Il fotografo viaggiatore. O turista?

A un’intera generazione è stato fatto credere che il bisogno di un contatto con la Natura fosse tutto sommato un lusso o una velleità estetica di scarsa importanza. Il valore dell’ambiente per l’armonico sviluppo dell’uomo è stato degradato alla percezione esterna ed epidermica del paesaggio: una scenografia pittoresca da consumare secondo i solito modelli stereotipati del consumismo e non da vivere come uno dei necessari catalizzatori delle potenzialità espressive dell’Io“. Così si esprimeva il doumentarista e ambientalista (classe 1935) Carlo Alberto Pinelli nel 1980.

 

Da allora non è che le cose siano molto migliorate, anzi. Quando arriva la primavera inizia l’esodo verso i luoghi “delle vacanze” che magari sono per il momento soprattutto quelli “dei weekend”, alla ricerca da un lato del sole, del relax e del riposo e dall’altro di paesaggi belli da fotografare e riportare a casa, generalmente intrappolati nello smartphone.

D’altra parte se esiste un modo superficiale e consumista di avvicinare i luoghi (spesso portando al loro degrado), così esiste un modo simile di concepire la fotografia: è il modo tipico di coloro che si fermano alla superficie delle cose, senza scendere oltre l’apparenza, oltre l’ovvio, oltre anche “il bello” che – in quanto stereotipato come osserva Pinelli – di fatto non è nemmeno più “interpretabile”, ma solo riproducibile. Ossessivamente.

D’altro canto la gente vorrebbe viaggiare, sempre, anche se ha del viaggio una concezione un po’ distorta e riduttiva. Insomma, crede che tutto il mondo sia un villaggio turistico e che quando si è in giro si debbano scattare fotografie solo a panorami mozzafiato e a monumenti di eccezionale valore storico. Sto generalizzando, ma credo che la descrizione valga per davvero un gran numero di persone.

In fondo, oramai chi viaggia per approfondire le proprie conoscenze e scoprire se stesso come facevano i viaggiatori del Grand Tour? E’ vero che questi erano in genere solo nobili e benestanti – visto che il popolo non poteva permettersi un simile lusso – ma ammettiamolo: viviamo nell’epoca dell’edonismo e del piacere superficiale, non c’è il tempo, forse nemmeno la voglia di viaggiare per davvero, oggi è sufficiente il turismo, cioè un’attività “consistente nel visitare durante il tempo libero luoghi diversi da quelli in cui si risiede normalmente”, secondo il dizionario di De Mauro.

E allora cos’è il viaggio? “Spostamento da un luogo ad un altro piuttosto distante”. Notare che il turismo è un’attività che si svolgerebbe in via esclusiva durante il tempo libero, mentre il viaggio no.

E questo perché nel compilare la voce del dizionario l’autore ha considerato il viaggio come un semplice spostamento fisico: in altre parole, per fare del turismo occorre giocoforza effettuare un viaggio ma questa incombenza avviene altresì nella vita quotidiana (se vivete in una cittadina di periferia e tutti i giorni dovete andare a lavoro in una grande città utilizzando il treno, Walter Bonatti in confronto a voi era un misero pantofolaio) e dunque la categoria “viaggio” non è percepita in questo caso come un valore in sé.

Ma secoli di storia dell’umanità hanno invece attribuito al concetto di viaggio un chiaro significato filosofico, che è quello di scoperta di sé stessi attraverso una prova, a volte piuttosto dura, che consiste per l’appunto nell’andare da A verso B seguendo strade tortuose, lungo le quali si fanno incontri e scoperte, e lungo le quali magari ci si perde per ritrovarsi poi, alla mèta, completamente cambiati.

Il turismo, invece, è un’invenzione relativamente recente, che consiste nel visitare altri luoghi: il contatto è spesso fugace e superficiale e si consuma nell’esaudire alcune curiosità o in qualche gridolino di meraviglia.

Insomma, il turista vuole che tutto sia ben organizzato, previsto e le sorprese, se pur possano esserci, siano rigorosamente gestite per evitare complicazioni. Il viaggiatore, invece, viaggia: parte e sceglie una direzione, ma quel che succede nel mezzo può solo sperarlo, o cercarlo, ma non prevederlo del tutto. Ed è contentissimo che sia così.

Ecco perché il fotografo che pratica i generi legati al “geografico” – che sono diversi: la “street”, la fotografia di paesaggio, quella antropologica, di avventura, di natura e così via – dev’essere un viaggiatore e di rado può permettersi di essere un turista, se il suo soggetto non sono – appunto – i turisti stessi (come in Martin Parr, ad esempio) o i guasti che il turismo di massa porta all’ambiente.

Fotografare è un’attività talmente coinvolgente e così profonda – se praticata con impegno – che quasi esaurisce le ragioni stesse del viaggio. Sia chiaro, è ovvio che chi ha una famiglia è costretto a tener conto di diverse esigenze, spesso contrapposte. Tuttavia mi sono sempre detto che il ruolo di un fotografo sia anche essere quello di migliorare la percezione che le persone (anche i nostri familiari) hanno dei luoghi e delle realtà circostanti.

E questo dovrebbe prevedere la possibilità di andare più a fondo rispetto alla vera essenza dei paesi che attraversiamo, specie nell’ipotesi che si vada all’estero.

Potrei raccontarti di come il “dietro le quinte” di certo turismo – che ho conosciuto grazie al mio lavoro con le riviste – mi abbia spesso fatto riflettere con un profondo senso di disagio. Parlo ovviamente dello sfruttamento dei lavoratori, specie nei paesi poveri, dello spreco di risorse (mi tornano in mente i perfetti “prati all’inglese” di località in cui la penuria d’acqua potabile era un problema o dei buffet “24 ore su 24” disponibili per gli ospiti di strutture turistiche laddove i residenti spesso i pasti dovevano saltarli) e anche dell’inquinamento che l’enorme macchina internazionale del turismo provoca con innumerevoli spostamenti via nave o aereo.

Ma questo non è certo il luogo giusto per approfondire simili argomenti: se sei interessato trovi molte informazioni online.

Quel che mi preme, invece, è parlare da fotografo a fotografo: se non vedi le realtà nascoste, come puoi raccontare i luoghi e le situazioni? Se per te un perfetto “boulevard” con centinaia di palme in fila nasconde del tutto, appena al di là delle colline, le baraccopoli dei diseredati, come pensi che sia possibile interpretare davvero lo spirito di quello specifico luogo?

Tutti i grandi fotografi quando fanno dei reportage da certe località, ci mostrano il dietro le quinte, non solo quello che tutti hanno davanti agli occhi. Questo è il ruolo del fotografo e non vale solo per i fotogiornalisti o per chi è un professionista. Un fotografo pratica la nobile arte del vedere: il semplice “guardare” (che spesso significa proprio “non voler vedere“) lasciamolo a chi fotografo non è.

Come scriveva il filosofo trascendentalista americano R.W. Emerson, “siamo portati a esagerare le attrattive di questo o quel luogo… vi è una minima differenza tra un paesaggio e l’altro, ma grande è la differenza tra un osservatore e l’altro“.

Tu che osservatore e dunque fotografo vuoi essere? Uno di quelli che si mette in coda per raggiungere il “famoso” belvedere e attendere che la prima fila di fotografi si tolga dalle scatole per scattare l’ennesima foto al “meraviglioso panorama” o uno di quelli che non si pone nemmeno il problema di andare lontano o vicino, ma utilizza la propria sensibilità per scoprire i luoghi – prima – e raccontarli, poi? Che incontra e parla con le persone, le conosce (nonostante magari la barriera linguistica o quella della propria timidezza) e solo dopo le fotografa per mostrare non soltanto le loro fattezze, ma aprire uno squarcio sulla loro vita?

E’ strano come siano domande che pochi fotografi – che vorrebbero imitare quelli del National Geographic o di Geo – si pongano. E non riguarda solo la fotografia di viaggio in senso generale (comunque una delle più praticate) quanto qualsiasi altro genere e qualsiasi altro soggetto. Addirittura le “cose” non sono come sembrano, e hanno una loro storia, direi quasi “un’anima” (in senso animista, intendo), come tanti autori hanno saputo dimostrare, da Josef Sudek a Man Ray, da Karl Blossfeldt a Mimmo Jodice.

Per un fotografo ogni cosa è anche qualcos’altro, come sosteneva Minor White, ma soprattutto è la strada per rivelare qualcosa che sta ben oltre l’oggetto stesso, o il luogo o la persona. Una fotografia, sosteneva Diane Arbusè un segreto che ci parla di un segreto. Per questo uno scatto che non nasca da un’attenta osservazione, da un’idea, da un’emozione, da un “raccoglimento” è spesso una foto senz’anima.

Il fotografo è come un dio, occorre che dia l’anima alle sue creature altrimenti ne saranno prive e vivranno una vita insulsa.

Ti garantisco che la differenza tra un bravo fotografo e uno che non lo è sta tutta qui, nella capacità di andare oltre, di porsi domande, di non accettare le cose per come appaiono, di amare ciò che si fotografa “e di farglielo capire” come sosteneva Robert Capa, cioè di non tradire il proprio soggetto e dunque – nei fatti – sé stessi. Che poi è qualcosa che tutte le persone dovrebbero fare. Per un fotografo, però, è essenziale.

Insomma, spero tu possa trascorrere le prossime vacanze in modo piacevole e rigenerante, però magari rifletti sulla possibilità di guardarti attorno e invece di “raccontare la tua vacanza nel luogo x”, cerca di esplorare quel luogo per vederne le inevitabili contraddizioni, o anche solo delle curiosità, le cose che nessuno nota e su questo tenta di impostare un racconto fotografico di cui poi sarai orgoglioso. Non serve nemmeno tanto tempo, ma tempo di qualità.

Sottrailo ad esempio a quelle attività che sembrano “obbligatorie” in vacanza, e che invece sono del tutto inutili. Se hai un’ora, che quella sia l’ora in cui realizzerai le tue fotografie senza altra preoccupazione che di farlo in modo pieno e senza distrazioni. Vedrai che non è facile, ma di certo è possibile, senza che questo vada a discapito del tempo da trascorrere con i tuoi figli o con il tuo compagno/a.

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