
La realtà è qualcosa di talmente complesso – anche se tendiamo spesso a darla per scontata – che da millenni gli esseri umani si interrogano sulla sua vera natura e sull’interazione tra la “realtà reale” (se esiste) e i nostri sensi.
Personalmente trovo la questione affascinante, per questo dopo un post scherzoso (quello della volta scorsa), vorrei ora addentrarmi (e speriamo bene) in un territorio assai più complesso.
La domanda che mi sono posto è: qual è il processo con cui partendo dal dato sensibile – il soggetto che “vediamo” – arriviamo al concetto, all’idea e auspicabilmente alla foto? E poi: quel che vediamo esiste ed è proprio come lo vediamo o siamo vittime di un’illusione?
Certo, una foto dovrebbe risolvere l’ultimo dilemma alla radice: se riproduco qualcosa e la “fisso” in un’immagine condivisibile, non è questa la prova che quanto ripreso esiste ed è esattamente come appare nella foto stessa? Ebbene, non è detto: l’illusione potrebbe anche essere fotografabile! Infatti non parliamo di illusioni ottiche, ma di “illusioni concrete” e tuttavia pur sempre di illusioni, perché non è il loro aspetto esteriore e “sensibile” il problema, ma la loro vera essenza.
Da non esperto di filosofia ho sempre pensato che il più “fotografico” dei filosofi sia stato Platone (Atene, 428/427 a.C. – 348/347 a.C.), e questo perché ha sempre “ragionato” molto sulle percezioni (e sulla conoscenza), a cominciare dalla sua metafora o mito della caverna (se non l’hai mai sentito ti basta cercare online). Dunque mi sono rivolto a lui – da profano – per vedere se potevo trovare delle risposte.
Per Platone la conoscenza, cioé il modo in cui le cose possono essere “acquisite” (diciamo così), si suddivide in Opinione (δόξα, dóxa) e in Scienza (ἐπιστήμη, epistémē). Non sono certo in grado di trattare la Filosofia platonica e nemmeno intendo farlo, ma delle teorie del grande allievo di Socrate mi affascina la ulteriore suddivisione di opinione e scienza che porta a una specie di “scala” che va dal percettivo all’intellettuale per arrivare alla conoscenza “vera” che in fondo non è né l’una né l’altra ma in pratica le comprende. Esattamente quello che io credo possa essere il percorso che un fotografo dovrebbe fare, sebbene in altro campo e con altri scopi.
Per Platone infatti esiste la Eikasìa o Immaginazione che si basa sulle “manifestazioni di oggetti visibili ossia le immagini, quelle che stimolano i nostri occhi” (e ci spingono a fotografare, aggiungerei); a questa segue la Pistis, cioè la Fede, il credere che”gli oggetti visibili come animali, le piante, gli uomini e tutte le loro produzioni” esistano, o meglio nel “ritenere possibile” che essi esistano pur senza aver conosciuto direttamente – o sperimentato – la loro natura; c’è poi la Diánoia, dunque le “forme di verità intelligibili, ma meno alte, perché basate su un riscontro mediato dalla ragione“, e a questa categoria appartengono le scienze in genere; infine abbiamo l’intelletto o Nóēsis, le “forme intelligibili supreme, perché raggiunte e sviluppate per via puramente intuitiva“. Il rischio di banalizzare c’è, eppure in questa suddivisione ho intravisto una strada, uno stimolo interessante.
Potremmo dunque forzare il pensiero di Platone – in fondo qui parliamo di fotografia e non di filosofia, dunque i veri filosofi mi perdoneranno spero – e ritenere che la sua “scala della conoscenza” (espressa nella cosiddetta “Teoria della Linea”) sia un salire di grado, un modo per diventare perciò anche fotografi migliori.
L’Eikasìa, cioè l’Immaginazione, non ho bisogno di sottolineare quanto importante sia diventata, in epoca moderna, per ogni artista, qualunque arte pratichi. Per i Greci, in verità, l’immaginazione non era tanto connessa all’arte – come appunto viene considerata oggi – mentre lo era la Phantasìa, che è “la facoltà della mente umana di creare immagini, di rappresentarsi cose e fatti corrispondenti o no a una realtà” come recita la Treccani.
L’artista figurativo può creare delle immagini anche solo mentali, e dipingere o scolpire realtà e mondi inesistenti. In fondo lo stesso può fare il fotografo con la tecnica del fotomontaggio o con elaborazioni digitali estreme. Sembrerebbe dunque possibile anche creare immagini di “cose” che non esistono davvero, ma è solo un’illusione. Il fatto è che tali immagini sono invece il frutto della rielaborazione che l’essere umano può fare delle proprie esperienze sensoriali, perciò possiamo ben dire che restino comunque legate alla realtà. E questo perché noi non siamo in grado di “vedere”, immaginare o rappresentare cose che non possiamo almeno in parte percepire. Ad esempio possiamo intuire i concetti di “nulla” o “eternità”, ma non sapremmo fotografarli o dipingerli, se non attraverso metafore. Si tratta infatti di “cose” non percepibili direttamente o riconducibili a esperienze che possiamo concretamente fare.
Mi vengono in mente tanti film di fantascienza con gli alieni: hai notato come ci sia, da parte dei responsabili degli effetti speciali, un grande sforzo di fantasia, ma alla fine questi alieni sono costituiti comunque da assemblaggi di animali che conosciamo, con le loro zanne, creste o quant’altro? A volte sono simili a polpi, altre volte a rocce umanoidi, altre volte a dinosauri, ma comunque sono vincolati alla nostra realtà come, un tempo, l’unicorno o i draghi che sputano fuoco. Animali mitici, ma in fondo “realistici”. Possiamo concepire esseri viventi davvero diversi da tutto quel che conosciamo? Pensaci e vedrai che no, non ne siamo capaci, se non in pura teoria.
Il fotografo – tornando a noi – deve sempre iniziare dal dato sensibile, dalle cose che vede e che “immagina”, nel senso che le percepisce in prima battuta come immagini. E’ facile comprendere come immaginare una cosa non significhi conoscerla, basti pensare a un oggetto circolare visto di lato e che dunque appare ovale, sebbene non sia affatto di questa forma, o anche a certe illusioni ottiche che ingannano l’occhio.
E’ stato Jean Paul Sartre, negli anni ’30, uno dei primi a elaborare un concetto più moderno dell’immaginazione (a cui ha dedicato due saggi), spostandone il senso dalla mera capacità immaginativa a quello che da questa deriva, chiamato “immaginario“.
Ogni fotografo si crea un proprio “immaginario” legato alle esperienze, agli incontri, alle sofferenze e alle gioie provate, insomma alla sua vita. I soggetti esistono in una loro realtà, ma come fotografi li filtriamo attraverso il nostro immaginario e così li “vediamo”. Ogni essere umano (e perciò ogni fotografo) vedrà lo stesso soggetto in modi diversi perché nessuno di noi ha un “immaginario” uguale all’altro. Potremmo dire che ognuno “immagina” il mondo in modo personale.
Poggiandosi sulla “Pistis” il fotografo dunque vedrà gli “oggetti” che lo circondano, e li conoscerà attraverso un atto di fede, appunto. Cioè credendo davvero che quel che vede sia corrispondente alla realtà, nonostante ad esempio oggi sappiamo che l’occhio “vede” un soggetto sottosopra e con i lati invertiti ed è poi il cervello a mettere tutto a posto. Dunque la vista è frutto di un’elaborazione, e questo può portare anche a errori, o a percezioni errate. Ma, se ci basassimo su questo, non potremmo vivere, assaliti da continui dubbi. Dunque ci affidiamo all’idea che tutto quel che abbiamo davanti agli occhi sia vero, reale e concreto, almeno fino a prova contraria.
In effetti, ho sempre pensato che la vita stessa sia un atto di fede, come lo è l’addormentarsi di notte: senza una fede incrollabile nel risveglio, non avremmo il coraggio di chiudere gli occhi!
Dunque io posso “immaginare” un soggetto (una sedia, una strada, un uccello…) e conoscerlo come entità specifica, concreta, solo perché ho “fede” che le cose siano proprio organizzate in un certo modo, è quasi un contratto con la realtà. La fotocamera, è bene dirlo subito, non ha fede alcuna, ed è il motivo – a mio parere – per cui spesso le foto vengono ben diverse da come le avevamo “viste” sul campo. Certo a volte si tratta di un problema di capacità fotografica, ma in molte occasioni è proprio che la proiezione del soggetto sul sensore è diversa da quella che avviene nei nostri occhi e nel nostro cervello di conseguenza.
Conoscere davvero i propri soggetti permetterebbe al fotografo di unire la creatività immaginativa alla concretezza del dato di fatto, di fotografare un soggetto sia come soggetto immaginato che come soggetto concreto. Un bel passo avanti, e per questo occorre giocoforza non basarsi sulla fede che le cose stiano come immaginiamo, ma affidarsi alla scienza (o alla conoscenza, almeno).
Il nostro soggetto avrà un suo specifico comportamento, una sua specifica natura fisica, e il fotografo potrebbe pensare di riprenderlo in modo tale che questo dato sia rispettato. Un gabbiano, ad esempio, fotografato in un deserto – dove magari è stato portato o collocato digitalmente in postproduzione – avrebbe poco senso, a meno di non voler realizzare un’immagine “straniante”, ironica o altro.
Per poter interpretare un soggetto occorre conoscerlo al di là del puro dato sensibile.
E’ quello che raccomando sempre di fare ai miei corsisti. Se guardi un soggetto e per questo credi di averlo visto davvero e tenti di fotografarlo così, il più delle volte il risultato è una foto che non comunica affatto quel che sono le tue intenzioni, rimaste invece nella tua mente.
Ma se ti sforzi di andare oltre, e approfondisci la conoscenza del soggetto stesso (fosse anche una pietra), cercando di comprenderlo, conoscerlo, “spiegarlo” addirittura giustificarlo, ecco che la tua foto sarà più consapevole, e dunque efficace.
Non si tratta di fare fotografia asettiche e oggettive. Si può anche puntare a foto molto creative o addirittura astratte. Il fatto è però che solo un soggetto che non abbiamo solo “immaginato” ma anche “conosciuto” può portare a risultati interessanti e profondamente comunicativi.
Il viaggio però non è finito. Sin qui, con queste tre tappe, saremo diventati dei “bravi fotografi”, in grado di maneggiare immaginazione e conoscenza per realizzare le nostre fotografie. Indubbiamente un ottimo risultato, ma solo pochi riescono davvero ad andare oltre, a salire di livello. E non parlo di livello tecnico, anzi.
Infatti il fotografo raggiunge la sua massima essenza quando percepisce le forme (diciamo i soggetti) per via intuitiva arrivando alla Noesi, conoscenza suprema, che non è fatta per via intellettuale, ma entrando in contatto con la realtà. Per Diogene di Apollonia, filosofo del V secolo a.C. e primo a utilizzare questo termine, significava partecipare della perfezione del cosmo, in collegamento diretto con la divinità organizzatrice, con “la verità del fenomeno” (e del soggetto nel nostro caso) ed è teoricamente compito del fotografo saperlo fare.
Dico teoricamente perché non è affatto una cosa facile. Quel che dovremmo riuscire a fare è rappresentare fotograficamente il Noema (l’oggetto stesso della Noesi), cioè il “pensiero” o “concetto” che nella filosofia classica è contrapposto alla àisthëma, la “sensazione”, il “dato sensibile” da cui siamo partiti.
Magari per un fotografo questo sembra troppo, eppure – ribadisco: banalizzando – è esattamente il senso dell’attimo significativo in cui si preme il pulsante di scatto o la messa in linea di cuore, mente e occhi di Cartier Bresson.
La magia delle foto più famose, facci caso, è in questa formula inspiegabile dal punto di vista meramente tecnico, ma che coinvolge per forza elementi di pura e semplice filosofia.
Sono fotografie che sembrano necessarie, non forzate, prive di quegli intellettualismi con cui si condiscono tanti progetti fotografici al giorno d’oggi, così pervicacemente legati alla Dianoia (mi verrebbe da dire anche alla noia) e perciò al pensiero, all’intelletto. Senza profonde riflessioni e lunghi discorsi quasi sempre risultano incomprensibili.
La conoscenza suprema è invece qualcosa di assolutamente naturale e anche senza approfonditi studi appare “vera” nella sua essenza, in quanto semplice, cioé non più ulteriormente divisibile, ma pura e luminosa.
Ho sempre pensato che le grandi fotografie siano così: semplici e luminose.
Posso ovviamente analizzarle, scriverci su interi saggi, tirar fuori lunghi discorsi infarciti di paroloni, ma alla fine è del tutto evidente che nel momento in cui il fotografo ha scattato, proprio in quell’istante più o meno lungo, e in tutto il processo per arrivare a quel preciso momento, non l’immaginazione, non la fede in quel che stava guardando, nemmeno la conoscenza di quel che aveva di fronte lo ha portato a conseguire quel risultato così coinvolgente, ma un’improvvisa intuizione che tutto ha reso armonioso e fluido.
Per questo mi vien sempre da sorridere quando dinanzi al grande paesaggio tempestoso di Ansel Adams o alla scena magistralmente ripresa da Dorothea Lange come alle villette a schiera fotografate da Stephen Shore o al postino nella nebbia di Berengo Gardin si scomodano le Leica e i 50 mm, i banchi ottici e il Sistema Zonale, i tempi di scatto e la composizione, la scelta della luce e del contesto: tutte cose importanti – fondamentali per certi versi – ma sono nulla senza quello che Heghel definisce lo Spirito Assoluto che permette di conoscere davvero quel che abbiamo di fronte, di entrare in empatia con la realtà, di entrare a farne parte.
Come sosteneva Minor White è il soggetto che ci sceglie, non il contrario. Compito del fotografo è di lasciarsi scegliere, di essere pronto quando occorre, e di trovarsi nel posto giusto al momento giusto.
Situazioni rare, ma la fortuna non c’entra assolutamente nulla: è un accordo, come quello musicale. Se non scegliamo di trovare la nostra armonia, il suono sarà stridente. Anche ai grandi fotografi capita di rado di entrare in questo flusso: se la magia fosse qualcosa di comune, in fondo, non sarebbe più magia!