
Viviamo in un mondo “brutto”? A volte viene da pensarlo, guardando le fotografie che spesso compaiono su riviste, libri e ovviamente online. La ricerca sul paesaggio e sugli ambienti che ci circondano spinge spesso i fotografi a concentrare l’attenzione su aspetti di degrado, di banalizzazione, di ripetizioni di schemi architettonici che paiono uguali a prescindere dalla latitudine in cui ci si trova.
Indubbiamente, ci sono ampie parti del mondo ancora immerse nella piena e florida bellezza, sebbene costantemente minacciate dall’avanzare del degrado. Ma non si può negare che solo il 20% del pianeta sia ancora “naturale” e che il restante 80% sia comunque governato dall’uomo, a volte in modo accorto e responsabile, più spesso in modo scellerato.
Come fotogarfi possiamo scegliere se concentrare l’attenzione sugli aspetti positivi, secondo la logica che “ci salverà la bellezza”, ignorando di conseguenza quanto di brutto stia coprendo estensioni sempre più ampie di territorio (ed è stata sinora la mia scelta, su cui sto ampiamente riflettendo), oppure raccontare i “paesaggi alterati dall’uomo”, secondo lo slogan della mostra “New Topographics” che ha dato fama e prestigio a grandi fotografi come Robert Adams o Stephen Shore.
Si potrebbe anche cercare di restare nell’alveo di una sorta di “terza via”, ma quando si affrontano problemi gravi e potenzialmente devastanti come i mutamenti climatici, il consumo di suolo, la desertificazione e la cementificazione, restare neutrali è complicato, se non impossibile. Tuttavia, in quanto fotografi, abbiamo mille possibilità diverse di affrontare e narrare il “nuovo paesaggio” o il mondo così come appare, o vorremmo che fosse davvero. E per una volta in Italia non siamo arrivati per ultimi, anzi.
La “nuova scuola” della fotografia di paesaggio italiana, nata negli anni ’80 su impulso di fotografi come Luigi Ghirri, ha concentrato il proprio sguardo su aspetti della realtà che ci circonda che la maggior parte dei fotografi cosiddetti “amatoriali” ignora quasi del tutto. In effetti, come detto, la fotografia di paesaggio sembra oramai scissa in due correnti ben precise.
Una chiaramente interessata solo alla bellezza “assoluta” dei paesaggi, in modo da poter creare delle immagini spettacolari, con un “fattore wow” molto forte. Il modello sono fotografi come Marc Adamus, in grado di rifarsi – grazie alla tecnologia dominata abilmente – ai concetti Romantici del Sublime, con riferimenti precisi ad artisti del passato come Turner o Friedrich. Sebbene non siano necessariamente dimentichi del degrado che avanza, scelgono di non mostrarcelo mai, e il loro mondo sembra quello primordiale, quando ancora circolavano i dinosauri e l’Homo sapiens era di là da venire.
L’altra corrente, dominante nell’area mediterranea (ad esempio in Francia e in Italia), è appunto quella che in qualche modo parte dai citati New Topographics, passa per la Scuola di Dusseldorf (e i Becher in particolare) e arriva al “Viaggio in Italia” di Ghirri, e dunque a Guido Guidi, a Salbitani, a Jodice, a Vittore Fossati.
Questa riflessione mi è saltata in mente mentre leggevo su un libro della distinzione che facevano gli antichi tra locus horribilis e locus amoenus, i cui esempi più evidenti erano da un lato il deserto, la foresta selvaggia, il mare che si frange sulle scogliere, dall’altro la “Campania felix”, le terre domate e coltivate, i borghi sulla cime dei colli, la città con i suoi giardini.
Sebbene queste due categorie si siano spesso confuse tra loro – parlando dei “tempi moderni” – è anche vero che se i fotografi “da concorso” in cerca di scatti spettacolari amano i luoghi “orribili”, gli altri amano i luoghi se non ameni, almeno “umanizzati”, dunque spesso privati della componente più chiaramente naturale. Che poi li prediligano per farne una critica, oppure per esaltarli questa è un’altra storia, e penso che ci tornerò su.
Ma questa contrapposizione mi girava in testa da un po’, perché credo che in campo fotografico diventi una contraddizione che riverbera quella di cui ogni osservatore un minimo accorto si rende conto. Come scrive il filosofo Sergio Givone “da una parte siamo ossessionati dalla bellezza e dall’altra produciamo intorno a noi un mondo che non è mai stato così brutto. E la cosa è curiosa. Perché la bellezza, come sapete bene, ed è un altro paradosso, è la cosa più inutile che c’è. E tuttavia non ne possiamo fare a meno“.
Certo, la bellezza è inutile eppure riempie le nostre vite e rientra anche nell’Arte, che pure negli ultimi decenni sembra volerla negare, addirittura rifiutare. I fotografi della generazione di Ghirri, Jodice, Fossati sono quelli che uscivano dal periodo della fotografia impegnata, in cui solo ciò che era sociale poteva avere importanza e hanno traghettato la nostra arte all’interno di un universo più ampio, in cui ogni cosa assume importanza grazie allo sguardo che la rivela. Soprattutto sono fotografi che hanno finalmente fatto uscire l’Italia dal provincialismo più bieco e hanno creato qualcosa di autenticamente nazionale, sebbene non certo inconsapevole del contesto internazionale.
Quella ricerca, in cui il “bello” andava trovato semmai nello sguardo più che nel soggetto, sembra oggi – se non terminata – di certo arenata, come incapace di trovare una ragion d’essere. D’altro canto la bellezza spettacolare sembra falsa perché il mondo è preda dell’inquinamento e dei mutamenti climatici, ma anche le rappresentazioni delle periferie degradate, delle aree industriali, dei luoghi francamente “brutti” che ci circondano sembrano esagerate, come se una nuova consapevolezza e voglia di riscatto le avesse cancellate.
In effetti di bellezza ce n’è ancora tantissima, anche a due passi dalle periferie più orrende, e tuttavia la bruttezza avanza a colpi di foreste abbattute, sempre nuove strade, cemento che divora ampie porzioni di territorio. E’ come una lotta tra un mondo che vuole autodistruggersi e uno che cerca di conservare armonia e rispetto, ed è su questo limitare che dovrebbe – io credo – collocarsi il fotografo. Trovare la bellezza ovunque non significa accettare il degrado, significa semmai rivelare un possibile e necessario riscatto.
Questa “nuova” bellezza cerca ancora narratori. Fotografi capaci di evitare la retorica del “bello” classico ma non estranei alle armonie delle forme, capaci di trovare segni di armonia autentica anche laddove giacciono solo rovine industriali o vegetano pioppeti piantati in quinconce.
Potrei citare ovviamente tanti altri fotografi, ma credo che Vittore Fossati, classe 1954, sia ancora sufficientemente giovane per essere contemporaneo, ma abbastanza classico da costituire un prezioso punto di partenza. Per questo ho corredato questo post con alcune delle sue foto più note. Osservale bene: sono soggetti senza alcun apparente interesse, eppure le foto sono efficaci, riuscite, oserei dire “belle” se non fosse quasi un insulto secondo Ugo Mulas, come riportato da Gianni Berengo Gardin.
Un giorno di parecchi anni fa visitai una mostra di Fossati e ho ancora il catalogo. All’epoca, ben più di oggi, ero patito di paesaggi del tutto naturali, in cui la presenza umana fosse la meno evidente possibile, e comunque armonica. Non compresi subito quelle foto. Mi attiravano e respingevano al tempo stesso. Lo fanno ancora oggi e credo che in questo consista la loro grandezza. Ti obbligano a pensare, ti suggeriscono percorsi (anche mentali) e non offrono risposte univoche e rassicuranti.
Quello che in particolare mi colpiva allora e lo fa ancora oggi è come Fossati possa fotografare luoghi iconici e spettacolari come le scogliere della Bretagna in una maniera del tutto assimilabile a quella con cui riprende periferie più o meno degradate, cave e cantieri abbandonati, come se il suo sguardo potesse contenere tutto, senza giudicare e valutare, come se ogni cosa avesse valore nella misura in cui ci insegna qualcosa o ci emoziona davvero.
Quando mostro quelle foto ad altre persone (e anche a fotografi) spesso li vedo perplessi. Manca quella “spettacolarità nascosta” degli scatti di Ghirri, mancano quelle “complessità plastiche” di Jodice che con i suoi bianchi e neri riesce a poetizzare anche una statua monca, non c’è traccia dei grafismi assoluti e violenti di un Giacomelli.
C’è invece una luce icastica che pure dissolve ogni cosa.
La ricerca di Fossati è una ricerca dell’assoluto e, com’è noto, l’assoluto si cerca sempre e non si trova mai.
(Tutte le foto che illustrano il post sono di Vittore Fossati, copyright dell’autore)