modalità di narrazione fotografica che nel mio corso “Smettere di Essere Principiante” ho definito “Effetto Iceberg“, mutuando il termine e il concetto dalla letteratura, e cioè da Hemingway.

Il tema è quello di cosa mettere dentro un’inquadratura. Come sosteneva Luigi Ghirri, quel che lasci fuori – la continuazione ideale del soggetto rappresentato nella foto – spesso è più importante di quel che metti dentro. Solo che quest’ultimo soggetto lo vedi, è lì davanti a te nella foto, l’altro non puoi far altro che evocarlo.

E’ etereo, misterioso, evanescente. Però esiste, almeno per chi guarderà la foto, proprio come il Monte Analogo di René Dumal.

Il monte Analogo è una montagna invisibile agli occhi dell’uomo comune ma più alta dell’Everest, una montagna che non sai esattamente dove sia perché, come spiega Padre Sogol nel romanzo, è nascosta da una sorta di campo di forze che devia i raggi luminosi. Eppure esiste, in qualche parte dell’Oceano Pacifico, e vi puoi accedere all’alba o al tramonto, gli unici momenti in cui le sue “porte” sono aperte, la puoi scalare e, giunto in cima, trovare la risposta alle tue domande, e cioè che non hai domande perché le domande oramai non servono in quanto le risposte sono tutte nell’essere in cima al Monte Analogo. Ma devi esserci, per saperlo.

Dumal non finì mai il suo romanzo, che si interrompe dopo una virgola. La virgola più famosa della storia della letteratura. Che accidenti succedeva dopo quella virgola? Come proseguiva il racconto?

La prima volta che lessi “Il Monte Analogo” credetti di trovarmi davanti una copia difettata. Ma no, voltando pagina ecco la foto del manoscritto originale: qualcuno bussò alla porta dello scrittore in quel bellico 1944 e lui fece in tempo a vergare la virgola sul manoscritto per poi alzarsi e andare ad aprire. La morte lo colse prima che potesse continuare non tanto il suo libro, quanto almeno quella frase.

Rimasta così, sospesa nel vuoto, come su un burrone, un precipizio, un seracco, quell’ultima parola dietro la virgola sembrava simile allo scalatore sopravvissuto quando tutti i suoi compagni di cordata che lo seguivano sono precipitati per lo spezzarsi della corda.

In quel vuoto era precipitata la vita di Dumal, che divenne stranamente famoso per un romanzo monco, storpio, a metà, così come Gadda, che non terminò mai “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, romanzo per il quale divenne invece assai noto.

Strano come siano due dei miei romanzi preferiti, che ho letto più volte. Te li consiglio, davvero. Mi sembra, leggendoli, di rischiare qualcosa. Di mettermi in una condizione di pericolo. Hai presente, no? Quando si corre verso un precipizio e ci si ferma di colpo, evitando per un soffio di precipitare. Ogni volta ci si ferma più vicini al baratro, ogni volta si rischia di più.

Ecco, leggere Gadda e Dumal dà questa stessa impressione, mi sembra che i due romanzi mi portino ogni volta sul ciglio del burrone e poi mi mollino lì, in preda alle vertigini, tremante di paura. Il cuore batte, l’adrenalina corre. Arrivi sul limitare e quando ti fermi sai di aver rischiato, ma le risposte che cercavi comunque non le hai ottenute. Almeno apparentemente.

Perché poi scopri che la vera saggezza è nel come ti poni le domande, non nelle risposte che trovi. Sono romanzi simili alla vita, la cui fine non è ancora scritta. E quando sarà scritta, non ci saremo più e dunque che importa? Puoi immaginare come sarà quella fine, è vero, ma un esercizio migliore è quello di immaginare come potrebbe essere il proseguo del viaggio. E poi concretizzare le tue fantasie. Se Gadda avesse concluso il suo romanzo svelando l’assassino, se Dumal avesse completato la sua storia portando la spedizione in cima al Monte Analogo forse, e dico forse, i due romanzi avrebbero perso molto del loro fascino.

Ora immagina di trasportare tutto in campo fotografico. La fotografia in cui tutto è chiaro e rivelato, che cerca disperatamente di illuminare gli angoli bui, di mostrare ogni dettaglio nel modo più preciso possibile, che è piena di elementi affinché allo spettatore nulla venga negato, sono spesso efficaci come mezzo di documentazione o divulgazione, ma emotivamente sono un disastro. Se non ti poni domande, come spettatore, finisci per annoiarti. Ammirare queste foto perfettine e ridondanti dopo un po’ stanca.

La foto che funziona, ma ancor più il progetto fotografico davvero efficace non intendono dare risposte, ma porre domande; quelli di maggior successo fanno nascere in chi guarda addirittura le domande giuste. Pensa alle tante foto di guerra che circolano in questi giorni. Vogliono affermare realtà incontrovertibili, vogliono urlare, rivelare, informare. Ma quelle che restano in mente sono le poche davanti alle quali come minimo ti chiedi: perché?

I grandi fotografi di guerra hanno sempre lavorato così. Se scorri le foto del Vietnam di Don McCullin avrai la testa piena di domande, di dubbi, di perplessità e mozziconi di risposte, eppure ne saprai di più di quelli “ben informati” che ti mostrano “le cose come stanno”.

Perché quest’ultime si rivolgono alla testa, le altre al cuore, metaforicamente parlando. Perciò credo davvero che come fotografi dovremmo imparare la lezione di Gadda e Dumal: arrivare a un certo punto e saperci fermare prima che la nostra foto dica troppo, ma anche non prima che abbia detto abbastanza.

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