Il Punto di Vista nel Paesaggio

Ansel Adams sosteneva che per ottenere una buona fotografia di paesaggio occorresse studiare bene il punto da cui riprendere la scena che abbiamo di fronte. Per un paesaggista questo significa identificare un “vantage point“, insomma una sorta di belvedere che consenta di spaziare con lo sguardo e, all’interno del panorama ampio, ritagliare la porzione che si ritiene efficace.

Naturalmente non è sempre così, a volte si è immersi nel paesaggio o gli elementi che vogliamo fotografare sono vicini e si ricorre a un grandangolo, anche molto ampio. Ma non c’è dubbio che la gran parte delle fotografie di autori come Edward Weston, Ansel Adams o Minor White fossero realizzate in questo modo.

Il che sembra essere in netta contrapposizione con l’approccio contemporaneo, che ha fatto spesso tesoro della frase attribuita a Capa: “se la tua foto non è buona è perché non eri abbastanza vicino“. Parliamo di fotografia di reportage, ma alla fine vale per quasi ogni genere fotografico.

Generazioni di fotografi si sono dunque ingegnati su come avvicinarsi di più, su come essere più coinvolti, su come entrare nella vita delle persone, vivere con loro, raccontare le loro storie dal di dentro o rappresentare i luoghi e i paesaggi attraverso dettagli, elementi specifici e a volte minimi. Come a dire “sono qui, ora, dentro la scena“, lasciando poi allo spettatore di ricostruire il resto.

Mi sembra un approccio di sicuro effetto, sia nella fotografia sociale che in quella paesaggistica. E debbo dire di averlo applicato anche io per il mio progetto (e libro) “Signs, in cui i piccoli dettagli lasciati dall’uomo nel territorio diventano un “trigger” che fa scattare (auspicabilmente) riflessioni più ampie.

Dal particolare all’universale, insomma.

E a onor del vero mi sembra che oramai l’altro metodo (dall’universale al particolare) sia parecchio decaduto. I più lo trovano noioso e poco efficace.

Nella fotografia di “street” – il campo d’elezione principale degli adepti dello “stai vicino” – questa scelta di stare in mezzo all’azione si è fatta man mano sempre più forte ed estrema. Non che Garry Winogrand, Lee Friedlander o i “grandi vecchi” non stessero lì, in mezzo alla strada, e che non ci fossero già degli “estremisti” (penso a Bruce Gilden, con i suoi flash sparati in faccia alle persone), ma a volte mi sembra che oggi si esageri.

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La riflessione m’è venuta in mente a proposito del mio nuovo progetto fotografico, oramai in quasi in dirittura d’arrivo. Credo che quando si inizia un progetto fotografico, di qualsiasi tipo (il mio è sul contesto paesaggistico urbano e periurbano) occorra scegliere con cura il punto di vista.

E’ come nei romanzi: lo scrittore può avere un punto di vista narrativo interno (con un racconto in prima persona o una forma diaristica) o esterno (con una onniscenza quasi divina) rispetto alla vicenda narrata. Insomma può essere parte della storia, e allora farà finta di saperne quanto il lettore, scoprendo con lui, man mano, quel che avviene, oppure saprà gia tutto, rivelandolo nel corso dello sviluppo della trama.

Stare dentro o fuori la storia comporta una resa diversa del romanzo.

Sono due metodologie (variamente mixabili) che hanno pari efficacia e pari dignità, ma comunque denotano diversamente l’opera letteraria.

Certo, è anche possibile avere diversi punti di vista, essere al contempo dentro e fuori il tema del romanzo, o avere addirittura molteplici punti di vista, quasi ci fossero più narratori contemporaneamente. Ma è il caso di osservare che non è un sistema semplice raccontare una storia così e, in campo fotografico, significa anche essere assai abili con l’editing.

Infatti le foto “interne” e quelle “esterne” vanno poi ben collegate e organizzate ed è per questo che simili progetti sono complessi e ad alto rischio di insuccesso. Il più delle volte richiedono l’intervento di un “curatore” esterno, professionale.

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Quando si tratta di realizzare progetti “a tema”, cioè quando vogliamo comunicare qualcosa che conosciamo, abbiamo scoperto, o proviamo a livello interiore, il punto di vista esterno è secondo me ideale. Inutile far finta di scoprire le cose strada facendo, se sappiamo già dove andare a parare. Sarebbe solo un inganno.

Questo non significa che in occasione di progetti che partono senza sapere dove ci porteranno noi non avremo già delle idee. Semplicemente iniziamo il progetto perché ci confermi – o ci smentisca – quel che già pensiamo di sapere. Sono progetti aperti, possiamo dire. Dunque ci buttiamo nelle nostre esplorazioni e stiamo a vedere che succede.

Quando Robert Frank iniziò a viaggiare in America per raccontarne la cultura e la società aveva certamente dei punti fermi, ma poi viaggiando e fotografando avrà fatto delle scoperte e solo dopo si sarà fatto un’idea definitiva. Forse. Perché spesso l’esplorazione porta più domande che risposte, ed è bene così.

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Viceversa, come nel mio caso, quando quel che si vuol comunicare è già nella nostra testa, lo abbiamo già vissuto, o verificato, insomma “lo sappiamo” per certo, il punto di vista esterno è ideale. Non intendo dire che questa sia la scelta giusta sempre e in ogni occasione, tuttavia mi sembra che sia una riflessione utile e spesso preziosa.

Insomma, più che la frase di Capa, dovremmo in questo caso (io lo sto facendo, ad esempio) tenere a mente l’epitaffio che Man Ray fece scrivere sulla sua tomba: “distaccato, ma non indifferente“.

Ansel Adams, da cui siamo partiti, sapeva esattamente cosa “voleva dire” sul paesaggio americano. Le sue foto sono spesso riprese da lontano, possono apparire distaccate, ma non sono mai indifferenti. Quando in tempi recenti altri fotografi, più coinvolti a livello sociale, hanno ripercorso le sue tracce riprendendo gli stessi luoghi mostrandone però “il dietro le quinte”, i parcheggi affollati di Inspiration Point o la strada davanti Hernandez (paesino che nel frattempo è anche malamente cresciuto), hanno appunto scelto un punto di vista interno.

Scoprendo quasi con sorpresa che alla fine in buon Adams aveva ragione: decidere dove collocarsi per fotografare ha grande, grandissima importanza. Sono linguaggi comunque diversi.

Così per il mio lavoro ho scelto un punto di vista esterno, e anche lontano, invertendo quasi il concetto dietro la frase di Capa. Se sei troppo vicino, non vedrai mai il contesto generale. Le foto saranno buone perché – appunto – coinvolgenti, ma nello stesso tempo perderai lo sguardo ampio che solo una prospettiva lontana può dare. Conoscerai molto bene un aspetto, anche profondo, ma del resto rimarrà solo un’idea vaga. E anche se a volte mi avvicino, anzi sono molto vicino, tuttavia mantengo questa distanza che non significa assenza di partecipazione, anzi. Tengo a mente l’epitaffio di Man Ray e credo che per me funzioni.

Non è detto che funzioni per tutti, ma mai dare per scontato questo aspetto della fotografia o, peggio, ignorarlo del tutto! La fotografia, come la letteratura o in generale l’Arte, è una questione di scelte. Rimanere nel guado, cercare di barcamenarsi per tener dentro una molteplicità di approcci o di idee è il viatico sicuro per il fallimento. E se anche scegliere è doloroso – perché dovremo eliminare qualcosa a cui comunque teniamo – è anche indispensabile.

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