
Dinanzi a un’opera di pura fantasia nessuno di noi crederebbe di star osservando o leggendo qualcosa di reale. Applichiamo infatti quel principio che il poeta inglese Samuel Coleridge nel 1817 definiva “suspension of disbelief“, sospensione dell’incredulità. Si tratta della disposizione psicologica che porta lo spettatore di un film come “Il Signore degli anelli“, o il lettore del relativo libro, a sospendere l’atteggiamento verso un’opera dell’immaginazione in modo volontario (e questo è l’aspetto importante), per immergersi in quella che possiamo definire “la fruizione artistica”. Insomma sappiamo che è tutto falso, che è un parto della fantasia, ma ci piace tanto.
Quando guardiamo le foto di artisti visuali come Jerry Uelsmann ad esempio, applichiamo questo principio nell’accettare che gli alberi volino o le case nascano dalle radici di un albero.
Ma sappiamo farlo guardando una foto di Andreas Gursky che appare vera anche se costruita da un “puzzle” di decine di foto assemblate digitalmente? Diciamo che già così è un pochino più difficile.
Per Umberto Eco la sospensione dell’incredulità si basa su un legame quasi fisico che si crea tra lo spettatore e la realtà rappresentata, nonostante l’evidenza dell’artificio, e questo perché si da per scontato che la fotocamera riprenda qualcosa che era davanti alla stessa nel momento della ripresa. Il che è vero, il fatto è che ci può mostrare oggettivamente delle forme, semmai, ma non la loro “essenza” o il loro significato.
Per questo se debbo documentare il design di un’automobile per un catalogo la fotografia funziona, ma se debbo raccontare qualcosa di quella stessa automobile (magari perché è stata progettata e costruita) tutto si complica.
Aggiungo: anche conoscendo oramai i rischi dell’AI e dunque il fatto che a volte non c’è la fotocamera e non c’è il soggetto vero, molti credono in quel che vedono semplicemente perché ha le forme di una fotografia, la stessa consistenza.
E a proposito di fotografia di automobili: negli ultimi anni la stragrande maggioranza delle immagini pubblicitarie in campo “automotive” non riprende soggetti veri, ma ricostruiti grazie alla CGI (l’antesignana dell’AI, in effetti), cioé la “Computer Generated Imagery“.
Dunque si crea una versione perfetta del nuovo modello di auto grazie a un software, lucida e senza rischio che si vedano impronte o polvere sulla carrozzeria e la si colloca in un paesaggio vero, et voilà.
E detto tra noi, “trucchi” simili si utilizzavano anche prima, ad esempio nel campo della fotografia pubblicitaria di “food”: chi ha mai visto davvero la mozzarella filante e perfetta mostrata sul “packaging” di certe pizze surgelate? E’ noto che il pomodoro delle stesse foto non era cotto (a volte nemmeno vero) e che se fotografavi gli spaghetti questi dovevano essere molto al dente, quasi crudi, per sembrare belli “sodi”. Non a caso è obbligatorio scrivere sulla scatola che “la foto ha il solo scopo di mostrare l’aspetto del prodotto”. Insomma, non è il vero prodotto, ma solo una sua immagine, artefatta. Però ci fa comunque venire l’acquolina in bocca e ci spinge all’acquisto.
Ma al di fuori del campo pubblicitario o strettamente “creativo” (dove tutto è permesso) noi fotografi abbiamo comunque il vezzo di chiedere allo spettatore non di sospendere l’incredulità ma anzi il contrario, visto che ciò che mostriamo – lo affermiamo con sicurezza – è assolutamente vero. Lo giuriamo. Eravamo lì e quel che abbiamo fotografato era davanti a noi. Croce sul cuore, mano sulla Bibbia e non valgono le dita incrociate.
Mi capita spesso di leggere su Instagram o su altri Social di fotografi che la mettono giù proprio in questi termini. Come osi pensare che quel che ti mostro non sia vero? O peggio, credere che sia generato da un’intelligenza artificiale? Non sia mai.
Onestamente mi vien da sorridere. Per gran parte della sua storia la fotografia ci ha mostrato il mondo solo in bianco e nero: davvero il mondo è così? Eh no, il mondo è a colori.
Bene: allora utilizziamo il colore: ma davvero i colori che vedi in certe foto sono quelli naturali? A parte alcune tecniche scientifiche di uso limitato, non si possono riprodurre davvero i colori “come sono” e i fotografi non ci provano nemmeno: forse le tonalità soffuse e con dominante calda delle foto di Luigi Ghirri erano presenti lì, mentre scattava a Versailles o nella pianura Padana? Ma và!
Se guardiamo al lavoro dei fotografi, applichiamo – semmai inconsciamente – il principio di Coleridge: ci fidiamo, abbassiamo le difese, ci “perdiamo a guardare” una realtà che è quasi altrettanto vera del mondo di “Guerre Stellari” (dunque affatto) solo meno tecnologica.
Questa cosa ovvia non dovrebbe mai farci dimenticare che ogni essere umano (anche il più socievole) è una monade che gode di uno specifico punto di vista (a volte privilegiato a volte meno, ma comunque unico) sul mondo, che rafforza con la sua cultura, i suoi pregiudizi, i suoi sentimenti. Anche con la migliore fotocamera del mondo non potrà mai riprendere la realtà, nemmeno raccontarcela, solo esprimere – si spera in modo efficace – quel che vede e sente dal suo personale osservatorio.
E credo che consista in questo la vera forza della fotografia che, come diceva Walker Evans “non ha nulla a che fare con l’Arte, ma proprio per questo è Arte”. Insomma un’arte antiaccademica, in grado di permettere a chiunque di guardare al mondo da punti di vista che non sono i propri, grazie alle foto degli altri. Non ti sembra una cosa bellissima?
A me si. Certo potresti contestare che quando parliamo di fotogiornalismo le cose stanno in modo diverso. Non proprio: uno dei primi a sostenere che un fotoreporter non può essere “equidistante” è stato guardacaso Robert “Bob” Capa, il quale fotografò la guerra civile in Spagna dalla parte repubblicana, antifranchista. E litigò con un collega che durante la guerra tra i paesi arabi e il nascente Stato di Israele voleva fotografare da entrambe le parti in conflitto. Da Ebreo, e a pochi anni dal nazismo, Capa non poteva accettarlo, lui avrebbe scelto solo la parte israeliana. Così tolse il saluto all’amico.
Don McCullin si è sempre dichiarato fermamente pacifista, eppure stava in prima linea: dubito avrebbe “esaltato” (come certi fotografi “embedded“) le gesta dei militari o delle forze di polizia con le sue foto.
E di esempi ce ne sarebbero tanti altri, ma ci siamo capiti.
Il bravo fotogiornalista è schierato, eccome. Ed è questo l’unico modo, per assurdo, di dire la verità, di essere un vero testimone. Chi dice il contrario sta barando: è schierato comunque, ma non lo dichiara.
Una frase attribuita a Jean Cocteau recita: “la fotografia è una bugia che dice la verità“. Non si tratta solo di un gioco di parole: è che davvero una foto è la verità di chi l’ha scattata. Dunque è anche falsa, in quanto non è affatto una verità universale.
Meglio di me l’ha espresso la grande fotografa Martine Franck (che tra le altre cose è stata moglie di Cartier-Bresson): “una fotografia non è necessariamente una menzogna, ma allo stesso tempo non è certo la verità. Si tratta più che altro di un’impressione, soggettiva e fugace“.
Care monadi, è bene ricordarselo!