
Il “cooperative learning” è una tecnica didattica, sviluppata oltre vent’anni fa negli Stati Uniti e in altri paesi, che in sostanza è l’evoluzione dei “lavori di gruppo” che ben conosciamo e che spesso diventavano la scusa per non combinare nulla in classe per almeno un paio di ore, mentre il “secchione” svolge il lavoro tutto da solo.
Come scrive Claudia Matini in “Cooperative Learning: istruzioni per l’uso”: “la chiave di differenziazione tra il tradizionale lavoro di gruppo e quello cooperativo sta nella modalità con cui viene stimolata la cooperazione. Questo termine è generalmente associato all’idea di aiuto reciproco, di collaborazione, di rispetto per l’altro”.
Sono proprio questi ultimi aspetti a fare la differenza, perché quando si assegna un lavoro di gruppo (a scuola come in determinati ambienti di lavoro) in genere si forniscono dei blandi consigli su come organizzarsi e poi ci si affida alla buona volontà dei partecipanti.
Nell’organizzazione cooperativa invece, si deve instaurare un clima di reciproco aiuto e sostegno, come negli sport di squadra, in cui generalmente se uno dei giocatori pensa solo a farsi notare senza sostenere i compagni, si finisce per perdere la gara.
Bisogna creare insomma una “interdipendenza positiva” tra i partecipanti al lavoro; e non deve essere solo di facciata, ma fattiva.
Durante una presentazione del suo libro, ho chiesto a Paola Matini se secondo lei fosse possibile applicare una simile tecnica anche ai gruppi online. Ora, consideriamo che proprio Internet è accusato di stimolare (e direi accelerare) una sorta di egoismo digitale, in cui si agisce “ognuno per sé e Dio per tutti”.
Certo si parla di “condivisione”, ma ovviamente ci si riferisce a contenuti già perfettamente formati che – carinamente – si mettono a disposizione degli altri, apparentemente gratis ma di fatto in cambio di contatti email o informazioni varie.
Nel “cooperative learning” lo scambio è invece paritario al 100%: io metto a disposizione le mie competenze e altrettanto fanno gli altri e, in tal modo ognuno impara qualcosa, e dunque ci guadagna.
Secondo Paola Matini – che in effetti ad applicare le tecniche dell’apprendimento cooperativo a Internet non aveva mai pensato visto che la sua attività si rivolge alle scuole e agli insegnanti tradizionali – è sicuramente possibile creare dei gruppi online in grado di interagire aiutandosi vicendevolmente e crescendo assieme.
L’esperienza con i corsisti di SEP
Così – dopo un lungo studio del suo libro e attente riflessioni – ho pensato di creare i lavori collettivi sul Gruppo Facebook del corso “Smettere di Essere Principiante”. Ne sono nati diversi ebook PDF ognuno su un tema, svolto da tutti i corsisti non semplicemente realizzando una foto in linea col tema assegnato, ma discutendone con gli altri.
Credo che in questo risieda la differenza con i classici “temi della settimana” (o del mese) che molti forum o gruppi Facebook di fotografia assegnano agli iscritti.
Infatti in quel caso il partecipante si limita a realizzare (o a cercare in archivio) una foto “buona” da proporre, mentre qui la foto va sempre realizzata apposta (in modo estemporaneo visto che il tempo assegnato è di due settimane), e dopo averla condivisa occorre anche confrontarsi con gli altri, che commenteranno il risultato non solo e non tanto sulla riuscita o meno dello scatto, ma su quanto sia o meno adatto al progetto in corso.
Ognuno deve infatti commentare le foto degli altri, in modo amichevole ma fermo, dato che lo scopo non è solo partecipare ma anche realizzare tutti assieme (e qui sta il focus) qualcosa di unitario, appunto un progetto fotografico che poi, editato e impaginato dal sottoscritto, diventerà un qualcosa di condivisibile.
Ora, se non sei un iscritto al corso SEP probabilmente troverai poco interessanti queste considerazioni di tipo meramente didattico. E invece io credo che sbaglieresti, perché i fotografi – amatori ma non solo – si trovano spesso a realizzare dei progetti con più autori. Potrei farti molti esempi ma quello che più mi viene in mente è “Viaggio in Italia” di Luigi Ghirri.
Ghirri, che non a caso era anche un docente, mise insieme una bella squadra di fotografi e chiese loro di creare – insieme a lui – dei racconti per immagini che raccontassero il nostro paese in modo diverso da quello cartolinesco e retorico a cui eravamo abituati.
Si trattava indubbiamente di un “lavoro di gruppo” più che un lavoro “cooperativo”, data anche la forte personalità di ciascun partecipante, e d’altra parte il “cooperative learning” nel 1984 non era ancora stato inventato, ma sono certo che la collaborazione e l’interazione tra i diversi autori sia stata forte.
In tempi più recenti, sono nati collettivi, specialmente dediti alla “street”, che creano progetti fotografici senza citare il nome dei singoli autori, ma solo quello del collettivo stesso.
Sembrerebbe un annullamento della personalità ma in realtà è un modo per creare una sinergia potente, in cui i “neuroni” di ogni cervello si uniscono in un “supercervello” ben più potente. In questi lavori, giocoforza – e magari inconsapevolmente – si utilizzano le tecniche del “cooperative learning” per appianare divergenze, trovare un terreno comune e anche una “visione” che sia reciprocamente compatibile.
Ma il più delle volte si può essere chiamati a partecipare a determinati progetti comuni, e allora saper abbassare le difese dell’ego è fondamentale.
In realtà i progetti collettivi del corso SEP li ho pensati anche per far esercitare i corsisti nell’utilissima pratica della “critica” e del commento: per un fotografo è fondamentale saper valutare il proprio lavoro e quello degli altri, senza remore ma secondo valori precisi, legati al linguaggio fotografico in quanto tale.
Oggi più che mai in cui il commento alle fotografie è fatto di “wow!”, “capolavoro!” o “bellissima!”, senza alcuna esplicitazione delle motivazioni e delle considerazioni critiche ci si spingono ad apprezzare una foto, diventa importante sapersi confrontare con gli altri e osservare cosa va bene o vada meno bene in un’immagine.
E soprattutto occorre imparare ad assorbire le critiche (se costruttive) senza offendersi o buttarsi giù, nella consapevolezza che grandissimi fotografi hanno visto i propri lavori stroncati da editori o curatori, prima di raggiungere il successo.
Dal processo creativo dietro un lavoro collettivo si esce sempre arricchiti: io stesso – che per “statuto” mi astengo dal partecipare alle discussioni nel Gruppo e faccio solo da moderatore – ho imparato tanto. Ma la cosa più bella è stata scoprire quanto entusiasmo, passione e dedizione ci mettano le persone nel realizzare qualcosa che i più – al di fuori della nostra nicchia – considererebbero inutile, una perdita di tempo. E invece è quello che rende la vita bella e degna di essere vissuta, e dico sul serio.
A volte, noi che amiamo la fotografia e ci mettiamo passione ma ne facciamo anche una fonte di reddito, ci dimentichiamo come siano proprio gli “amatori”, i “dilettanti” quelli che la fotografia la onorano di più: non conta la bellezza e precisione delle foto realizzate (davvero: chi-se-ne-frega), conta tutto quello che sta dietro, e che esercizi come questo rendono evidente, commovente addirittura.
Mentre impaginavo l’ebook dell’ultimo esercizio collettivo dedicato alla “Luce” mi sono reso conto di come, al di là delle sensibilità singole, dei livelli tecnici diversi, delle capacità diverse di percepire e comunicare un messaggio, alla fine il “corpus” che ne emerge ha una sua unitarietà, un filo rosso che unisce ogni foto, e questo nonostante – per scelta – i temi assegnati siano sempre abbastanza generici e dunque declinabili in modo diverso.
Ho così scoperto che per i più il tema della luce porta a scattare foto buie in cui uno squarcio di luce si fa strada: la luce diventa simbolo di speranza, di gioia, di ricerca di una via d’uscita. Magari il periodo che stiamo vivendo ci ha messo lo zampino, e questo va bene. Anzi, è fantastico, perché un’anima collettiva esiste, e si rivela. Peccato che funzioni solo nei piccoli gruppi, e non a livello mondiale!
Per concludere, io penso davvero che tutti coloro che condividono la passione della fotografia con degli amici, o nei circoli e associazioni fotografiche, dovrebbero creare progetti collettivi, cercando di applicare la cooperazione, più che la semplice partecipazione.
Qualcosa ha fatto la FIAF, con progetti estesi a tutti gli iscritti, ma giocoforza – con dei numeri così ampi – si torna al lavoro di gruppo guidato da curatori che selezionano e organizzano le opere. Ma se scendiamo a realtà più piccole, allora la discussione collettiva del lavoro svolto, di dove deve andare a parare il lavoro stesso, l’appoggiarsi reciproco diventano elementi di crescita comune, molto, molto potente.