
Oggi parliamo di un altro mostro sacro della street photography: Lee Friedlander. Compagno di avventure di Garry Winogrand, è considerato al pari di quest’ultimo come una delle personalità più influenti del secolo scorso nell’ambito della fotografia di strada.
Anche se, a differenza di altri maestri del genere, friedlander si cimentò, come vedremo nell’articolo, con molti altri generi fotografici, dimostrando un enorme eclettismo.
(Ti piace la street photography? Leggi la nostra piccola guida )
La passione di Friedlander per la pellicola si accende in tenera età quando, appena quattordicenne, riesce a ottenere il suo primo incarico retribuito in qualità di fotografo.
Il compito, a dire il vero, è piuttosto bizzarro. Siamo sul finire degli anni Quaranta, in quel periodo dell’anno che è tutto un tripudio di lucine colorate e pacchi regalo: sì, mi riferisco proprio al Natale.
Peggy Plus, una dei membri più illustri della comunità di Aberdeen (città natale di Friedlander), si sta scervellando per trovare un modo originale di augurare buone feste a tutti i suoi cari. All’improvviso, le viene un’idea: perché non fotografare il suo amatissimo cagnolino e farne una cartolina di auguri personalizzata da inviare ad amici e parenti?
D’accordo, probabilmente questa non è l’idea del secolo (anche se negli anni ’40 era comunque ancora originale!), però è quella che permette a Lee Friedlander di guadagnare i suoi primi spiccioli e di indurlo a credere che sì, forse una carriera come fotografo non era solo un sogno ma una possibile realtà.
Da allora, le cose prendono la piega giusta e conducono Friedlander sul sentiero del successo.
Il periodo all’Atlantic Records
C’è un momento che i teenager di tutto il mondo aspettano con ansia fin dall’adolescenza: l’anno in cui diventeranno maggiorenni e potranno finalmente prendere la patente, una circostanza che nel complesso e contorto linguaggio giovanile significa libertà.
Nel caso di Friedlander, l’anno fatidico corrisponde al 1950. Da quel momento in poi il giovane fotografo inizia a esplorare tutti i locali dello stato di Washington e sviluppa un certo orecchio per la musica jazz, blues e R’n’B.
Inizia a scattare qualche foto ai musicisti così, tanto per divertirsi e fare un po’ di pratica, come complemento ai suoi studi .
Senza immaginare che, solo qualche anno più tardi, avrebbe fotografato gli artisti più famosi dell’epoca per conto dell’Atlantic Records, e che le sue foto sarebbero finite sulle copertine di decine di dischi jazz e blues.
John Coltrane fotografato da Lee Friedlander mentre suona il sax
La collaborazione con la celebre casa discografica inizia proprio nel 1956, anno in cui Friedlander si trasferisce a New York dopo aver terminato i suoi studi al Art College di Pasadena.
In quel primo periodo a New York ritrae musicisti del calibro di Duke Ellington, John Coltrane e Charles Mingus, mostri sacri della musica jazz, e collabora anche con Ray Charles, Aretha Franklin e Ruth Brown.
Insomma, l’amore per la musica e la passione per la fotografia portano Friedlander a farsi un nome che si legherà indissolubilmente ai più grandi musicisti in circolazione in quel periodo.
Contemporaneamente inizia anche a esplorare il mondo del nudo e si dedica allo studio della composizione e della luce nella fotografia in bianco e nero. Il suo interesse per la tematica lo porta a collaborare con alcune importanti riviste come Collier’s, McCall’s e Sports illustrated.
Quest’ultima, in particolare, è da sempre conosciuta più per gli scatti che ritraggono bellissime modelle in costume da bagno in riva al mare piuttosto che per le notizie riguardanti discipline come il golf, il tennis e lo sci. Circostanza, questa, che gioca a favore di Friedlander e lo aiuta a prendere dimestichezza con un certo tipo di fotografia glamour.
Qualche tempo dopo alcune delle sue fotografie in bianco e nero finiscono dritte nel numero di settembre della rivista Playboy (edizione 1985). Si tratta di immagini di nudo che ritraggono una modella speciale come Madonna, la quale aveva da poco pubblicato il suo secondo album Like a Virgin.
Vent’anni più tardi, nel 2009, una di quelle immagini verrà battuta all’asta per un valore di $ 37.500 in occasione di un evento alla famosa casa d’arte Christie’s.
Uno degli scatti del servizio fotografico per Playboy, che ritrae la celebre popstar Madonna nuda
Ma torniamo agli anni ’50 e ’50. La vita trascorre frenetica e produttiva per Lee Friedlander in quel di New York.
La città che non dorme mai è una fonte di ispirazione continua, per lui e per tanti altri. Nello stesso periodo, infatti, conosce Robert Frank, Garry Winogrand e Diane Arbus, artisti con cui stringe un forte legame di amicizia e condivide le sue riflessioni sull’arte e la fotografia.
Questi incontri lo portano a esplorare il mondo della street photography, in cui Frank e Winogrand sono già profondamente coinvolti. Friedlander ne rimane affascinato e non può fare a meno di seguire i suoi nuovi amici nelle loro interminabili sessioni fotografiche per le strade delle grandi metropoli, pronto a cogliere ogni suggerimento o spunto disponibile.
Poco a poco Lee sviluppa un suo stile visionario e metaforico, profondamente diverso da quello di Winogrand (che non amava attribuire particolari significati alle sue fotografie).
Friedlander vuole descrivere i cambiamenti della società americana attraverso gli oggetti che le persone utilizzavano ogni giorno: il televisore, i cartelli stradali, le automobili, gli specchi.
Tra il 1961 e il 1969 realizza una delle sue opere più iconiche, chiamata The Little Screens. Si tratta di una serie di scatti che mostrano alcune stanze di hotel e motel americani, completamente vuote e spoglie, eccetto per la presenza di un televisore acceso. Il contrasto fra la luce emanata dallo schermo e il buio della stanza che lo ospita contribuisce a creare un’atmosfera cupa e surreale, a tratti inquietante e angosciante.
Questa immagine fa parte della serie The Little Screens: il televisore è acceso ma non c’è nessuno a guardarlo
Walker Evans definì quest’opera come una serie di “arguti, brillanti e irriverenti sonetti di odio”.
Esiste forse un simbolo più adatto di uno schermo televisivo per descrivere al meglio la cultura americana? Forse lo batte solo un doppio cheeseburger. Friedlander voleva incoraggiare lo spettatore a riflettere sulla rapida e incontrollata ascesa del fenomeno televisivo: fa un certo effetto rendersi conto del fatto che 56 anni fa egli aveva già intuito la portata di questa “conseguenza” del progresso.
In questa serie di foto non c’è traccia dell’essere umano, c’è soltanto uno schermo che parla da solo in una stanza vuota. Le immagini risalgono a molti anni fa, eppure sembrano così attuali. Nulla è cambiato nel frattempo, forse solo il medium, che ora è il telefono cellulare.
La street photography in compagnia di Winogrand
In compagnia della sua fedele Leica 35 mm, Lee iniziò a viaggiare su e giù per gli Stati Uniti fotografando qualunque persona, oggetto o situazione si trovasse sul suo cammino.
Fu così che i famosi cartelli stradali, le vetrine dei negozi, gli alberi rinsecchiti del deserto diventarono i protagonisti un po’ strambi dei suoi primi scatti.
Presto sviluppò una sorta di ossessione per i riflessi: che fossero d’acqua o vetro, aveva poca importanza. Quello che premeva a Friedlander era immortalare il mondo in tutte le sue sfaccettature, anche in quelle più evanescenti e inusuali.
Ecco un esempio della maniera che aveva Friedlander di intendere e sfruttare i riflessi di luce
Non fece mai nulla per nascondere il suo amore per le ripetizioni, anzi. Ne fece un tratto distintivo del suo stile. Fotografava le stesse città, le stesse vie e persino gli stessi soggetti più e più volte nel tempo, alla ricerca di eventuali cambiamenti avvenuti dall’ultima volta che era stato lì.
Friedlander usava la sua Leica come una specie di diario personale, un mezzo utile per raccontare la quotidianità della vita che lo circondava (e i cambiamenti che si verificavano) attraverso gli oggetti di uso comune. Amava attribuire alle sue immagini una strana atmosfera che mettesse un po’ a disagio lo spettatore. Si fissava su elementi che di solito nessuno nota davvero (come i cartelli stradali) e che, proprio per questo, risultavano strani e bizzarri.
La sperimentazione con gli autoritratti
Oltre alla street photography, al nudo, alle copertine dei dischi jazz e blues, Friedlander sviluppa un certo interesse anche per gli autoritratti. A partire dagli anni Sessanta, infatti, inizia a giocare con la sua Leica e a sperimentare diverse inquadrature, espressioni, angolazioni e scenografie.
Ritrae se stesso con gli occhi chiusi contro una parete, illuminato solamente dalla luce che entra da una finestra presente nella stanza. Spesso ritrae la sua ombra che si staglia contro i marciapiedi, oppure il riflesso della sua sagoma che appare nelle vetrine dei negozi in città.
“All’inizio, la mia presenza nelle fotografie era affascinante e inquietante allo stesso tempo. Ma più passava il tempo e più mi sentivo parte integrante di decine di idee nascoste dietro quell’immagine, e così riuscivo a prendermi in giro con leggerezza”.
Il fotografo, infatti, non è mai il vero protagonista dei suoi scatti, nemmeno quando si tratta di autoritratti. C’è sempre qualche elemento nello sfondo (un riflesso, uno specchio, una parete) che lo mette in secondo piano, che quasi gli ruba la scena.
Un famoso autoritratto del fotografo
Il bello dei selfie di Friedlander è che ognuno può trarre le conclusioni che preferisce a riguardo. Alcuni sostengono che il fotografo volesse far capire allo spettatore che il mondo in cui viviamo è governato da forze misteriose che conducono al caos, alla distruzione e all’isolamento dell’essere umano.
Altri credono che, con queste fotografie, Friedlander abbia voluto dimostrare che in ogni immagine c’è sempre un po’ dell’anima e del carattere di chi la scatta. Altri ancora vedono solo una serie di scatti bizzarri e nonsense, che in fondo non celano alcun messaggio illuminante.
Puoi pensare quello che vuoi mentre osservi il fotografo che nasconde il viso dietro una lampadina accesa, oppure mentre la sua ombra fa capolino dall’inquadratura e delicatamente si adagia su una passante impellicciata che passeggia per le strade di New York.
“[…] la macchina (fotografica) non mi appartiene, è un mezzo aggiunto di cui non si può né sopravvalutare né sottovalutare la portata, ma proprio per questo è un mezzo che mi esclude mentre più sono presente”.
E’ un articolo di Valentina Zanzottera