
Pittore, fotografo, regista e grafico, Man Ray incarna uno status difficile da etichettare semplicemente come “fotografo”, per quanto sia passato alla storia soprattutto per il suo grande lavoro dietro l’obiettivo della macchina fotografica.
La sua attività infatti è stata quella di un artista sfaccettato e “globale” nel senso più attuale della parola. Una personalità poliedrica che trovò la sua naturale realizzazione nel movimento del Surrealismo.
Non è un caso, quindi, che l’approccio alla fotografia avvenga in Man Ray per un’urgenza personale: fotografare la propria collezione di oggetti d’arte.
Era il 1914 e da due anni firmava i suoi lavori con il nome che oggi tutti conosciamo, pseudonimo di Emmanuel Rudzitsky.
Man Ray tra Dada e il Surrealismo
Nato a Filadelfia nel 1890 da una famiglia ebrea di origini russe che si era trasferita a New York, Man Ray trascorre gran parte della gioventù nella metropoli americana dove completa gli studi e inizia a lavorare come disegnatore grafico a partire dal 1908.
L’educazione ricevuta alla Boys High School di Brooklyn, dal 1904 al 1909, aveva fornito al giovane Emmanuel delle solide basi di disegno e diverse altre tecniche artistiche.
Nello stesso periodo iniziò a frequentare i musei e le gallerie di New York, avvicinandosi alle opere dei classici della pittura e all’arte contemporanea americana ed europea.
Dopo aver rifiutato una borsa di studio in architettura, compie il grande passo verso l’inizio di una carriera: l’acquisto della prima macchina fotografica nel 1914. Nello stesso anno sposa la poetessa belga Adon Lacroix, da cui si separerà cinque anni dopo.
Il 1915 è un altro momento fondamentale nella vita di Man Ray: l’incontro con l’artista francese Marcel Duchamp, successivamente animatore del Dadaismo e del Surrealismo.
L’anno successivo, insieme con il collezionista d’arte Walter Arensberg, e diversi altri artisti, i due fondano la Society of Independent Artists.
Dello stesso periodo è la prima opera proto-Dada intitolata semplicemente “Autoritratto”.
“Self-Portait”, 1916: l’opera assemblata lasciò parecchia frustrazione nei visitatori della mostra alla Daniel Gallery di New York, visto che il campanello posto al fondo del pannello non era funzionante. Man Ray fu invece positivamente impressionato da questa reazione: voleva che lo spettatore trovasse il proprio significato all’opera.
È in questa fase che Man Ray mette da parte i primi esperimenti convenzionali con la pittura per dedicarsi completamente al Dadaismo, che stava muovendo i primi passi in Europa grazie a personalità come Tristan Tzara, Marcel Janco, Hans Arp, Richard Huelsenbeck e Hans Richter.
(…..Il dadaismo mette in dubbio e stravolgee le convenzioni dell’epoca, dall’estetica cinematografica e artistica, alle ideologie politiche … propone il rifiuto della ragione e della logica, ed enfatizza la stravaganza, la derisione e l’umorismo. Gli artisti dada erano volutamente irrispettosi, stravaganti, provavano disgusto nei confronti delle usanze del passato; ricercavano la libertà creativa per la quale utilizzavano tutti i materiali e le forme disponibili …..) cfr. wiki
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Tra il 1918 e l’anno successivo produce le prime aerografie, create con un’aeropenna, strumento di ritocco molto usato dai grafici disegnatori del periodo.
Parallelamente ai primi “oggetti” dadaisti, dà vita al ramo americano del movimento Dada che si opponeva all’arte tradizionalmente intesa.
Nel 1920, con Katherine Dreier e Marcel Duchamp fonda la Société Anonyme, una collezione itinerante che può essere vista come il primo museo di arte moderna negli Stati Uniti.
Un anno dopo esce il primo e unico numero del New York Dada: Man Ray giunge alla conclusione che “Dada non può vivere a New York”. Ed è pronto per stabilirsi a Parigi seguendo Duchamp che torna in Europa dopo la Grande Guerra.
Man Ray a Parigi
Nella capitale francese Man Ray si stabilisce nel quartiere di Montparnasse, frequentato da diversi artisti e inizia a frequentare Alice Prin.
Anche nota come Kiki de Montparnasse, la modella sarà la sua compagna (e la sua musa) per la maggior parte degli anni Venti, oltre che la protagonista dei suoi scatti più celebri e di alcune pellicole sperimentali come Le retour à la raison e L’Étoile de mer.
“Le violon d’ingres”: In questo celebre scatto del 1924, Ray usò Kiki de Montparnasse, trasformando il suo corpo in uno strumento musicale, grazie alle stesse “F” corsive del violoncello che abbiamo visto sopra in “autoritratto.
Capitale culturale d’Europa, la Ville Lumière negli anni Venti è il teatro di grandi incontri tra le celebrità del mondo dell’arte. Grazie a Marcel Duchamp, Man Ray entra in contatto con André Breton e Philippe Soupault, che ospita nella sua libreria la prima mostra del fotografo americano.
È in questa occasione che viene esposto il controverso “Cadeau”, tipico esempio decontestualizzato di un oggetto della quotidianità che perde del tutto la sua funzione, fino ad assumere una valenza fortemente negativa.
Man Ray, “Cadeau”, 1921 – Uno dei primi scatti dell’artista propone una nuova, straniante, funzione del ferro da stiro rielaborato con 14 chiodi in fila: rovinare gli abiti.
Il successo di Man Ray a Parigi era in parte dovuto alla sua grande abilità di fotografo ritrattista per celebri artisti dell’epoca: Jean Cocteau, James Joyce, Gertrude Stein. E nello stesso periodo in cui entrava in contatto con la cultura mondiale, Ray produsse quelle che egli stesso chiamò “rayografie”, ovvero fotogrammi ottenuti poggiando direttamente degli oggetti sulla carta sensibile.
Questa “tecnica” fu scoperta casualmente durante lo sviluppo in camera oscura: un foglio di carta vergine cadde in mezzo agli altri senza, ovviamente, dare esiti.
Irritato, Man Ray poggiò degli oggetti di vetro sul foglio e accese la luce: su sfondo nero, si scorgevano delle immagini deformate. Aveva trovato il modo per esaltare il carattere paradossale degli oggetti del quotidiano che amava rappresentare.
Insieme con artisti del calibro di Jean Arp, Max Ernst, André Masson, Pablo Picasso e Joan Mirò Man Ray partecipa alla prima mostra del Surrealismo tenutasi a Parigi nel 1925 alla Galerie Pierre.
Sul finire degli anni Venti, la fama dell’artista americano non riguarda solo l’avanguardia e la cultura alta, dal momento che anche la prestigiosa rivista Vogue lo chiama per alcuni scatti di moda.
Erotique Voilée, 1933. Musa del movimento Surrealista, l’artista svizzera Meret Oppenheim è la protagonista di una serie di fotografie scattate accanto a un torchio di stampa. L’accostamento nudità/industria creava una forte decontestualizzazione che stava alla base della fotografia di Ray.
Con il secondo conflitto mondiale, Ray fu obbligato a ritornare negli Stati Uniti viste le sue origini ebree. Prima a New York, poi a Los Angeles, l’artista trascorre gli anni della Seconda Guerra Mondiale impegnato prevalentemente nella pittura, la sua prima forma artistica.
A Parigi, che considerava la sua casa, tornò subito dopo la fine del conflitto per rimanervi fino alla sua morte avvenuta nel 1976.
Man Ray maestro della sperimentazione
Lontano anni luce dall’idea di realismo fotografico che era alla base di un artista a lui antitetico come poteva essere il contemporaneo Robert Capa, Man Ray portò la fotografia al livello più vicino all’approccio pittorico.
Non va dimenticato che la sua attività si sviluppò in anni in cui la fotografia era un’arte ancora del tutto nuova.
E infatti, l’approccio di Ray fu assolutamente sperimentale e giocato sulle ambiguità di un genere tutto da esplorare.
Ciò che salta subito all’occhio, e che accomuna la maggior parte delle sue immagini, è l’irriverenza del soggetto immerso in tecniche sperimentali come la “rayografia”, il collage o la solarizzazione.
Per Man Ray l’obiettivo agisce come un pennello sulla tela. La realtà da rappresentare non ha ambizioni realistiche, ma esplorative dell’Io. La sua fotografia è onirica e surreale, volutamente fuori contesto e coscientemente spiazzante.
Les Larmes, 1932. Nota anche come “Glass Tears”, questa immagine è probabilmente la più nota fotografia di Ray. Lo stile cinematografico “tagliato” denota un approccio filmico al soggetto, lo sguardo di una ballerina di can-can rimasta senza nome. La foto fu scattata subito dopo la rottura con l’artista e amante Lee Miller.
Image e Magie, immagine e magia, in francese sono tra loro parole identiche per quanto anagrammate, e sono la chiave per comprendere la poetica di Man Ray a cui non interessa rappresentare la realtà così come si presenta oggettivamente davanti ai nostri occhi. E in effetti la sua frase:
«Dipingo ciò che non posso fotografare. Fotografo ciò che non voglio dipingere. Dipingo l’invisibile. Fotografo il visibile»
spiega da sola due aspetti dello stile del fotografo americano:
- Il rapporto complementare che ha in lui il binomio pittura/fotografia
- L’approccio onirico e magico del suo obiettivo.
Un altro tratto tipico dello stile di Man Ray è la solarizzazione, tecnica che il fotografo americano sperimentò in diverse occasioni. Prima di terminare lo sviluppo, infatti, Ray velava il negativo con un piccolo colpo di luce in camera oscura. Una altra scoperta che avvenne accidentalmente in fase di sviluppo, e che diventò uno dei tratti distintivi delle sue foto.
“Self Portrait with Camera”, 1932. In questo scatto è chiarissima la tecnica della solarizzazione, che lascia l’immagine a metà strada tra il negativo e la forma dopo lo sviluppo.
Ciò che Man Ray otteneva con la solarizzazione era un effetto a metà strada tra la fotografia e il disegno grafico, regalando alle immagini impresse uno stile trasognato e fortemente onirico.
Ancora una volta nell’opera di Ray, è ribadito il legame indissolubile tra pittura e fotografia,
La lezione di Man Ray
Se c’è una lezione lasciata dal grande fotografo americano, questa è da ricercare nel tentativo di dare a ogni singolo scatto un peso specifico immenso, come quello di un’opera d’arte a se stante.
Ogni fotografia è un quadro, o una scultura. Non c’è improvvisazione nell’arte di Man Ray, ma studio del soggetto e un messaggio sovversivo da veicolare ogni volta attraverso un’immagine che stupisce.
Attraverso un fotogramma che porta sempre con sé una domanda.
Il suo saggio Sulla fotografia, in italiano pubblicato nel 2006 da Abscondita, è piuttosto chiaro su quello che dev’essere lo spirito con cui Man Ray concepiva la sua arte:
“Alcune delle opere d’arte migliori, delle più riuscite, sono state prodotte quando gli autori non pensavano affatto di creare un capolavoro, ma si preoccupavano di come dar forma a un’idea. La natura non crea opere d’arte. Siamo noi, con la facoltà d’interpretazione propria della mente umana, che vediamo l’arte”.
Non si descrive affatto un atteggiamento improvvisato ma, al contrario, l’organizzazione di un’idea. Cercare il capolavoro è la via sbagliata, perché porterebbe a esiti fasulli, lontani dalla spontanea necessità di sperimentare.
“Un’idea può nascere da un’unica parola, anche se un’immagine può valere migliaia di parole, una sola parola può determinare la creazione di migliaia di immagini. Ecco che cosa aveva realizzato la fotografia. Avendo esplorato la possibilità della fotografia in bianco e nero, mi venne un nuovo desiderio. Possiamo esprimerlo così: invece di «riprendere un’immagine», desiderai «fare un’immagine». Divenne dunque necessario prendersi certe libertà con la tecnica, oltre che con il soggetto, così come gli artisti hanno sempre fatto in altri campi. Per quanto insolito, da una modifica del procedimento meccanico si può giungere a un’interpretazione più originale, anziché limitarsi a registrare ciò che il fotografo si trova dinanzi”.
Un altro prezioso suggerimento giunge sulla tecnica, ritenuta da Man Ray solo un punto di partenza da cui prendersi tutte le licenze possibili nel nome dell’originalità.
“Fare” in luogo di “riprendere” è la sintesi della sua filosofia: uno scatto non è la registrazione pedissequa di un momento ma l’esaltazione di un’idea.