
Chi mi conosce sa che nel materiale informativo che mi riguarda specifico sempre di essere, ovviamente, un fotografo ma anche uno scrittore. Penso di averne il diritto, visto che ho pubblicato decine di testi su molte importanti riviste (anche se solo per accompagnare i miei reportage fotografici), diversi saggi di fotografia e non solo (anche qualche saggio più o meno storico-geografico), e anche libri fotografici accompagnati da testi abbastanza lunghi.
Ultimamente mi sembra che la mia vena stia inaridendosi.
Non tanto di idee, ma di voglia di scrivere. Paradossalmente questo coincide con un periodo in cui mi è capitato di leggere diversi libri – non fotografici – scritti da fotografi.
Ora, se libri tipo “Niente di antico sotto il sole” di Luigi Ghirri (recentemente ripubblicato) sono alla fine delle raccolte di riflessioni sul proprio lavoro, dunque un sorta di diario, libri come “Gestus” di Jeff Wall e “Scritti” di Lewis Baltz (che ho finito di leggere in questi giorni) sono a tutti gli effetti dei saggi che analizzano la fotografia, la sua portata narrativa, la sua importanza nel mondo dell’arte e altre cose del genere.
Mi torna sempre in mente quel che sosteneva Ansel Adams, e cioé che il fotografo dovrebbe parlare con le foto, senza dilungarsi in lunghe e articolate spiegazioni. In effetti lui ha scritto molto, ma a parte l’Autobiografia, si trattava soprattutto di testi tecnici.
In questi giorni mi sto gustando una nota rivista di fotografia e accanto ai portfolio dei diversi autori, a volte lo ammetto non facilmente comprensibili, capita ci siano lunghi testi curatoriali che a loro volta sono decisamente incomprensibili.
Comunque, mi sono reso conto che accanto – anche sopra e sotto – la fotografia ci sono sempre lunghi e complessi testi, una battaglia contro la supposta incapacità della fotografia di comunicare efficacemente.
Una mancanza di fiducia piuttosto singolare per chi con la fotografia ci vive o che comunque la ama perdutamente.
Ci sono diversi critici ed esperti che scrivono libri di fotografia, sia di “filosofia dell’immagine” che di critica vera e propria; molti a dire il vero sono semiologi che cercano disperatamente di riportare la fotografia a un linguaggio, tranne poi arrendersi dinanzi al fatto che è un linguaggio che parla in modo trasversale – diciamo spirituale? – e a cui le leggi della semiotica o della linguistica si applicano con difficoltà. Leggetevi la bella antologia di Claudio Marra “Le idee della fotografia” e scommetto ne emergerete vagamente sconvolti come me.
Davvero abbiamo bisogno di tutti questi salti carpiati doppi e tripli per far accettare la magia e la bellezza della fotografia? Davvero per ogni foto – anche la più banale – occorrono fior di testi critici per arrivare a capire che è una gran foto (se poi lo è davvero)?
Beh, insomma, mi sembra che oggi molti fotografi scrivano tanto e fotografino poco. E spesso ho l’impressione che davvero le loro foto siano come l’aforisma della barzelletta, attribuito ad Ansel Adams: siccome non funzionano, si affannano a spiegarle. Comunque non fanno ridere.
Tempo fa, ho chiuso il mio “altro” blog, quello che tenevo sul mio sito, sostituito con un blando “Foto-blog” di condivisione di foto commentate (non spiegate). Mi sembrava di non avere più nulla di davvero interessante da dire. Un’impressione che prosegue ancora.
Dopo aver pubblicato un “photobook” (“Una Momentanea Eternità“) con tante foto, ma anche tanti testi, alla fine mi sono detto: davvero un libro fotografico non può funzionare senza testi?
Poi mi sono imbattuto in due esempi lampanti del contrario: “12 Hz” di Ron Jude e “Boundary Hunt” di Toshio Shibata (entrambi li ho video-recensiti per Reflex-Mania Official su Facebook). Nei due libri fotografici i testi erano ridotti a poche righe, uno 0,1% del libro stesso, diciamo.
Così, nel mio ultimo fotolibro, “Signs“, ho eliminato del tutto le parole. Nemmeno il titolo in copertina, solo sul dorso. Se sono stato in grado di realizzare foto che sono in grado di dire quello che spero, a che servono le parole?
Debbo dire che le reazioni sono state positive, ma tanti mi hanno chiesto perché non ci fossero testi. “Anche solo due paginette“, tanto per far capire il senso dell’operazione.
Sono convinto che chi ha acquistato il libro abbia ben compreso di cosa parli e come lo faccia. Solo che vorrebbe sentirlo dalla mia “voce” (scritta), quasi che avesse paura a trarre le proprie, personali conclusioni. Ecco il male che le parole spesso fanno alla fotografia.
Orientano, ingabbiano, modificano, alterano, sconvolgono, tradiscono. Specie se sono le parole dell’autore!
Come docente della Masterclass del corso “Smettere di essere principiante” so bene quanto sia difficile convincere i corsisti della possibilità, anzi della necessità, di non mettere testi lunghi, anzi magari di non metterne affatto. “Ma poi si capisce il senso del progetto?“, mi chiedono. Se non si capisce, il problema è nelle foto, non nel testo che manca! Ma non solo: le foto non vanno solo “comprese”, vanno sentite, ascoltate, lasciate fluire dentro di noi.
La bellezza della fotografia è questa: per esaudire le curiosità di base può bastare una semplice didascalia (il luogo, la data…), per il resto c’è la foto. Oppure non c’è nulla.
Per questo nella nostra rivista “OI MAG”, realizzata pubblicando i progetti dei corsisti della Masterclass, le parole sono poche, al più un “artist statement” per inquadrare il tema, poi la parola dev’essere lasciata alle immagini: che cantino, svolazzando come fringuelli, invece di tenerle nella gabbia soffocante delle parole, spesso scritte a vanvera!
In conclusione: non sono certo di voler continuare a esser considerato uno “scrittore”. Con l’avanzare dell’età sento la forte propensione a far sì che sia la mia fotografia – piaccia o non piaccia – a rappresentare il mio pensiero, le mie sensazioni. E non è affatto escluso che anche questo blog diventi un “foto-blog” in cui invece di trovare qualcosa di intelligente da dire sulla fotografia, e spero in questi anni di esserci riuscito abbastanza spesso, siano le foto a parlare. Chissà…