
10 parole gergali grazie alle quali puoi fingere
di capire davvero qualcosa di fotografia
Ogni arte – e direi ogni attività umana – possiede un proprio gergo, quelle parole che il volgo non capisce e che fanno sentire chi le pronuncia come un adepto di qualche antica religione esoterica.
Mi vengono in mente tutti i termini astrusi che utilizzano gli esperti di computer o i programmatori e che sembrano concepiti al solo scopo di non far capire nulla al povero utente, che finirà per rivolgersi a un esperto anche solo per comprendere cosa sia un “attachment” di posta elettronica (è semplicemente un allegato, in effetti), figuriamoci quando si inizia a parlare di BIOS, OCR, GUI, ISP e cose del genere.
Un altro settore che ha fatto della gergalità – specialmente anglosassone – un punto di forza, è quello finanziario. Sentivo una trasmissione su Radio 24, l’altro giorno, in cui un esperto di investimenti illustrava le modalità per evitare i trabocchetti delle banche e alla fine ho concluso che o ero sintonizzato sulla BBC o la lingua italiana è finita, se non fornisce parole acconce a spiegare anche solo come rapportarsi al bancario di turno (Family banker, pardon).
Dunque non deve stupire se nel corso del tempo anche la fotografia abbia sviluppato un suo forbito e colorito gergo tecnico ed espressivo, comprensibile solo a chi è un professionista o un amatore evoluto, e del tutto incomprensibile per gli altri. Che, in effetti, continuano a fotografare con i loro smartphone ignorando ISO, diaframmi e tempi di scatto, per non parlare di sezione aurea, regola dei terzi e così via, ma comunque resteranno sempre “persone fotografanti” e non “fotografi” finché non comprenderanno quelle 10 parole che sono fondamentali non certo per essere fotografi migliori ma per apparire davvero esperti.
E visto che al giorno d’oggi apparire è meglio che essere, eccole svelate queste 10 parole utili da inserire nei propri discorsi e sembrare così davvero “smart” se non “cool”, insomma fighi. Anche nel malaugurato caso di fotografia non capiate nulla, che poi spesso è il modo migliore per fare foto di successo. Ma questa è un’altra storia. Ovviamente non sono tutte quelle esistenti, ma sono quelle che funzionano meglio.
Ecco dunque il lessico minimo che devi imparare a memoria e che in qualche modo va a completare quanto detto nel post “La fotografia dalla A alla Z”. Mi raccomando: butta lì queste parole ogni volta che te ne capita l’occasione, sottolineale arrotando la lingua e sta accorto con la pronuncia, altrimenti ti sgamano.
Bokeh – Non capirò mai del tutto il motivo per cui occorra usare una parola giapponese per dire “sfocato” o fuori fuoco (OOF – Out Of Focus, chiedo scusa!). La colpa è (pare) di un certo Mike Johnston che la utilizzò sulla rivista “Photo Techniques” nel 1997.
Da allora, il termine viene utilizzato per esaltare (o denigrare) la resa degli obiettivi nelle parti fuori fuoco: ci sono obiettivi che danno uno sfocato “cremoso”, duro, morbido, secco, a pallini, a cerchietti, a ciambelle… Insomma, è il corrispettivo dei molti retrogusti del vino e mi immagino i fotografi come dei sommelier che osservando una stampa potrebbero dire che possiede “un bokeh liscio, pastoso, morbido, con un retrogusto circolare e tocchi di swirling”, magari mettendo la bocca a (scusate il francesismo) “culo di gallina”.
Divertente se non altro. A proposito: lo “swirling” (in inglese la parola significa “vorticoso”) è un effetto dovuto a una pesante caduta di qualità dell’obiettivo ai bordi, con la comparsa di abbondante “coma” (altro termine esoterico, per indicare la comparsa di un difetto caratterizzato da “strisciate” luminose simili a comete) non lineare ma circolare, per cui la foto sembra ruotare nella parte prossima al bordo.
Tipicamente si ottiene con alcuni vecchi obiettivi di qualità relativa (almeno a tutta apertura) come il 58 mm russo Helios 44, infatti molto ricercato. Ci sono obiettivi che un tempo erano considerati “fondi di bottiglia” e divenuti “di culto” per il loro effetto sfocato. Il più noto è il Meyer Gorlitz Trioplan 50 mm f/2.9, che crea un caratteristico “bubble bokeh” con la comparsa di cerchietti dal bordo più scuro. Prima potevi pagarlo anche solo 20-30 € su eBay, recentemente una mia conoscente l’ha comprato per 400 €. Ecco.
Sensor Size – Qui vai sul sicuro: se c’è una cosa che i pivelli faticano a comprendere è il fatto che esistano sensori di diverso formato e che questo comporta notevoli conseguenze sull’angolo di campo di un obiettivo e sulla profondità di campo.
Potrai mostrare, buttando all’infuori il petto e dentro la pancia, e scandendo le parole come se stessi per dare al popolo miscredente le Tavole della Legge dettate direttamente da qualche divinità, cosa significa MFT, APS-C e FF, anche solo limitandoti ai formati più comuni.
Aggiungerai che nel Micro Quattro Terzi (Micro Four Thirds, MFT) c’è un “fattore di crop” (altra bella parolina gergale grammaticalmente sballata, visto che unisce termini italiani e inglesi, ma tanto efficace) di 2x e che perciò un 25 mm, bel grandangolo sul Full Frame (FF) diventerà un più modesto 50 mm (un “normale”, e vai di gergo), che comunque manterrà la PdC (Profondità di campo, ma non dirlo subito, attendi l’apposita domanda) di un 25 mm, e che dunque il MFT è meno adatto di altri formati per ottenere un bel Bokeh.
Poi muovendo le mani come stessi gettando perle ai porci, potrai dire che esistono diversi APS-C, alcuni con fattore di crop 1,5x (utilizzato ad esempio da Nikon, che lo chiama DX, mentre FX è il FF del marchio giapponese), altri con fattori di 1,6x e 1,8x (utilizzati da Canon), e così via.
Vedrai le loro menti confondersi e le loro bocche pronunciare parole confuse, e potrai godere della tua nuova veste di profeta. Se proprio vuoi infierire, potrai dilungarti con un’ampia spiegazione sulla differenza tra lunghezza focale (che non cambia al variare del formato del sensore) e angolo di campo (che invece cambia eccome, visto che un 50 mm su un medio formato è un grandangolo spinto e su MTF è un corto tele). Ma ti consiglio di avere buon cuore e soprassedere.
Luminosità – Luce deriva da Lux, Lucis e aveva un significato sacro sino a non molti secoli fa. Non a caso la santa protettrice della vista si chiama Lucia, mentre l’angelo più luminoso del Paradiso, poi decaduto e precipitato all’Inferno (dove finirai anche tu se continui a ingannare il prossimo), si chiama Lucifero, letteralmente “portatore di luce”.
Dunque quando parli di luce devi sottolineare non solo l’importanza che essa ha per noi fotografi (parliamo del Sancta Sanctorum vero e proprio), specificando – funziona sempre – che “fotografia” (parola inventata da sir John Herschel) significa scrivere con la luce, ma anche quanto sia importante avere degli obiettivi “luminosi” per ottenere un bel “bokeh”, ad esempio, o per scattare di sera/notte.
Questo produrrà in coloro che ignorano il gergo, l’idea che ci siano obiettivi che splendano nel buio, a sottolineare la loro presunta “santità”: in fondo costano il doppio o il triplo degli altri, un motivo ci sarà. Specifica che anche se i poveri pirla fotografano sempre su treppiedi, utilizzano sempre diaframmi piuttosto chiusi, anche se non gli frega niente dello sfocato e preferiscono viaggiare leggeri, non possono esimersi da avere un 200 o un 300 mm f/2,8 del peso di qualche chilo, che dovranno investire la tredicesima e la quattordicesima e anche di più per ottenere ad esempio un 50mm “Noctilux” f/0,95 della Leica, il più luminoso obiettivo al mondo, il Santo Graal dei fotografi.
In fondo costa appena 10mila euro (su Amazon, sia chiaro). Lo so che pochi possono davvero permettersi simili oggetti, ma fa sempre una bella impressione dire che “sarebbe utile” avere tali “lenti” (il termine obiettivo è troppo banale) o almeno un f/1.2, che diamine. Il fatto che poi continuino a utilizzare gli zoom da cento euro f/3.5-5.6 (come quasi di sicuro fai anche tu, io di sicuro) importa poco: l’impressione resta, ed è questo l’importante!
Bracketing – Letteralmente significa “raggruppare” e molte fotocamere offrono questa opzione in automatico. Il novellino non sa spiegarsi a cosa possa mai servire trattare le foto come un gregge di pecore (e il fotografo come un Border Collie), e tu gli spiegherai, magnanimo, che si parla di una tecnica che permette di mettere in sicurezza una fotografia importante, e anche di sfruttare tecniche avanzatissime, fonte perenne di altri termini gergali.
Con il “bracketing esposimetrico” si scattano tre (o più) fotografie a diversa esposizione: una esposta correttamente secondo l’esposimetro della fotocamera, una sottoesposta (ad esempio di uno o due diaframmi) e una sovraesposta (idem). Di sicuro una delle tre pose sarà corretta. Inoltre le tre (o più) foto possono essere date in pasto a un software (come Photomatix o lo stesso Photoshop) per creare un file HDR (High Dinamic Range). Apoteosi del gergo esoterico! Con il “Focus bracketing” invece si fa lo stesso variando di poco il punto di messa a fuoco (manuale o AF), in modo da poter poi scegliere la foto più corretta. Anche in questo caso le foto possono poi essere utilizzate per il “focus stacking”, cioè per ottenere una foto con profondità di campo totale, ovviamente possibile solo con soggetti statici.
Oggi ci sono fotocamere che offrono sia l’HDR che il Focus Stacking direttamente “in camera”. A onor del vero il “bracketing” si potrebbe fare anche a livello compositivo, modificando di poco l’inquadratura in foto scattate in successione, ma è meglio non infierire…
Chimping – Di certo saprai che una delle maggiori modifiche portate dal digitale alle abitudini dei fotografi, è quella di indurli costantemente a controllare il display della fotocamera per vedere com’è venuta la foto. Ecco, questo è il “chimping”, l’eseguire continuamente il “check” dello “shoot” (I’m kidding).
Cosa c’è di male? Nulla, pochi resistono. Ingrandiscono al massimo ogni dettaglio per controllare il “focus”, per vedere se la persona ha chiuso gli occhi, attivano il “clipping” per controllare la sovra o la sottoesposizione, e nel fare questo perdono l’occasione di scattare altre foto, magari migliori. Ecco, questo dovrai dire ai tuoi discepoli, con occhio adeguatamente torvo: spegnete quel “fuck… display” specialmente se state facendo “street” o qualche reportage. Ve l’immaginate Cartier Bresson che controlla il display mentre succede qualcosa di significativo davanti a lui? E andiamo!
Iperfocale – Qui entriamo nel mondo dei supereroi, stile Mattel o DCcomics. Iperfocale: suona bene no? Sembra davvero qualcosa in grado di trasformarsi in un razzomissile con circuiti di mille valvole… Prima di svelare al povero sprovveduto di cosa davvero si tratti, devi specificare che quasi tutti i maggiori fotografi di reportage, specialmente tra gli anni ’50 e ’70, utilizzavano questa tecnica per non dover pensare alla focheggiatura della loro Leica mentre magari si trovavano nel pieno di un’azione militare con i proiettili che fischiavano ovunque, o durante un evento irripetibile, da documentare assolutamente.
Davvero sembra un film Marvel. Poi, al dunque, esistono tabelle (anche su Internet) che indicano, per ciascuna lunghezza focale dell’obiettivo e per ogni diaframma, quale distanza di messa a fuoco impostare (manualmente) sull’obiettivo per avere a fuoco tutto il campo inquadrato che va dalla metà dell’iperfocale all’infinito.
Insomma, se si imposta un obiettivo 50 mm (parliamo di formato pieno) su –per esempio – 5 metri a diaframma f/16, avremo a fuoco tutto da 2,50 m all’infinito. Relativamente semplice e adeguatamente antiquato ai tempi dell’AF intelligente, ma questo non dirlo al tuo pupillo, altrimenti capisce che lo stai perculando.
PASM – Cosa c’è di più divertente del rivelare a qualcuno l’assolutamente ovvio? È questo il caso, dato che non c’è fotografo che non abbia costantemente davanti questo acronimo, eppure quasi nessuno sa di cosa stiamo parlando. La ghiera PASM è, in una fotocamera, quella che controlla le diverse modalità di ripresa: Program, Priorità di diaframma (A), priorità dei tempi (S) e Manuale.
Che poi è il controllo fondamentale, o almeno uno di quelli fondamentali. Quando lo sottolinei, mi raccomando, specifica che il vero fotografo, quello creativo e accorto, ricorre solo a M, regolando manualmente tempi e diaframmi, controllando con occhio svogliato l’esposimetro e fidandosi molto di più della propria esperienza. Poco importa che quasi tutti utilizzino gli automatismi (come l’AF invece della messa a fuoco manuale), magari controllandoli con la sovra o sottoesposizione, tu questo non specificarlo e il gioco è fatto.
Prime Lenses – Chiamare questi obiettivi semplicemente come “fissi” fa meno effetto del termine inglese, non trovi? A parte questo, un obiettivo “prime” è più che altro un obiettivo “non zoom”: se la metti così è subito chiaro (dunque non farlo), visto che oggi quasi tutti sfruttano gli obiettivi a focale variabile per i propri scopi. A onor del vero su gran parte degli smartphone sono montati obiettivi “fissi”, ma chi li usa non ci presta attenzione, anche perché ogni tanto ricorre allo “zoom digitale”.
Tuttavia, sebbene oggi gli zoom abbiano una qualità del tutto paragonabile a quella degli obiettivi fissi, tu dovrai decantare fino alla morte gli indiscussi vantaggi di avere un 14 mm, un 28 mm, un 50 mm “fissi” invece del solito zoommino 18-55 mm venduto insieme alla fotocamera, che poi se la fotocamera è APS-C corrisponde a un meno affascinante 28-80 mm circa.
Spiegherai che i grandi fotografi fanno così da sempre, anzi che Robert Capa, HCB, Berengo Gardin, Paolo Monti e molti altri hanno costruito carriere di successo “usando solo il 50 mm”, che poi non è vero ma fa niente. Il mito dell’obiettivo fisso è tra i più tenaci, sebbene nei cataloghi dei costruttori – con poche eccezioni – non è che ce ne siano rimasti molti. Dunque sfruttalo e apparirai come un duro e puro della fotografia consapevole!
Multi zone metering – Altra diavoleria elettronica che tutti usano senza prestarci attenzione, e che dunque ti permetterà di scoprire l’acqua calda e brevettare la ruota con poco sforzo. Son passati davvero molti anni da quando gli esposimetri interni delle fotocamere funzionavano solo in modalità “spot” o “media ponderata al centro”.
A introdurre la lettura “multi pattern” è stata la Nikon con la sua FA. Successivamente la “casa gialla” ha sviluppato la metodologia “Matrix” che resta ancora una delle più evolute. Comunque non c’è alcun costruttore che non utilizzi oggi una simile tecnologia, che di fatto sfrutta dei veri e propri sensori in grado di leggere anche un centinaia di punti della scena che si sta fotografando, applicando poi un algoritmo intelligente e tirar fuori un’esposizione corretta.
Siccome però gran parte delle fotocamere offre la possibilità di optare per la lettura spot, ti consiglio di dire esplicitamente che il “vero fotografo” (figura mitica e mitologica che non esiste ma a cui devi costantemente far riferimento) usa solo questa, eseguendo personalmente la lettura di ogni punto della scena per poi ottenere, grazie solo alla propria immensa intelligenza e sensibilità, un’esposizione perfetta al millesimo, magari seguendo il Sistema Zonale di Adams e Weston, che non stiamo mica qui a smacchiare i leopardi (o a pettinare le bambole, scegli tu).
Aggiungerai che quando hai cominciato, addirittura nemmeno guardavi l’esposimetro, che ti basavi sulla capacità del tuo occhio allenatissimo per decidere tempi e diaframmi, o che al massimo applicavi la regola del “16” per cui, quando c’è il sole pieno, a f/16, la corretta esposizione è data dall’inverso della sensibilità (a ISO 100 sarà 1/100). Li vedrai letteralmente pendere dalle tue labbra. Allora non mollare la presa e parla dei mitici esposimetri esterni, che ancora porti con te, il Lunasix, i vecchi Minolta, lo Spotmeter della Pentax. Vedrai che si vergogneranno come ladri a usare ancora gli automatismi (gli stessi che di nascosto usi pure tu). E poi dicono che raccontar balle non serve!
RAW – Tanti fotografi o aspiranti tali hanno oramai imparato che scattare nel formato “grezzo” è meglio che scattare in jpeg. Certo, potresti anche dilungarti in una disamina dei tanti pregi del formato RAW, urlare urbi et orbi che il jpeg nemmeno lontanamente permette di ottenere le fotografie di qualità che invece il RAW consente di fare facilmente. C’è poca stoffa per nuovi inganni, qui.
Quel che i poveri sprovveduti non sanno – il più delle volte – è come sviluppare i file RAW: si aspettano di avere delle foto fantastiche e invece combinano pasticci inenarrabili. Perfetto. Giocando su questa ignoranza dei fondamentali, elencherai tutto ciò che occorre fare con un file RAW per “ottimizzarlo” davvero, con una caterva di termini tecnici che vale come un KO tecnico: white balance, contrasto, curve, tonalità, gamma tonale, gamma dinamica, chiarezza, dettaglio, luminanza, crominanza, modellazione luci e ombre, riduzione rumore, e vai così.
Poi vai con l’eventuale conversione in “blackandwhite”, lo split toning, l’aggiunta di textures. Grandioso. I più torneranno a scattare jpeg, è vero, come spesso fai anche tu, vantandoti delle foto SOOC, “straight out of camera” (anche di questo abbiamo parlato in un precedente post), ma alla fine chi se ne importa?
E questo è tutto: ora, se non avrai voglia di sbatterti a diventare un bravo fotografo, potrai abilmente fingere. In fondo imparare questi termini e più o meno cosa significano richiede poco tempo, e il risultato è (quasi) garantito. Poi, hai visto mai, potrebbe venirti voglia di approfondire e allora…