La Buona Fotografia secondo Filippo Tommaso Ranalli

La Buona Fotografia è un articolo di Filippo Tommaso Ranalli

Mi chiamo Filippo Tommaso Ranalli, sono un fotografo professionista. Ho realizzato varie mostre sul territorio nazionale (triennale di Milano, Palazzo Reale di Torino, MICRO di Roma). La mia attenzione per la fotografia mia ha portato a lavorare anche come photoeditor con diverse case editrici, ma sopratutto a sviluppare una editoria indipendente. Ho da sempre ritenuto la fotografia come qualcosa di magico che ci permette di fermarci a riflettere su chi siamo e su dove stiamo andando. Nella mia ricerca ho avuto la possibilità di lavorare con grandi professionisti del settore e di acquisire conoscenze da fonti disparate, anche grazie alla frequentazione di un corso di Laure in Arti Visive presso lo IED di Torino.Ad oggi lavoro come consulente iconografico e sviluppo arte visiva che diffondo anche grazie a Wazzina (fanzina portfolio indipendente). 

Quando reflex-mania mi ha contattato, chiedendomi di scrivere una serie di articoli per esporre il mio lavoro e il metodo che uso, sono rimasto piacevolmente dubbioso….

Sono un fotografo trentenne che si occupa di servizi commerciali e realizza immagini per ricercare un linguaggio più tagliente, cosa posso avere da raccontare in, non uno, ma una “serie” di articoli?

Indubbiamente, i miei studi pregressi nella materia mi offrirebbero molte lezioni “ad hoc” già pronte, ma sarebbe più che altro una trascrizione dei miei appunti universitari.

Di spiegare la tecnica o i trucchetti del mestiere non se ne parla, perché esiste già chi lo fa e molto meglio di me.

Ciò di cui vorrei allora raccontarvi è di come e di cosa gli studi e l’analisi delle immagini mi abbiano permesso di produrre come fotografo..

Vi parlerò quindi della parte “autoriale” del mio lavoro. Cercherò di farlo tramite cinque articoli, che tratteranno la fotografia (contenuto) come oggetto fisico destinato a una forma (contenitore) atta alla comunicazione della stessa.

Dedicherò il primo articolo di questa rubrica al concetto di buona fotografia.  Eviteremo infatti di definire le fotografie come belle o brutte, perché è un concetto che per me non esiste.

In primis occorre invece distinguere l’immagine tra pregressa e latente, ed è proprio la relazione tra questi due concetti che mi permetterà di raccontarvi il mio personale concetto di buona fotografia.

L’immagine pregressa

Il fotografo incorpora nelle immagini il bagaglio culturale che si porta appresso. Questa è la capacità più importante, della quale spesso ignoriamo l’esistenza.

Lo scrittore Jonathan Lethem sostenne che il 90% di ciò che viene definito “originale” è così definito perché non si conoscono i dettagli sulle fonti. O, per dirla in altre parole:

Non c’è niente di nuovo sotto il sole. Ecclesiaste, Antico Testamento 1:9

Potremmo però credere che un’opera priva di originalità sia priva di valori artistici, concettuali o comunicativi. In realtà è esattamente l’opposto.

La capacità dell’essere umano di innovare continuamente ciò che è già stato realizzato non lo rende un “copione”, lo innalza al contrario ad autore consapevole di ciò che realizza.

Noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’acume della vista o l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti. Giovanni di Salisburgo, scritti a proposito di Bernardo di Chartres, filosofo francese vissuto nel XII secolo

Il senso di questa nota citazione è definire l’idea della cultura come una continua costruzione degli uomini. In cui i pensatori moderni, pur nani rispetto ai grandi fondatori del sapere del passato, possono tuttavia sopravanzarli e progredire proprio in virtù delle acquisizioni precedenti.

Proprio come bambini che imitano le azioni dei genitori, così noi fotografi citiamo inconsciamente le immagini che sono rimaste nella nostra memoria, che ci hanno occultamente ispirato.

Tutto ciò che realizziamo è un mattone in più che appoggiamo sulla torre della storia iconografica.

I fotografi sono dei minatori che raccolgono e accaparrano le emozioni trasmesse dalle immagini. Per nostra fortuna la memoria ha la capacità di difenderci da ciò che non amiamo veramente, di fare una cernita, che ci permette di non ritrovarci metaforicamente “sommersi in casa”.

Questo processo ci permette di creare un bagaglio personale di ispirazioni che si riverserà nelle nostre creazioni, rendendole personali. È La nostra firma, è ciò che ci afferma come fotografi.

 Serie di immagini d’archivio industriali – Parmacotto, Acciai speciali Cogne, Parco Dora.

L’immagine che produrremo sarà frutto della nostra condizione nel momento in cui fotografiamo. Magari di una litigata con la moglie, della gioia di una bella giornata o di qualsiasi avvenimento antecedente all’atto fotografico.

Ecco allora che l’immagine ci mette in contatto con delle emozioni sepolte nel nostro inconscio, che esploderanno e verrano comunicate tramite la fotografia. Proprio in quanto l’utilizzo del media fotografico prevede la comunicazione dell’ IO del fotografo e un’attenta e conscia analisi dell’immagine lo rivela.

Come per la scrittura, la fotografia ha una propria grammatica, una propria grafia e una propria sintassi. Le quali generano racconti per immagini fotografiche.

Faust, Torino 2016. Da “Mancanze”.

Per spiegare cos’è l’immagine pregressa, è necessario capire che nessun fotografo realizza una fotografia.

Sotto un profilo prettamente tecnico, l’apparecchio fotografico realizza la fotografia, e noi siamo gli operatori che rendono possibile questo processo.

Sotto un profilo concettuale, il fotografo “prende” la fotografia.

Raccoglie delle forme, create dalla luce, che si manifestano davanti all’obbiettivo Queste possono essere staged not-staged, ma senza una luce, una lente e un supporto, resterebbero immagini latenti. Restano però future immagini pregresse da incorporare al nostro bagaglio.

L’artista è un collezionista di immagini che raccoglie le cose con gli occhi. Il segreto della fotografia è che la macchina assume il carattere e la personalità di chi la tiene in mano. La mente lavora attraverso la macchina. Walker Evans

L’immagine pregressa è quell’immagine che ci appare nella nostra mente, nel momento in cui ci viene proposto un segno fonetico, visivo e testuale.

Se io dico “cane” ognuno di noi avrà un’immagine differente di cane, in base alla nostra cultura. Ciò significa che le immagini che ricercheremo saranno diverse per ognuno di noi. E ciò che andremo a fotografare, aldilà del soggetto ripreso, sarà la nostra idea di narrazione, che metteremo in mostra tramite il soggetto. La nostra idea di cane.

Avviene lo stesso mentre inquadriamo un soggetto.

Nella fotografia più iconica di Steve McCurry, Sharbat Gula viene rappresentata come la madonna: è palese che l’immagine pregressa del fotografo, si riferisse all’infinità d’immagini raffiguranti l’immacolata concezione, di cui la storia dell’arte ne è zeppa.

Prendiamo ora, brevemente, in esame le fotografie del Kosovo, raccolte da James Natchwey nel 1999. I suoi riferimenti per queste fotografie, anche se mai dichiarato, sono le atrocità vissute nel secondo conflitto mondiale, ampiamente testimoniate, tramite immagini e video di repertorio.

La quantità di disperazione e i corpi ammassati, come pezzi di carne Hanno portato il reporter a rivedere tutte quelle immagini in prima persona. Ponendolo come testimone di ulteriori grandi tragedie da narrare, quindi di fatto a realizzare di nuovo le “stesse immagini”.

Non fotografando quindi il conflitto, ma la sua idea delle conseguenze del conflitto, per lui assimilabili a ciò che aveva visto ed interiorizzato durante lo studio della seconda guerra mondiale.

L’importanza dello studio dell’iconografia utilizzata nella storia, è essenziale per la crescita personale del fotografo. Più saranno le immagini conosciute, più sarà facile riprodurre i significati che vogliamo incorporare nella fotografia.

L’unica arte che vale la pena Studiare e quella che posso rubare. David Bowie

È molto importante non restare statici e continuare ad interrogarsi sulle iconografie, per poter crescere come autore. Ad esempio nell’analisi dell’operato di Don McCullin, si nota che i suoi primi reportage operati in Vietnam, durante il conflitto statunitense, lo hanno profondamente segnato.

Hanno portato il suo inconscio a rapportarsi con le atrocità vissute, riportando poi quelle immagini nei suoi futuri lavori. Ciò lo ha incatenato nel suo ruolo di “fotografo di morte”, ed è abbastanza evidente nelle sue fotografie dell’India, nelle quali non è riuscito a rappresentare l’interezza della nazione più eterogenea che conosciamo.

L’autore migliore è l’autore consapevole.

L’onestà intellettuale del fotografo, nel riconoscere gli autori che gli sono stati maestri, non è un demerito. Bensì una forza, è la testimonianza storica di essere un tassello nella storia dell’arte. Non è un ladro, né un copione. Ma si eleva al livello dei maestri e ne instaura un dialogo.

L’arte è un Furto. Pablo Picasso

Va da sé però che una mera imitazione, priva di rielaborazione, non è un buon lavoro. In quanto significa che la cultura presente nell’autore non è stata interiorizzata e fatta propria. È una semplice scorciatoia, ed è plagio.

Nella mostra a cura del MoMA “Mirrors and Windows: American Photography since 1960”, emerge il concetto che la fotografia si definisce in due campi.

Il primo, “windows”, intende la fotografia come una finestra sulla realtà, in cui l’apparecchio fotografico è spettatore di ciò che avviene aldilà del suo telaio.

Nel secondo, “Mirrors”, la fotografia è uno specchio, che costringe lo spettatore ad interrogarsi su se stesso e a rapportarsi con la propria cultura.

Sta a noi la capacità o meno di plasmare la realtà in base al nostro punto di vista.

Spesso una buona istantanea è quella la cui immagine pregressa è ignota. In quanto è frutto di molte immagini, che inaspettatamente si manifestano nell’immagine. Sono scelte rilevabili solo a posteriori. La fotografia come Epifania di ciò che siamo e di ciò che è importante per noi.

È quindi necessario smettere di considerare l’autore come un eremita che dal suo eremo scaglia verità date dalla sua illuminazione. Piuttosto è un buon osservatore che si pone continuamente dubbi e cerca disperatamente risposte nel suo pubblico attraverso le sue opere e nelle sue opere attraverso il suo pubblico.

Per concludere è necessario considerare l’immagine pregressa non solo per l’autore, ma anche per lo spettatore. L’immagine che abbiamo realizzato così ricca di significati e citazioni, per essere tale deve essere presa in esame dal pubblico.

Il quale non è detto che ritrovi i medesimi significati che l’autore ha, consciamente o inconsciamente, incorporato nell’immagine. Nell’arte, come nella fotografia il significato e la narrazione dell’opera sta allo spettatore, non all’autore. Per questo esistono i critici che, grazie alla loro cultura, sono in grado di analizzare l’inconscio dell’autore tramite le sue opere.

Ma la cultura è propria, ed in quanto tale è differente per ogni individuo.

E’ chiaro quindi che le immagini che susciteranno negli spettatori potranno variare in base al loro bagaglio culturale.

L’immagine latente

Il concetto di fotografia come è inteso oggi, la sua distinzione tra digitale e analogico, non ha nulla a che vedere con la sua origine.

Origine che deriva dalla congiunzione dei termini greci luce (φῶς, phṑs) e grafia (γραφή, graphḕ), per cui fotografia significa “scrittura di luce”. La fotografia è opera della luce e nasce da un principio fisico chiamato diffrazione, che è una sua proprietà caratteristica, un fenomeno fisico che l’essere umano conosce da molto tempo.

Le prime testimonianze appartengono al filosofo cinese Mo-Ti, il quale descrive un’immagine capovolta in una camera buia, creata per l’effetto dei raggi solari che fluiscono attraverso un’ apertura.

Anche Aristotele descrive lo stesso principio quando racconta di essere riuscito a vedere un’eclisse di sole raffigurata su una parete di una stanza buia.

Con immagine latente intendiamo tutti quei processi fisici che avvengono prima che i fotoni ”brucino” i sali d’argento della pellicola o le celle del sensore registrino la quantità di luce.

È compito del fotografo ricercare  delle immagini latenti soddisfacenti da imprimere sul supporto. Prima della tecnica e dei vari settaggi per bilanciare la luce, nella fotografia sono necessari i soggetti. Si fotografa solo l’esistente. Ma attraverso l’esistente si possono riconoscere segni per creare significati all’interno dell’immagine.

faust

Coscienza di Zeno, Torino 2016 da “Mancanze”

Vedremo più avanti la distinzione tra stage photography  e istantanea.  Ora, per capire meglio cosa sono i segni che possono essere incorporati nelle immagini, serve distinguere la definizione di segno in tre insiemi, secondo la definizione di Ferdinand De Saussurre:

  • Simboli: sono segni collegati al loro oggetto grazie ad una convenzione, di solito un’associazione mentale. Esempio: cane come rappresentazione di fedeltà.
  • Indici: sono segni che si riferiscono ad un oggetto in virtù di un rapporto fisico diretto con esso. Per esempio, un orologio che indica il momento del giorno.
  • Icone: sono segni che possono significare un oggetto grazie a una mera somiglianza. Per esempio, il diavolo, le emoticon, Marilyn Monroe.

Nessun segno grafico che inseriamo nell’immagine è di per sé icona, indice o simbolo. Per esser tale, bisogna che vi sia interpretazione e che questa sia condivisa tra i pubblici. Il loro utilizzo all’interno della comunicazione è analizzato dalla semiotica.

Ed è ciò che potremmo intendere come un “glossario delle immagini”. Il quale si modifica di pari passo alla cultura che lo ospita. Per analizzarlo utilizzeremo un’immagine di Botticelli, in quanto il suo linguaggio è conosciuto universalmente.

Gli studiosi considerano l’opera un’allegoria, ricca di segni iconografici che ci permetteranno di capirne al meglio l’uso. Per contestualizzare la cultura di riferimento dell’opera è necessario sapere che il dipinto rappresenta il regno di Venere secondo l’iconografia neoplatonica.

La primavera, Sandro Botticelli. Firenze 1478. Uffizzi.

La figura maschile di sinistra, è l’icona di Mercurio, dai calzari alati, mentre la sua mano è un indice, atta ad allontanare le nubi che sono un simbolo. La trascrizione testuale potrebbe essere: L’autore (mercurio, messaggero degli Dei) è qui per annunciarci (la mano che indica) che i tempi bui (nubi) stanno svanendo, e che vento fresco (Zefiro, alla destra) porta nuova vita (inseguendo la ninfa Clori) fecondando speci naturali (Flora) e spargendo diversità nel mondo (i fiori sparsi sul suolo sono attribuibili a 138 specie vegetali differenti). Si tratta di un’allegoria della fecondazione. Al centro Venere è icona della vita umana.

La buona fotografia

In conclusione, la buona fotografia deriva da una serie di elementi complicati, che devono necessariamente coesistere tra di loro. La tecnica fotografica è il minimo sindacale per realizzare delle immagini.

È necessario mettersi in gioco, portare all’interno dell’immagine il proprio vissuto e la propria visione del mondo. Attraverso l’utilizzo di immagini pregresse e di segni per generare delle immagini ricche di significati.

Ma ciò non vuol dire esporre tutto come sul banco del pesce, bisogna creare un proprio slang: spesso un non-detto vale più di un urlo esplicito, almeno attraverso la fotografia.

L’unica buona regola che mi sento di consigliarvi è questa: siate raffinati nell’utilizzo della storia. Spesso il genio risiede tra il passato e il futuro, esattamente nel presente.

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