
Intervista di Alex Coghe al fotoreporter Marco Cantile.
Marco Cantile è un fotografo e fotoreporter freelance con sede ad Aversa, vicino a Napoli. Nel corso del tempo ha collaborato con diverse agenzie fotografiche e, in particolare, dal 2011 al 2017 con l’agenzia di stampa LaPresse, con la quale ha coperto i principali eventi di cronaca, politica, sport e spettacolo. E’ iscritto all’Ordine dei giornalisti e le sue fotografie sono state pubblicate dai principali quotidiani nazionali e internazionali. Attualmente collabora, fra le altre cose, con l’agenzia fotografica internazionale Getty Images.
Nell’articolo troverai alcune delle sue foto a personaggi / eventi significativi degli ultimi anni. Puoi approfondire il lavoro di Marco anche sul suo sito: www.marcocantile.com

Ritratto di Marco Cantile
Questa intervista l’ho voluta tantissimo e ci pensavo da tempo. Perché Marco non è uno dei soliti nomi che si trovano in mille interviste sul web e perché Marco è un fotoreporter di mestiere, come mi piace definire chi non si è fatto avanti a forza di awards vinti, ma piuttosto con l’impegno e il tanto lavoro che gli hanno permesso di fotografare tantissimi eventi, personaggi, storie.
Ciao, Marco. Io e te ci conosciamo da moltissimo tempo. Entrambi “giocavamo” in un forum dedicato a reportage e street photography. Poi io mi sono trasferito in Messico, mi dedico alla documentazione sociale e collaboro con due agenzie giornalistiche, mentre tu sei diventato un fotoreporter. E proprio da qui vorrei iniziare questa nostra conversazione: cosa significa, oggi, essere un fotoreporter?
Bella domanda: diciamo che oggi essere fotoreporter è una vera e propria “missione”. Nel senso che con la crisi dell’editoria, campare di questo mestiere è diventato quasi impossibile. Quindi quello che oramai spinge ognuno di noi – di quelli che sono rimasti a crederci – a continuare è più che mai solo ed unicamente la passione.
Questa intervista finirà per essere pubblicata nella mia rubrica per Reflex Mania “L’uomo nella folla” in cui mi occupo di fotografia di strada in maniera non convenzionale. Quanto pensi abbia dato alla tua visione l’esperienza come fotografo di strada?
Direi che è stata basilare. Chi prima di diventare fotoreporter è stato un “fotografo di strada” ha sicuramente qualcosa in più. Nel fotogiornalismo l’attimo da catturare è già lì, bisogna saperlo cogliere, e non è una cosa semplice come potrebbe sembrare, ma essenzialmente è già “formato”. Nella street photography, invece, te lo devi cercare, devi girare e rigirare alla ricerca di un attimo e di una forma di elementi che nasce e rinasce ogni secondo.
Quali sono le differenze più evidenti tra il fotografare in strada per conto tuo e quando sei lì per documentare un evento di cronaca?
Molteplici. Un evento di cronaca comprende diversi meccanismi, umani e tecnici, a cui bisogna prepararsi. Per esempio, si fotografa spalla a spalla con i colleghi, a volte nella calca, con gente che ti impedisce di fare il tuo lavoro etc. Inoltre bisogna essere ben informati su quello che si andrà a documentare, per documentarlo al meglio. In strada l’approccio è riflessivo e l’aspetto fondamentale, direi, è la pazienza. Il saper aspettare. Non che non si debba pazientare anche nella cronaca, anzi, ma è un modo diverso di aspettare.
Tu lavori soprattutto a Napoli. Come si racconta la tua città?
Non è semplice. Per chi come me la conosce il rischio è quello di non riuscire a trovare stimoli. Fortunatamente proprio a Napoli non mancano mai, anche se quello a cui bisogna stare attenti è soprattutto non scadere nella retorica che accompagna questa città da sempre, la pizza, il mandolino etc, tanto per intenderci.
Tu fotografi moltissimi personaggi, da attori a uomini politici. Chi è stato finora il più facile da fotografare? E il più difficile?
Non ho trovato mai particolari difficoltà, se non “ambientali”, nel senso che a volte la notorietà di un personaggio, sia che esso sia politico o dello spettacolo, causa la presenza di una folla di ammiratori, di giornalisti e di persone della sicurezza, che inevitabilmente e molto spesso, rendono il tuo lavoro più difficile, pur essendo, a volte, un valore aggiunto. Quindi i personaggi sono soggetti ambivalenti, da questo punto di vista.
Ognuno di noi ha le sue idee e le sue convinzioni etiche e politiche. Inevitabilmente, non tutti possono esserti simpatici. Come fai per fotografare chi proprio non ti è simpatico?
Per me non è un problema. Quando fotografo mi concentro su quello che devo documentare e non mi lascio influenzare da chi ho di fronte o dalle mie tendenze politiche. Questo vale anche per le situazioni. Cerco per quanto possibile di spogliarmi dall’emozione del fatto e cerco solo di capire come poterlo rendere agli altri nella miglior modo possibile. L’emozione arriva dopo, alla fine, e a volte è una vera mazzata. Come quando ci si ritira da eventi tragici. Le proprie convinzioni etiche, quelle, non devono mai venire meno.
C’è stato un momento, una storia particolare, magari divertente che vuoi raccontarci accaduta nella tua carriera?
Ero ad Amatrice per documentare il terremoto quando all’improvviso vidi un giovane “giornalista” che si faceva un selfie con le macerie sullo sfondo. Mi trattenni a stento da prenderlo a calci, e in quel preciso momento pensai che il concetto di “fotografia” era arrivato ad un punto di non ritorno.
E’ giusto secondo te affermare che un fotoreporter debba documentare la realtà? E se si lo fa sempre e comunque, o a volte ha opportunità di oltrepassare il limite della mera documentazione?
Il punto è che si sceglie sempre quale realtà documentare. E’ l’inquadratura che decide qual’è la tua realtà, o il non inquadrare e scattare. Insomma, è difficile delineare un confine tra realtà e documentazione. Se intendi, come mi sembra di capire, che andare oltre la mera documentazione significa, a volte, “manipolarla” – eccetto che graficamente in post produzione, cosa che non bisogna mai fare – allora ci può stare. Per esempio, la “posa”, in certi casi è necessaria, e non è certo qualcosa di menzognero, entro certi limiti.
Quanto e come la tua soggettività entra nel tuo lavoro di cronista?
Difficile capirlo. Si cerca di essere sempre oggettivi nel giornalismo, ma per quanto ci si sforzi non ci si riesce mai pienamente.
Veniamo ad un tema a me assai caro: l’indipendenza di noi fotografi rispetto ai mezzi di comunicazione e alle loro scelte. Come fotogiornalista ti poni mai il problema di come saranno usate le tue immagini? Ed è sempre stato rispettato il tuo lavoro dagli organi di informazione?
Me lo pongo spesso il problema, e infatti in alcuni casi certe fotografie non le rendo disponibili, proprio per evitare che vengano strumentalizzate. Lavorando per i mezzi di comunicazione, di cui, attenzione, noi stessi facciamo parte, non credo ci possa essere più di tanto un’indipendenza. In linea di massima non penso che il mio lavoro non sia stato rispettato, più che altro direi che in alcuni casi è stato mal interpretato.
Noi viviamo in un mondo che non è più quello in cui si sono mossi molti dei maestri della fotografia di reportage che tutti riconosciamo come tali. Credi sia necessario ripensare al ruolo del fotogiornalista, oggi? E se la tua risposta è affermativa, come si deve muovere oggi un fotoreporter?
E’ proprio così, viviamo in un mondo radicalmente diverso, non solo dal punto di vista umano ma soprattutto professionale ed economico, e non so sinceramente come possa essere ripensato il nostro ruolo. Sicuramente si andrà verso la figura del reporter totale, che scrive il pezzo, gira il video e fa le fotografie. Oggi non consiglierei mai ad un giovane di intraprendere la carriera di fotoreporter in senso classico.
Tu per me sei un grandissimo fotografo. E non te lo dico né per piaggeria né per la nostra amicizia, ma perché lo penso veramente. Eppure non sei tra i più celebrati. A volte si vede accadere questo: i vincitori di awards salgono con più facilità agli onori delle cronache, mentre il sottobosco di professionisti che lavora raramente…non sarebbe ora di cambiare questo modo di puntare i riflettori su chi fa fotografia?
Ti ringrazio e so che sei sincero, ma i grandissimi fotografi sono ben altri. Per quello che mi riguarda in relazione all “visibilità” il fatto è che purtroppo oggi, se non partecipi ad un contest fotografico, non ne hai nessuna, ed io che non partecipo mai, tranne quelle volte in cui ho partecipato al WPP, sono fuori dai “giochi”. Ormai funziona così e non è una cosa positiva. Cambiare il modo di puntare i riflettori la vedo difficile, proprio perché il mondo della fotografia per via della sua massificazione, è più che mai vanaglorioso, e pieno di fotografi sedicenti che fanno anche concorrenza ai professionisti.
Se ti dovessi chiedere una sola foto, la foto più importante per te tanto a livello professionale che intimo, quale sceglieresti? E perché?
La prossima che farò e che abbia un alto valore di forma e di contenuto. Ed il perché è semplice: solo pensando che la nostra prossima fotografia sia la più importante si può riuscire a dare il massimo ogni volta. Cullarsi sui risultati è “pericoloso”.

Marco Cantile, fotoreporter