Le foto dei “gattini”….

Oggi osservavo la mia gatta e ripensavo a mia moglie che continua a riempire il suo smartphone di innumerevoli foto di “Polly” (non chiedetemi perché è stata chiamata così, anche perché non lo so).

Ora, sappiamo bene che non è certo lei (mia moglie) a essere strana (almeno, non per questo): semmai son strano io che non ho mai fotografato la mia gatta. L’ho fatto stavolta, rigorosamente con lo smartphone, apposta per questo post, che nasce proprio dalla riflessione su come scegliamo i nostri soggetti, che siano gatti, cani o altro.

Cos’è che davvero ci attira?

Come mai la gente ama tanto postare foto di gatti (i propri, ma anche condividendo le foto fatte da altri)? Il gatto, diciamocelo, è un soggetto perfetto. E’ grazioso, puccioso, e in generale è interessante perché assume spesso pose buffe, comunque mai banali. Insomma, sta al gioco. Funziona alla grande, è un acchiappalike straordinario.

D’altra parte con quegli occhioni lucidi e il naso umido, chi può resistere?

C’è, indubbiamente, una forma di “razzismo”: i gatti non pucciosi, ma “pulciosi” e spelacchiati che incontro a volte – randagi malati e malmessi – non li fotografa e non li condivide quasi nessuno, a parte gli attivisti delle Associazioni animaliste. E questo è il punto: è il grazioso, il carino che ci attira, sebbene la foto di un gatto pulcioso sia assai più interessante, o almeno potrebbe esserlo.

Capita lo stesso con gli umani, in fondo.

Qualche fotografo sfida i luoghi comuni riprendendo modelle curvy o donne e uomini comuni, ma non c’è alcun dubbio che il mainstream sia costituito da modelle sexy e con le misure giuste, riprese in pose che esaltano, o dovrebbero farlo, queste loro preziose caratteristiche.

C’è una sorta di frattura fra la realtà che ci circonda e quella fotografata.

Io, in giro, di queste ragazze perfette mi capita di vederne di rado, e questi uomini “tartarugati” dove stanno?

La realtà è fatta di donne che combattono la cellulite e di uomini come me che non sanno come eliminare quelle cavolo di “maniglie dell’amore” (che nome assurdo). Anzi, che lo sanno benissimo ma non hanno voglia – come me, appunto – di impegnarsi con estenuanti diete o accettare di sudare in qualche palestra.

La realtà è diversa dalle foto comuni e pare quantomeno strano che quasi tutti i fotografi più importanti e quotati abbiano costruito la propria carriera opponendo la cultura della verità e della testimonianza all’andazzo generale (penso a Cartier Bresson, Capa, Weston, Pellegrin, Berengo Gardin eccetera eccetera).

Ci sono stati, è vero, fotografi che hanno utilizzato – e utilizzano – le immagini di tipo “popolare” in modo creativo (pensa a Martin Parr), o che hanno cavalcato l’onda del popolare per raggiungere una platea più ampia, ma nell’insieme sembra delinearsi una cesura: i fotografi amatoriali, della domenica o il “popolo fotografante” dei Social si dedica ai soggetti carini e di sicuro successo, mentre i fotografi “seri” cercano di stare dalla parte opposta della barriera.

I primi vogliono realizzare foto di gatti “pucciosi”, i secondi cercano i gatti “pulciosi”.

Chi ha ragione? Chi collezione un milione di “like” su Instagram con la fidanzata in bikini sdraiata su un’amaca stesa tra due palme sulla spiaggia di Honolulu, o il reporter duro e puro che scansa le bombe per testimoniare l’ennesima guerra in Medio Oriente?

Non bisogna essere snob: non è detto che il primo sia un superficiale e il secondo un eroe, perché ci sono seri fotografi di viaggi e turismo che si fanno il mazzo per creare reportages accattivanti, e mezzi falliti che giocano alla guerra presentando foto inguardabili e colme di orrore.

Diciamo che alla fine conta – come sempre – principalmente quel che si vuole esprimere , l’idea di fondo della fotografia che si intende realizzare. Insomma, l’onestà intellettuale. Essere un fotografo serio è qualcosa che prescinde da quel che si fotografa, riguarda direttamente la persona.

Se per la mia idea serve raggiungere una gran massa di persone e veicolare il messaggio in modo diretto e senza fronzoli, il gatto “puccioso” va benissimo, anzi, è l’ideale. E’ la strada scelta da fotografi come Oliviero Toscani, ad esempio.

Se voglio raccontare una situazione al limite, una realtà scomoda o semplicemente voglio schockare il mio pubblico, farlo riflettere, attirare la sua attenzione, ecco che il gatto “pulcioso” andrà benissimo, sebbene poi occorra applicare la propria sensibilità per non esagerare. Troppe foto urlate e che colpiscono allo stomaco si vanno diffondendo negli ultimi anni per non prestare attenzione a questo aspetto, e infatti non nascono Salgado o Pellegrin tutti i giorni.

D’altra parte entrambe le tipologie di gatti rispondono a dei cliché, e i cliché – è noto – funzionano, per questo non sappiamo rinunciarci.

E “la madre di tutti i cliché” è quella che ritiene che per fare una foto bella occorra un soggetto bello, mentre non dovremmo puntare a una foto bella ma a una foto “buona” come sosteneva Ugo Mulas ripreso da Berengo Gardin (ci ragiono su in questo Podcast)

E allora poco conta che il gatto sia bello o brutto, spelacchiato o d’angora: conta solo lo sguardo del fotografo, che riprenderà il gatto spelacchiato rispettando la sua dignità, o fotograferà il bel siamese a pelo lungo senza “piacionerie” facili. Un difficile equilibrio, che bisogna sempre cercare e che solo a volte si raggiunge. In fondo, è per questo che la fotografia (dicono) è difficile.

Al termine di questa digressione, tornerei alla mia gatta acciambellata sul letto, da cui sono partito, e all’abitudine di mia moglie di fotografarla a ripetizione. Lo stesso vedo fare a un sacco di gente, e non solo con i propri gatti, ma anche con i propri figli, amici, parenti.

Mi sono sempre chiesto perché fotografare chi appartiene già alla nostra vita, che possiamo toccare, accarezzare in caso baciare (meglio non il gatto).

Cos’è che oggi ci spinge – visto che possiamo farlo con facilità e senza spese – a documentare, giorno dopo giorno, non solo le attività importanti (le cerimonie, gli eventi, i compleanni, i matrimoni e così via), ma tutti gli esseri – umani o animali – che appartengono alla nostra famiglia o entrano nella nostra vita, e ogni luogo o situazione in cui ci troviamo?

Ricordate la battuta di Totò in cui, a chi gli chiedeva perché sosteneva di non lavarsi, rispondeva piccato: “e che sono sporco io?”.

Non esercitiamo la memoria perché – sosteniamo – “mica sono smemorato”: ma in verità lo siamo, o lo stiamo diventando. Il telefono è il sostituto dei neuroni in cui immagazziniamo la nostra realtà. E’ una delega, basata sulla paura. La paura di non ricordare ogni cosa, perché si va sempre di fretta, e non si sa mai.

Eppure, dimenticare è fondamentale. Pulire l’hard disk cerebrale è un processo indispensabile per crescere: non potremo mai farlo sulle macerie del passato.

La mia gatta è molto anziana e forse tra qualche anno potrebbe non esserci più. Fa parte della vita, e nessuna foto potrà davvero sostituirla.

Una buona foto, invece, non lavora solo sulla base della memoria, ma con le emozioni e con le idee, ed è questa la lezione dei grandi fotografi.

E anche dei gatti: per loro esiste solo il presente. Del passato, come del futuro, se ne fregano. Magari sapessimo farlo anche noi!

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