
Ho appena finito di leggere il libro di Claudio Marra “Le idee della fotografia“, un’antologia di brani tratti da autori di diversa estrazione (quasi mai fotografica, ma filosofi, linguisti, semiologi, saggisti, critici…) che, dagli anni ’60 in poi, si interrogano sulla vera natura di questa “nuova” arte. Il libro risale ai primi anni duemila, dunque accenna appena alla fotografia digitale che, all’epoca, era ancora una promessa, più che una solida certezza.
Di lì a poco la portata dei saggi raccolti da Marra sarebbe in effetti dovuta essere rivista. Infatti, il digitale cambia di parecchio quel che era un fondamentale assunto della riflessione teorica sulla fotografia in generale. Se nell’analogico la luce riflessa dal soggetto raggiunge una superficie sensibile (i grani d’argento) che per questo cambiano definitivamente il loro stato fisico-chimico dando vita a un oggetto concreto (il negativo) in cui l’immagine (il segno) è impresso definitivamente, con il digitale tale fisicità scompare, sostituita da un insieme di codici binari che può essere modificato a piacere e in modo radicale.
La corrispondenza tra il soggetto e la sua registrazione, base della cosiddetta “natura indicale” della fotografia sembrerebbe superata.
C’è da dire che molti critici – lo stesso Marra, tra gli altri – ritengono che se pure cambia il supporto e la modalità di registrazione – ma meno di quel che normalmente si pensi – l’intento rimane simile, anche se non identico.
Personalmente concordo con questa impostazione. Da fotografo analogico passato al digitale già nel 2002, posso affermare che il mio modo di operare è ovviamente cambiato, ma l’approccio al soggetto e il modo di “vedere” la realtà non si è poi modificato granché. Il digitale – è vero – apre nuove prospettive sull’elaborazione dell’immagine e sulla sua trasformazione ex post, ma questo se vogliamo è una possibilità ulteriore a cui potremmo anche non fare ricorso. E d’altra parte anche con l’analogico nel passaggio dal negativo alla stampa si potevano effettuare modifiche anche molto importanti.
Ritengo che non sia stata dunque la fotografia digitale la vera rivoluzione, in senso disruptive, bensì l’arrivo dei “fotofonini” prima e degli smartphone poi. Con questi strumenti davvero il paradigma della fotografia è totalmente cambiato, perché anche le persone che non avrebbero mai fotografato – se non magari con una compattina in occasione di feste o viaggi – ora possiedono uno strumento che consente loro di scattare foto, elaborarle, pubblicarle e diffonderle ovunque, teoricamente in ogni angolo del pianeta.
Si dirà che questo non è un cambiamento che riguardi la fotografia “seria”. Resta comunque il fatto che improvvisamente, in soli 15 anni, la fotografia è diventata qualcosa di comune, quotidiano e popolare quasi come il linguaggio verbale. Tutti fotografano, già da giovanissimi. Molti iniziano anche a masticare un po’ del linguaggio fotografico di base: guidati dall’intelligenza artificiale del loro “device” questi “esseri umani fotografanti” iniziano a conoscere la regola dei terzi, la composizione, l’esposizione, l’uso del colore, anche il bianco e nero. Imparano che con il digitale lo scatto è solo il primo passo, che è possibile creare tutta una serie di “effetti” che riproducono tecniche del passato o permettono di imitare grandi fotografi. Frequentano la fotografia, in qualche modo.
La banalizzano? Di sicuro, né più né meno di come si fa con il linguaggio verbale, però. Le persone utilizzano la lingua italiana, spesso declinata nel dialetto locale, per le proprie comunicazioni quotidiane. E’ una lingua in grado di stroncare per infarto qualsiasi accademico della Crusca. E’ una lingua brutta e sporca, ma anche vivissima. E nulla esclude che tra queste persone ce ne siano alcune che poi, a casa, si mettano a scrivere per bene dei testi, dai romanzi ai racconti, o anche saggi di varia natura. Lo faccio anche io, per dire. Nelle comunicazioni quotidiane non mi sforzo certo di nascondere il mio accento romanesco, e mi concedo il lusso di parole gergali (diciamo pure “parolacce”) senza remore, ma non scriverei mai così, anche perché non sono certo Gadda o Pasolini, che se lo potevano permettere.
Similmente, le persone usano la fotografia in modo istintivo e superficiale, al solo scopo di comunicare velocemente e a volte in modo efficace una sensazione colta al volo. Molti di loro non si porranno mai il problema di migliorare tale efficacia, di raffinare lo stile, di lavorare meglio e con più cura. Non gli serve, quel che fanno gli basta, perché dovrebbero? Ma ci saranno anche coloro che inizieranno un percorso che li porterà ad essere dei veri fotografi, o almeno a mettere “in bella scrittura” le loro foto quotidiane. Un gran bel risultato, in fondo, e credo che prima o poi occorrerà che gli studiosi si mettano ad esaminare anche questa immensa mole di centinaia di milioni di foto scattate (ogni giorno!) in giro per il mondo, il cui potenziale resta a volte inespresso, eppure è presente.
La cosa fondamentale, però, è che tale processo di democratizzazione della fotografia ha cambiato del tutto il clima sociale rispetto a questo strumento. Ciò che è quotidiano e conosciuto perde spesso la propria aura: se tutti fotografano, la fotografia sembra qualcosa di facile, alla portata di chiunque. E non a caso faticano ad emergere i giovani fotografi, nati in questo contesto e a cui non basta saper fare delle buone fotografie visto che, anche solo statisticamente, ci sono milioni di persone in grado di farlo anche loro.
A volte nemmeno basta inventarsi qualche “tecnica” strana o elaborazione particolare perché, sempre statisticamente, altri milioni di persone la utilizzeranno, o lo faranno appena l’avranno conosciuta.
Per questo, come ho già scritto in questo blog, alla fine resta solo la possibilità della narrazione fotografica, cioè dei progetti. Avere storie da raccontare, o situazioni da illustrare, o anche emozioni da comunicare resta – e resterà sempre – qualcosa di personale. Nessuno può farlo in modo identico. Anche sullo stesso tema ogni progetto sarà diverso dall’altro. Insomma, è come con i romanzi: tutti useranno le parole che sono un bene comune (la nostra “lingua”), ma solo (relativamente) pochi riesciranno a utilizzarle per raccontare le proprie emozioni e anche se magari le storie o i temi saranno simili, di certo non saranno uguali!
Proprio questo aspetto – comunque già presente in passato, ai tempi della pellicola – mi sembra latitare nei saggi proposti da Claudio Marra. Insomma, i vari esperti si arrovellano sulla natura della fotografia, sulla sua aderenza o meno al soggetto, sulle tecniche e sugli approccio messi in campo dai fotografi per sentirsi davvero degli “artisti”, ma praticamente mai si ragiona delle fotografie editate e organizzate per creare un insieme organico che appunto definiamo portfolio o progetto. Non si tratta solo di assemblare qualcosa, ma di crearlo ex novo. Se ben fatto, un progetto non è un mero insieme di foto ma un corpus unico che andrebbe analizzato appunto come qualcosa di distinto dalle singole foto che lo compongono. Anzi, che esalta e moltiplica il valore delle stesse come sostenuto, credo con efficacia, da fotografi come Minor White.
Sta lì, a mio parere, la forza della fotografia, quel che la distingue ad esempio dalla pittura o dalla scultura. Un potere che il digitale ha semmai rafforzato e lo smartphone affatto intaccato, aprendo infinite possibilità di “storytelling“, ad esempio.
A volte fotografie che prese da sole sembrano “mute” cantano come usignoli all’interno di progetti fotografici ben concepiti. E lo dimostrano i numerosi esempi di portfolio di valore e significativi creati grazie alle cosiddette “adozioni fotografiche” in cui artisti-fotografi mettono assieme – secondo un’idea precisa – fotografie non scattate da loro, ma magari trovate in qualche mercatino oppure online. Progetti nati sulla base del solo editing, insomma.
I tempi cambiano, le tecnologie cambiano ma noi restiamo umani e abbiamo voglia di raccontare e di raccontarci. Questa è la vera sfida.