Portami la giustificazione!

Quante volte, a scuola, ci siamo sentiti dire questa frase imperativa, dopo una “bigiata”? E aggiungo: quante volte ascoltiamo politici che dopo aver detto o fatto qualcosa di poco etico si “arrampicano sugli specchi” cercando, appunto, di giustificarsi?

Non è che i fotografi siano esenti da questo vizio.

Il fotografo Richard Brown sosteneva che ”l’errore più grave che commette la gran parte dei fotografi è impiegare 1/60 di secondo per fare una fotografia e il resto della vita per spiegarla”!

Ed è ben nota la frase di Ansel Adams che confrontava una fotografia con una barzelletta, chiosando che “se devi spiegarla, allora non ti è venuta bene”.

Personalmente non ho mai inteso la frase di Adams come un invito a non aggiungere del testo a una fotografia (cosa che il grande paesaggista americano non ha mai evitato di fare), quanto piuttosto a non balbettare giustificazioni nel caso la foto non “funzioni”.

Capita a tutti di avere grandi intuizioni e trovarsi poi con una foto scadente o poco comunicativa: si hanno allora due scelte, buttarla via (scelta saggia) oppure difenderla oltre ogni ragionevole limite (scelta sbagliata).

Io a volte l’ho fatto (e me ne dolgo amaramente, al punto che ora sto bene attento a non ripetere l’errore), e spesso l’ho visto fare.

Il primo ricordo che ho in merito è di un conoscente che fa il fotografo di cerimonie.

Tanti anni fa (parliamo della fine degli anni ‘80) lo vidi organizzare un album di matrimonio con alcune foto chiaramente mosse (ma non abbastanza da essere degli ICM).

Gli chiesi perché non le eliminasse e lo vidi esibirsi nella più spettacolare e psichedelica serie di giustificazioni della storia della fotografia.

Le foto non erano affatto “artistiche” come sosteneva lui, ma la difesa delle stesse era davvero un capolavoro (infatti mi è rimasta impressa: le foto no, le ho dimenticate).

E durante i miei workshop o nei corsi che tengo regolarmente, mi capita di ascoltare frasi del tipo: “non avevo la possibilità di mettere a fuoco / esporre correttamente / scegliere una inquadratura migliore / evitare il mosso… però l’occasione era troppo buona per perderla e allora ho scattato”.

Il problema non è aver scatto la foto, il problema è averla utilizzata successivamente: se è sbagliata e non comunica, meglio evitare di diffonderla o utilizzarla in un progetto, a meno che non rappresenti a suo modo una documentazione straordinaria, o l’errore sia tale da essere a sua volta intrigante e significativo, al punto da rendere la foto più che degna.

E la mente vola sempre alle famose foto di Robert Capa dello sbarco in Normandia.

Il cercare giustificazioni, comunque, è una delle attività predilette dei principianti, e molti non la perdono mai.

E’ vero che a volte è difficile distinguere certe fotografie contemporanee, “volutamente sbagliate” come sostengono gli autori (magari quotatissimi), da quelle di amatori che sbagliano senza volerlo, ma basta vedere il corpus del progetto, o l’intera produzione del fotografo, per capire se di incidente o di scelta si tratti.

Come sostengo sempre, infatti, un errore non è mai un errore e basta: è una possibilità.

Foto storte, sfocate, mosse, sovra o sottoesposte, mal composte e così via possono essere non solo utili in un progetto, ma addirittura belle a vedersi e significative. (qui il mio articolo sull’importanza di fare foto sbagliate)

Tutto dipende dall’artefice che le ha realizzate: se è consapevole o meno delle proprie capacità e di quel che vuole dire.

Se è vero come sosteneva Cartier-Bresson che la nitidezza è un concetto borghese – e io ne sono convinto: la ricerca della massima nitidezza può essere a sua volta un errore, se non giustificata da una qualche motivo – è anche vero che se vi si rinuncia dobbiamo sapere perché.

Ad esempio, perché siamo in un contesto in cui non si può utilizzare il treppiedi, siamo in una città in guerra con l’oscuramento notturno, e durante il bombardamento eravamo in fuga mentre scattavamo le foto.

Il critico o lo spettatore che si lamenta della scarsa nitidezza di una fotografia realizzata in un contesto del genere è ovviamente un cretino, se la foto è comunque interessante. Ma ci sono molti altri esempi meno estremi.

Sta di fatto che il vizio supremo che tanti fotografi hanno è quello di trasformare la fotografia in una sorta di medicinale con un “bugiardino” allegato che ne illustra i pregi, le precauzioni nell’uso e ovviamente le controindicazioni, legate a una lunga serie di giustificazioni.

Lo so la foto è inguardabile, sembrano dirci, però si tratta di un soggetto rarissimo. Va bene, se è una fotografia scientifica (ad esempio quelle fatte con fototrappole ad animali in via di estinzione) o di mera documentazione, ma se la si spaccia per fotografia creativa, c’è qualcosa che non va.

Il massimo è raggiunto da quei fotografi che passano molto più tempo a scrivere dei testi da allegare alla fotografia, testi in genere criptici e velatamente poetici, piuttosto che a scattare la foto stessa. Ne conosco parecchi, e alcuni sono anche bravi, ma se ne dimenticano e francamente non so bene perché.

Io ho sempre considerato utili le foto sbagliate. Ti fanno arrabbiare, soprattutto per l’occasione persa, ma ti insegnano tantissimo. Andrebbero conservate come memento, e col tempo diventeranno sempre più rare. Ma non spariranno mai del tutto, per fortuna.

Temo il giorno in cui per ogni scatto otterremo una foto perfetta!

La fotografia sarà del tutto morta, a quel punto. Già oggi non siamo molto lontani da questo traguardo che molti anelano come una meravigliosa conquista del progresso e altri, come me, schifano come la vittoria della tecnologia sull’uomo che, per essere davvero un artista, deve saper sbagliare, e alla grande.

Tutti i grandi artisti della storia hanno commesso errori, vuoi per un eccesso di autostima, vuoi per un eccesso di sperimentazione: basti pensare a Leonardo e alla sua “Battaglia di Anghiari” (leggi la storia di questo errore del grande Leonardo). Sperimentare nuove tecniche va bene, ma il prezzo da pagare a volte è altissimo.

Tipiche foto da non giustificare

foto sovraesposta foto sottoesposta foto sfocata foto mossa foto micromossa

Difendere o  non difendere la tua foto?

Comunque, se ti capita a volte di metterti lì a difendere con le unghie e i denti le tue foto francamente bruttine, prova a fare questo check delle stesse, prima di buttarle nell’agone di Internet o peggio:

1 – Il fotografo è sempre il peggior giudice della propria opera. Se non sei convinto del risultato ottenuto, fallo vedere ad amici, parenti, conoscenti; all’inizio meglio evitare gli “esperti” (se non li conosci come persone sagge) perché tendono a distruggere senza pietà, mentre a te occorre non solo qualcuno che ti dica che la foto non funziona, ma possibilmente anche perché;

2 – Analizza freddamente la fotografia. Se non sei del tutto convinto a livello istintivo, ma sai che ha delle potenzialità, ad esempio perché il soggetto è importante, applica la “regola del freezer”: mettila da parte per uno o due mesi e poi riguardala. Io lo faccio regolarmente e il 99% delle volte poi le getto senza rimpianti. Ma quell’1% è prezioso. (Scopri come si legge una fotografia).

3 – Evita però quella che io chiamo “la rupe Tarpea”, non cancellare subito la foto “sbagliata” perché ha molto da insegnarti e se non la analizzi per bene non saprai mai cosa sia. Se hai commesso un errore, questo può essere legato alle condizioni del momento (dovevi agire istantanemanete, era una situazione di urgenza o pericolo), ma anche a delle tue mancanze tecniche, che puoi facilmente colmare se ne hai conoscenza;

4 – Ricorda che hai sempre tempo, almeno la gran parte delle volte. Perciò: pensa! Esegui mentalmente la check list delle procedure di scatto (Messa a fuoco? Inquadratura? Diaframma? Tempi? E così via) prima di premere il pulsante di scatto, oppure – se sai che dovrai agire con una certa fretta – imposta tutto in anticipo (ad esempio utilizzando l’iperfocale, un tempo di scatto sicuro e alti ISO), o affidati agli automatismi, che è sempre meglio evitare ma a volte ti permettono di fare cose altrimenti impossibili;

5 –  Non giustificare mai la tua fotografia: mai! Spiegala, se vuoi, illustrala, puoi anche ammettere che non è perfetta, che certo in quella scena di street c’è un po’ di micromosso, o di sovraesposizione, ma che hai scelto (sottolineo scelto) di salvarla perché la trovi significativa e degna per un determinato motivo. Nessuno avrà da ridire, anche se non tutti l’apprezzeranno;

6 – Ricorda che non esistono foto indispensabili: non più almeno, da quando il digitale ha vinto la sua battaglia (in agilità, debbo dire). Non solo perché tanti errori (ahimè) si possono correggere in postproduzione, a cominciare dalla nitidezza sino allo sfocato, ma anche perché se un tempo ti accorgevi dell’errore solo a molti giorni di distanza dallo scatto, dopo lo sviluppo e quando era oramai troppo tardi, oggi puoi saperlo quasi subito, e ripetere la fotografia. Non sono del tutto certo questo sia un bene – si tende a essere molto più superficiali – ma di certo è tranquillizzante. Inoltre oramai di fotografie ce ne sono anche troppe e la quantità di foto in circolazione è tale che in fondo non conviene mostrare foto che non difenderemmo davvero a costo della vita. E foto così sono davvero, ma davvero rare, come diamanti preziosi.

Credo che nel momento in cui non staremo troppo lì a cercare giustificazioni per far vedere agli altri una foto sbagliata come se fosse una fotografia valida, sapremo di aver raggiunto una buona maturità creativa.

Il fotografo consapevole lo si distingue non per le foto che fa, ma per quella che getta via senza versarci su lacrime di coccodrillo.

Se ne dubiti, pensa ai fogli di provini a contatto dei grandi fotografi, pensa alle foto di Marilyn Monroe sotto le lenzuola bianche scattate da Douglas Kirkland (1961), una più bella dell’altra, ai nostri occhi, e in gran parte scartate dal fotografo (e dalla stessa attrice, che era molto severa su questo).

Ma le più efficaci divennero un reportage-icona in grado di sfidare gli anni e di sopravvivere al soggetto, di cui divene addirittura la rappresentazione quasi “ufficiale”.

Tieni sempre nella tua testa un cestino virtuale: scegli, seleziona, sii inflessibile. E’ dura, ma funziona.

E lascia sempre a casa il blocchetto delle giustificazioni.

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