La generosità del fotografo

Fotograficamente parlando (e purtroppo non solo) viviamo in un’epoca di scarsa generosità, anzi a volte di egoismo puro.

I fotografi (e gli artisti in generale) hanno sempre operato principalmente per sé stessi, cercando di esprimere quel che avevano dentro o di raccontare quel che vedevano e gli altri non percepivano.

E’ pero vero che, sebbene già in passato ci fossero autori particolarmente “criptici”, come Minor White, le regole del “bravo fotografo” prevedevano che, a prescindere dallo stile, dalle scelte di editing, dalle metodologie applicate, comunque una foto dovesse “parlare” e auspicabilmente farsi capire, in quanto in ogni scatto c’erano sempre almeno due persone – come sosteneva Ansel Adams – il fotografo e lo spettatore: era una comunicazione silenziosa, a volte complessa, ma sempre facilitata.

Oggi invece – ben più di un tempo – prevale a volte una logica profondamente diversa.

Da un lato la bulimia fotografica di Internet in cui ognuno posta quel che gli altri possono facilmente apprezzare, e che si trasforma dunque in superficialità che non consente allo spettatore – peraltro molto distratto – di far crescere la propria cultura visuale, dall’altro una pletora di fotografi impegnati che si diverte a restare perennemente quasi incomprensibile, come se essere chiari, diretti, comunicativi fosse segno di debolezza, di fragilità culturale.

Ho potuto vedere interi progetti fotografici scorrendo i quali – che siano contenuti in libri, zine, riviste, mostre o siti Internet – si resta perennemente perplessi, chiedendosi cosa l’autore abbia davvero voluto dire. Non ho dubbi che – sulla base di quella che viene definita “maledizione della conoscenza“, concepita dall’economista Robin Hogarth e studiata dal cognitivista Steven Pinker – il fotografo avesse bene in mente il “messaggio”, ma con altrettanta certezza – da spettatore – so che il tutto viene nascosto dietro salti logici, tecniche scompaginate, editing misteriosi e senza un filo chiaramente percepibile, quasi che chi si avvicina al progetto stesso debba per forza perder tempo a dipanare questo nodo gordiano cercando di emergere vincitore da un rebus degno della “Settimana Enigmistica“. Sia chiaro: a volte è anche divertente, ma che fatica!

Il tutto ovviamente viene giustificato con la volontà di coinvolgere lo spettatore, di renderlo parte del progetto, dargli un ruolo. Ora, questa è fondamentalmente una scelta che reputo corretta, e non a caso nei suoi romanzi Ernest Hemingway sosteneva di ricorrere al cosiddetto “effetto Iceberg” – poi esteso anche al campo fotografico – grazie al quale attraverso il racconto di una storia si narra solo una piccola parte del tema che si vuole affrontare, lasciando al lettore l’incarico di scoprire o percepire il resto.

Ma questo non significa affatto confonderlo o depistarlo! Anzi, gli si debbono offrire “agganci logici” che lo aiutino. Per molti fotografi questo “aiutino” consiste in articolate schede scritte. La cosa interessante è che spesso questi testi sono ancora più confusi delle fotografie!

A volte, lo dico francamente, mi sembra che dietro questo atteggiamento ci sia una certa dose di furbizia, un po’ come chi non sa dipingere e allora imbratta una tela e la definisce “Arte contemporanea” astratta: così, basta assemblare foto storte, sfocate, mosse (ma non ICM), sottosopra, fatte casualmente, magari alcune a colori e altre bianco e nero, inserendo poi documenti vari (biglietti del tram, dettagli di macchie varie, foto d’epoca) e trovare un titolo adeguato all’insieme per poi difendere il tutto definendolo un’operazione concettuale.

Capita – almeno, a me è capitato e anche relativamente spesso – di trovare apprezzabili alcune di queste operazioni, e allora ho dovuto riconoscere le capacità e la buona fede dell’autore, ma altre volte, molte altre volte, non sono arrivato a raccapezzarmici per nulla e allora mi è sorta spontanea la domanda se chi proponeva quelle foto, magari premiate a qualche “lettura portfolio” in giro per l’Italia, era in buona fede oppure no.

Foto di Franco Vaccari

Il tutto ammettendo in piena franchezza di essere un fotografo “vecchia scuola”: mi piace ciò che è moderno, contemporaneo, mi piacciono tutti i tentativi di percorrere strade nuove, ma resto fedele all’assunto che il fotografo sia soprattutto una persona che “sappia fotografare”, che sappia cioé utilizzare il linguaggio fotografico, che si sforzi sempre di farsi capire anche quando il tema affrontato è complesso, astratto, difficile.

Magari a volte non ci si riesce, capita, ma lo sforzo andrebbe sempre fatto. E non mi viene in mente nessuno, tra i “Grandi Autori”, che abbia scelto strade diverse da questa. Anche i più estremi, come Franco Vaccari (che poi è difficile definirlo solo “un fotografo”), o Paolo Gioli, hanno sempre mantenuto quel minimo di barra dritta che permette a chi avvicina la loro opera di non perdersi in una tempesta visiva sconclusionata e senza alcuna terra in vista.

D’altra parte dovremmo anche chiederci – retoricamente – se davvero non esistano altri modi per narrare fotograficamente che non siano da un lato l’approccio classico, visto e rivisto, di una certa “straight photography” intesa in senso superficiale e molto spettacolarizzato, e dall’altro lato quello intellettualoide, oscuro, pseudofilosofico di certi autori di oggi (anche e soprattutto giovani) che magari con le migliori intenzioni ci propongono però progetti quasi incomprensibili.

Foto di Paolo Gioli

Viviamo certamente un momento difficile per la nostra arte. La citata “bulimia” internettiana, con questa sovrabbondanza di fotografie di ogni genere, spesso anche piuttosto buone ma più spesso pessime, spinge gli “autori” a cercare strade diametralmente opposte, di fatto dando il potere ai “fotografi della domenica” di guidare la loro azione, anche se al negativo; c’è anche da dire però che l’influenza dell’arte contemporanea in cui l’atteggiamento dell’artista conta molto di più della sua opera, al punto che si pagano milioni di dollari opere a cui l’artista ha partecipato solo come progettazione lasciando a uno stuolo di assistenti la vera realizzazione, convince molti fotografi che quel che conta davvero sia farsi un nome, e poi scattare più o meno a caso.

Oppure… “scattare a caso” per farsi un nome, se non altro come “innovatore”.

Se è vero che la fotografia – con la sua fedeltà indicale al soggetto – ha liberato l’arte dal reale favorendo la nascita dell’astrattismo, è anche vero che oggi la fotografia insegue la pittura contemporanea, quasi che quel soggetto sia divenuto un peso di cui liberarsi e l’unica cosa che conti davvero comunicare siano riflessioni, stati d’animo e pensieri strettamente personali, possibilmente sofferti e debitamente astratti.

Il mondo nella sua concretezza (la sua realtà, potremmo dire) sta perdendo pian piano il proprio fascino. Guardarsi attorno, rivelare quel che gli altri non vedono, è un atteggiamento considerato vecchio, ammuffito, quasi reazionario. Questo nonostante innumerevoli fotografi abbiano dimostrato come il fatto di analizzare la realtà non significhi affatto riprodurla così com’è, anzi tutt’altro.

Pensiamo alle ardite fotografie di Hiroshi Sugimoto, che dagli anni ’90 si dedica alla fotografia di architettura “sfocata”! Le sue foto sono realizzate con fotocamere a banco ottico modificate e il risultato sono immagini morbide e soffuse di soggetti architettonici famosi: secondo l’autore se l’architettura è potente, sopravvive a questo trattamento. E non gli si può dare torto. L’idea di fondo e la tecnica dialogano per creare qualcosa di ben lontano dalla mera riproduzione e tuttavia la comprensibilità del progetto nel suo complesso sopravvive intatta. Anzi rafforzata.

Ma oggi l’esigenza emergente è quella di rivelare se stessi e il soggetto quasi solo uno strumento di psicoanalisi personale come se il mondo ruotasse attorno al proprio ego (e questo è certo un effetto della diffusione dei Social) e quel che si vuole comunicare è il proprio disagio esistenziale, ma senza dare a quest’ultimo alcuna profondità o valore universale.

Insomma, la distanza che c’è tra le foto – ad esempio – di Francesca Woodman e quelle di questi moderni artisti tormentati non è data solo dai decenni trascorsi, ma dallo stesso atteggiamento di fondo. La Woodman attraverso l’autorappresentazione e la nudità cercava di trasmettere non semplicemente il proprio disagio, ma anche di tracciare i confini del proprio rapporto con l’ambiente circostante, con i luoghi, con il proprio spazio vitale: “la cosa che mi interessava di più era la sensazione che la figura, più che nascondersi da se stessa, fosse assorbita dall’atmosfera, fitta e umida“.

La nudità non è sovrastruttura o “trappola visiva” per lo sguardo (specialmente maschile) ma invece assorbimento dello spazio, dissoluzione, anche semplificazione. In tal senso il mettersi in gioco personalmente e direttamente non è qualcosa di egoistico e autoreferenziale, al contrario. E sebbene i suoi lavori non siano sempre facilmente interpretabili, di certo la lunga e accorta progettazione che li precedeva indica la volontà di cercare il modo migliore per trasmettere concetti e idee che per il loro valore astratto non sono altrimenti comunicabili con facilità.

Ecco allora che per giustificare il contemporaneo – globalizzato – atteggiamento rispetto alla fotografia “impegnata”, si ricorre a tutta una terminologia che serve solo a sostenere, in pratica, che oggi non conta nulla saper fotografare o – peggio – comunicare: conta solo essere “creativi”. Qualsiasi cosa questa parola significhi davvero…

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